EDITORIALE Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/opinioni/1editoriale/ Settimanale di informazione regionale Wed, 20 Nov 2024 15:00:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg EDITORIALE Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/opinioni/1editoriale/ 32 32 Il Sinodo tiene aperti gli occhi https://www.lavoce.it/il-sinodo-tiene-aperti-gli-occhi/ https://www.lavoce.it/il-sinodo-tiene-aperti-gli-occhi/#respond Wed, 20 Nov 2024 15:00:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78591 I sinodali seduti ai tavoli all'interno della basilica di San palo fuori le mura

Dire che Sinodo è innanzitutto “cammino” non è una banalità, soprattutto se si comprende la fatica di tenere ciascuno il passo dell’altro per procedere con un’andatura armonica, che rispetti la fatica dell’altro senza concentrarsi esclusivamente sulla propria. Significa abbandonare il sogno e il desiderio di mete personali per scrutare piuttosto l’orizzonte come bene comune.

L’Assemblea sinodale che si è realizzata nei giorni scorsi nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma è stata sì fortemente voluta, proposta e sospinta da Papa Francesco, ma è stata suggerita soprattutto dallo Spirito e generata dalla Storia. La scelta del luogo in cui avvenne il primo annuncio “giovanneo” diceva con tutta chiarezza che ci si poneva in continuità con quella primavera del Concilio il cui spirito attende ancora d’essere metabolizzato dalle Chiese locali.

D’altra parte non si possono più chiudere gli occhi di fronte al futuro disegnato dalla proiezione sociologica e statistica che parla di chiese, seminari e conventi che si svuotano. Nello stesso tempo – ha rilevato mons. Erio Castellucci in apertura - “per la scienza statistica una visita all’ammalato o un dialogo anche occasionale con un adolescente o l’accoglienza di un povero non ha rilevanza, a differenza delle percentuali dei praticanti o di chi si sposa in Chiesa o del numero dei seminaristi”.

Quindi l’evento-Sinodo è un ascolto dello Spirito santo e della Storia, e uno sguardo attento al bene e ai segni di speranza che sono enormemente di più di quelli che possiamo conoscere e immaginare. È questo che ha segnato la rotta dell’Assemblea sinodale, in cui è sembrato che i delegati delle Chiese si siano scrollati di dosso le preoccupazioni inutili e superflue, oltre che banali e inconcludenti, del politicamente/ecclesiasticamente corretto per risvegliare piuttosto la parresìa di chi sa di non avere nulla da perdere e tutto da guadagnare.

In questo si è respirata la profezia cui ha fatto riferimento esplicito Papa Francesco nel suo messaggio all’Assemblea: “I profeti vivono nel tempo - ha detto - , leggendolo con lo sguardo della fede, illuminato dalla Parola di Dio. Si tratta dunque di tradurre in scelte e decisioni evangeliche quanto raccolto in questi anni. E questo lo si fa nella docilità allo Spirito”.

Il mandato pertanto era a ricercare la concretezza della profezia che “è la capacità di declinare quello che del cristianesimo ‘fa la differenza’ nella cultura in cui esso è chiamato a vivere, non in un contesto ideale astorico e atemporale. La missione diventa cultura quando un’esperienza si presenta ragionevole e praticabile anche per gli altri. Qui sta la forza della profezia” (mons. Castellucci). Una profezia di popolo che è il carattere stesso della Pentecoste, che non fu un atto di singoli, dal momento che “tutti” sentivano gli apostoli parlare la propria lingua.

In questo senso sono preziose le scelte concrete rilanciate dai 100 tavoli dell’Assemblea per riformare la Chiesa nella sua capacità di comunicare, di educare all’iniziazione cristiana, di costruire la pace e la nonviolenza, di abbracciare il dialogo come cifra della relazione, di nuova corresponsabilità nelle scelte da operare, di revisione delle strutture di partecipazione, solo per fare alcuni esempi.

Temi che hanno originato proposte molte concrete che, se non vengono edulcorate da una sintesi atrofizzata dalla paura del nuovo, possono riuscire a cambiare il volto della comunità cristiana che assume lo stile della missione come battito del proprio cuore.

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I sinodali seduti ai tavoli all'interno della basilica di San palo fuori le mura

Dire che Sinodo è innanzitutto “cammino” non è una banalità, soprattutto se si comprende la fatica di tenere ciascuno il passo dell’altro per procedere con un’andatura armonica, che rispetti la fatica dell’altro senza concentrarsi esclusivamente sulla propria. Significa abbandonare il sogno e il desiderio di mete personali per scrutare piuttosto l’orizzonte come bene comune.

L’Assemblea sinodale che si è realizzata nei giorni scorsi nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma è stata sì fortemente voluta, proposta e sospinta da Papa Francesco, ma è stata suggerita soprattutto dallo Spirito e generata dalla Storia. La scelta del luogo in cui avvenne il primo annuncio “giovanneo” diceva con tutta chiarezza che ci si poneva in continuità con quella primavera del Concilio il cui spirito attende ancora d’essere metabolizzato dalle Chiese locali.

D’altra parte non si possono più chiudere gli occhi di fronte al futuro disegnato dalla proiezione sociologica e statistica che parla di chiese, seminari e conventi che si svuotano. Nello stesso tempo – ha rilevato mons. Erio Castellucci in apertura - “per la scienza statistica una visita all’ammalato o un dialogo anche occasionale con un adolescente o l’accoglienza di un povero non ha rilevanza, a differenza delle percentuali dei praticanti o di chi si sposa in Chiesa o del numero dei seminaristi”.

Quindi l’evento-Sinodo è un ascolto dello Spirito santo e della Storia, e uno sguardo attento al bene e ai segni di speranza che sono enormemente di più di quelli che possiamo conoscere e immaginare. È questo che ha segnato la rotta dell’Assemblea sinodale, in cui è sembrato che i delegati delle Chiese si siano scrollati di dosso le preoccupazioni inutili e superflue, oltre che banali e inconcludenti, del politicamente/ecclesiasticamente corretto per risvegliare piuttosto la parresìa di chi sa di non avere nulla da perdere e tutto da guadagnare.

In questo si è respirata la profezia cui ha fatto riferimento esplicito Papa Francesco nel suo messaggio all’Assemblea: “I profeti vivono nel tempo - ha detto - , leggendolo con lo sguardo della fede, illuminato dalla Parola di Dio. Si tratta dunque di tradurre in scelte e decisioni evangeliche quanto raccolto in questi anni. E questo lo si fa nella docilità allo Spirito”.

Il mandato pertanto era a ricercare la concretezza della profezia che “è la capacità di declinare quello che del cristianesimo ‘fa la differenza’ nella cultura in cui esso è chiamato a vivere, non in un contesto ideale astorico e atemporale. La missione diventa cultura quando un’esperienza si presenta ragionevole e praticabile anche per gli altri. Qui sta la forza della profezia” (mons. Castellucci). Una profezia di popolo che è il carattere stesso della Pentecoste, che non fu un atto di singoli, dal momento che “tutti” sentivano gli apostoli parlare la propria lingua.

In questo senso sono preziose le scelte concrete rilanciate dai 100 tavoli dell’Assemblea per riformare la Chiesa nella sua capacità di comunicare, di educare all’iniziazione cristiana, di costruire la pace e la nonviolenza, di abbracciare il dialogo come cifra della relazione, di nuova corresponsabilità nelle scelte da operare, di revisione delle strutture di partecipazione, solo per fare alcuni esempi.

Temi che hanno originato proposte molte concrete che, se non vengono edulcorate da una sintesi atrofizzata dalla paura del nuovo, possono riuscire a cambiare il volto della comunità cristiana che assume lo stile della missione come battito del proprio cuore.

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Le priorità nelle urne alle prossime elezioni regionali https://www.lavoce.it/le-priorita-nelle-urne-alle-prossime-elezioni-regionali/ https://www.lavoce.it/le-priorita-nelle-urne-alle-prossime-elezioni-regionali/#respond Wed, 13 Nov 2024 18:46:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78523 Un ragazzo seduto ad una tavolo di profilo, accanto si vede un'altra persona. In piedi c'è un uomo a sinistra le cabine elettorali

La campagna elettorale è in dirittura d’arrivo e ora è il momento del voto per individuare il nuovo presidente della Giunta regionale e i venti componenti dell’Assemblea legislativa umbra. Come sempre, nelle scorse settimane non sono mancate le schermaglie tra i vari candidati, in particolare fra i supporter della candidata di centrodestra Donatella Tesei e quelli di Stefania Proietti, sostenuta dal “campo largo” di centrosinistra. Sono loro due secondo attese, sondaggi e consistenza delle coalizioni che dovrebbero contendersi testa a testa la guida del nuovo “governo” regionale.

A noi interessa soprattutto invitare gli elettori umbri a partecipare al voto, senza delegare ad altri la scelta. E magari farli riflettere sull’importanza di scegliere candidati che mettano da parte ogni tipo di strumentalizzazione e attacco ‘gratuito’ agli avversari, per privilegiare le soluzioni concrete ai problemi che ogni giorno toccano i cittadini. In Umbria, lo sappiamo bene, le questioni davvero rilevanti per il territorio possono riassumersi con le dita di una mano.

La sanità pubblica e l’accesso ai servizi sanitari, in primo luogo. Tema cruciale nella nostra regione, e non solo da noi, già decisivo nelle scelte degli elettori umbri cinque anni fa, dopo le vicende giudiziarie di allora. Sembra persino scontato ribadire la necessità di un sistema sanitario pubblico efficiente e accessibile, che può fare la differenza nella qualità della vita di tante persone, perché nessuno debba mai rinunciare a curarsi per i costi troppo elevati.

Ci sono poi le questioni relative a sviluppo economico e lavoro. L’economia umbra negli ultimi anni (certo, non solo nell’ultimo lustro) ha rallentato e i giovani spesso sono costretti a lasciare la regione in cerca di migliori opportunità lavorative in Italia o all’estero. C’è bisogno di attirare investimenti, promuovere l’occupazione giovanile e sostenere le piccole e medie imprese, per invertire la tendenza.

Temi “caldi” - nel vero senso del termine - anche quelli di ambiente e gestione dei rifiuti, con nodi da sciogliere su smaltimento e incenerimento, trovando un equilibrio tra sviluppo economico e tutela ambientale.

Infine, la partita della mobilità e dei trasporti, che si gioca soprattutto sulla sostenibilità e l’accesso ai trasporti pubblici per ridurre il divario tra le aree urbane e rurali. Solo una scelta informata e consapevole può contribuire a cambiamenti positivi e concreti. Al prossimo “governo” regionale, da chiunque sia guidato, gli umbri chiedono un territorio più forte, sviluppato e inclusivo.

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Un ragazzo seduto ad una tavolo di profilo, accanto si vede un'altra persona. In piedi c'è un uomo a sinistra le cabine elettorali

La campagna elettorale è in dirittura d’arrivo e ora è il momento del voto per individuare il nuovo presidente della Giunta regionale e i venti componenti dell’Assemblea legislativa umbra. Come sempre, nelle scorse settimane non sono mancate le schermaglie tra i vari candidati, in particolare fra i supporter della candidata di centrodestra Donatella Tesei e quelli di Stefania Proietti, sostenuta dal “campo largo” di centrosinistra. Sono loro due secondo attese, sondaggi e consistenza delle coalizioni che dovrebbero contendersi testa a testa la guida del nuovo “governo” regionale.

A noi interessa soprattutto invitare gli elettori umbri a partecipare al voto, senza delegare ad altri la scelta. E magari farli riflettere sull’importanza di scegliere candidati che mettano da parte ogni tipo di strumentalizzazione e attacco ‘gratuito’ agli avversari, per privilegiare le soluzioni concrete ai problemi che ogni giorno toccano i cittadini. In Umbria, lo sappiamo bene, le questioni davvero rilevanti per il territorio possono riassumersi con le dita di una mano.

La sanità pubblica e l’accesso ai servizi sanitari, in primo luogo. Tema cruciale nella nostra regione, e non solo da noi, già decisivo nelle scelte degli elettori umbri cinque anni fa, dopo le vicende giudiziarie di allora. Sembra persino scontato ribadire la necessità di un sistema sanitario pubblico efficiente e accessibile, che può fare la differenza nella qualità della vita di tante persone, perché nessuno debba mai rinunciare a curarsi per i costi troppo elevati.

Ci sono poi le questioni relative a sviluppo economico e lavoro. L’economia umbra negli ultimi anni (certo, non solo nell’ultimo lustro) ha rallentato e i giovani spesso sono costretti a lasciare la regione in cerca di migliori opportunità lavorative in Italia o all’estero. C’è bisogno di attirare investimenti, promuovere l’occupazione giovanile e sostenere le piccole e medie imprese, per invertire la tendenza.

Temi “caldi” - nel vero senso del termine - anche quelli di ambiente e gestione dei rifiuti, con nodi da sciogliere su smaltimento e incenerimento, trovando un equilibrio tra sviluppo economico e tutela ambientale.

Infine, la partita della mobilità e dei trasporti, che si gioca soprattutto sulla sostenibilità e l’accesso ai trasporti pubblici per ridurre il divario tra le aree urbane e rurali. Solo una scelta informata e consapevole può contribuire a cambiamenti positivi e concreti. Al prossimo “governo” regionale, da chiunque sia guidato, gli umbri chiedono un territorio più forte, sviluppato e inclusivo.

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Comunione con i morti. E anche con i vivi https://www.lavoce.it/comunione-con-i-morti-e-anche-con-i-vivi/ https://www.lavoce.it/comunione-con-i-morti-e-anche-con-i-vivi/#respond Wed, 06 Nov 2024 14:32:16 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78412 Una croce metallica sopra una sepoltura a terra, sopra un mazzo di fiori

Abbiamo da poco celebrato la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti e nasce spontanea la domanda riguardo a quanto tali ricorrenze abbiano ancora una rilevanza nelle nostre famiglie che vada ben oltre il consumismo a dir poco superficiale indotto dai festeggiamenti legati invece alla conclamata notte di Halloween.

Non si vuole suggerire di “lasciare stare i santi”, con un moralismo piuttosto superficiale, ma, più propositivamente invitare a cogliere la natura originaria di queste due feste significativamente ravvicinate. Quanto anche come cristiani viviamo la consapevole speranza che molti nostri cari defunti siano effettivamente già santi al cospetto di Dio, pur senza aver ricevuto i cosiddetti “onori degli altari”?

Può essere salutare riprendere un passaggio importante fra i paragrafi iniziali dell’esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exsultate: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’” (n. 7).

È proprio così: la nostra vita è come tempestata dalle gemme che sono gli incontri con le persone che in diverso modo ci testimoniano la loro fede e ci aiutano a viverla. Spesso i primi che ci indicano una via possibile per seguire il disegno di Dio su di noi sono i nostri genitori, i nonni, altri parenti, ma anche i nostri figli, come ci indica il modello luminoso di Carlo Acutis. È per questo motivo che la festa di tutti i santi può definirsi pienamente una festa di famiglia!

Ed è chiaro che questo esercizio di condivisione può essere fatto non solo con le persone care che sono ancora in vita, ma anche con quelle che non sono più fisicamente tra noi. Questo risponderebbe pienamente all’invito della Chiesa, di fare memoria e questo può avvenire in virtù di quella comunione dei santi in cui crediamo. E allargando il cerchio di questa comunione, perché non sentirsi spronati da queste feste a cercare germi di bene nelle persone che vivono accanto a noi e che, soprattutto nelle grandi città, quasi non conosciamo? Non sarebbe male che nelle rarissime occasioni di incontro con i vicini di casa, anche gli adulti potessero fare lo sforzo di andare a salutare una persona anziana, porgerle una parola di amicizia, offrirle qualche tempo di condivisione.

Oltre all’antica devozione della visita ai cimiteri, il mese di novembre potrebbe essere un periodo fecondo di incontri e scambi anche fra i vivi, per ravvivare la fede, ma anche solo la solidarietà umana, con l’intento di colmare quelle sacche di solitudine silenziosa molto presenti soprattutto fra le persone anziane. Del resto, è la Parola di Dio che ci invita ad accogliere e incontrare l’altro, sapendo che in lui potrebbe esserci un angelo, ovvero una fiamma nascosta ma crepitante dello Spirito.

Giovanni M. Capetta
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Una croce metallica sopra una sepoltura a terra, sopra un mazzo di fiori

Abbiamo da poco celebrato la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti e nasce spontanea la domanda riguardo a quanto tali ricorrenze abbiano ancora una rilevanza nelle nostre famiglie che vada ben oltre il consumismo a dir poco superficiale indotto dai festeggiamenti legati invece alla conclamata notte di Halloween.

Non si vuole suggerire di “lasciare stare i santi”, con un moralismo piuttosto superficiale, ma, più propositivamente invitare a cogliere la natura originaria di queste due feste significativamente ravvicinate. Quanto anche come cristiani viviamo la consapevole speranza che molti nostri cari defunti siano effettivamente già santi al cospetto di Dio, pur senza aver ricevuto i cosiddetti “onori degli altari”?

Può essere salutare riprendere un passaggio importante fra i paragrafi iniziali dell’esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exsultate: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’” (n. 7).

È proprio così: la nostra vita è come tempestata dalle gemme che sono gli incontri con le persone che in diverso modo ci testimoniano la loro fede e ci aiutano a viverla. Spesso i primi che ci indicano una via possibile per seguire il disegno di Dio su di noi sono i nostri genitori, i nonni, altri parenti, ma anche i nostri figli, come ci indica il modello luminoso di Carlo Acutis. È per questo motivo che la festa di tutti i santi può definirsi pienamente una festa di famiglia!

Ed è chiaro che questo esercizio di condivisione può essere fatto non solo con le persone care che sono ancora in vita, ma anche con quelle che non sono più fisicamente tra noi. Questo risponderebbe pienamente all’invito della Chiesa, di fare memoria e questo può avvenire in virtù di quella comunione dei santi in cui crediamo. E allargando il cerchio di questa comunione, perché non sentirsi spronati da queste feste a cercare germi di bene nelle persone che vivono accanto a noi e che, soprattutto nelle grandi città, quasi non conosciamo? Non sarebbe male che nelle rarissime occasioni di incontro con i vicini di casa, anche gli adulti potessero fare lo sforzo di andare a salutare una persona anziana, porgerle una parola di amicizia, offrirle qualche tempo di condivisione.

Oltre all’antica devozione della visita ai cimiteri, il mese di novembre potrebbe essere un periodo fecondo di incontri e scambi anche fra i vivi, per ravvivare la fede, ma anche solo la solidarietà umana, con l’intento di colmare quelle sacche di solitudine silenziosa molto presenti soprattutto fra le persone anziane. Del resto, è la Parola di Dio che ci invita ad accogliere e incontrare l’altro, sapendo che in lui potrebbe esserci un angelo, ovvero una fiamma nascosta ma crepitante dello Spirito.

Giovanni M. Capetta
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Giovani che vanno a lavorare all’estero. E in Italia? https://www.lavoce.it/giovani-che-vanno-a-lavorare-allestero-e-in-italia/ https://www.lavoce.it/giovani-che-vanno-a-lavorare-allestero-e-in-italia/#respond Wed, 30 Oct 2024 17:24:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78358 una ragazza ripresa di fronte, conm la testa visibile a metà, con in mano un qiuaderno e sulle spalle uno zaino nero

Non è facile quantificare di preciso l’entità della cosiddetta “fuga di cervelli” dall’Italia all’estero, cioè quanti siano quei giovani (fino ai 34 anni) che fanno le valigie e se ne vanno all’estero a cercare miglior fortuna. Comunque, secondo uno studio presentato al Cnel dalla Fondazione Nord Est, in tredici anni, dal 2011 al 2023, circa 550 mila giovani italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati.

Il problema vero è che una fetta consistente di questa gioventù era assai ben formata: laureati di qualità (medici, ingegneri…) su cui il Paese aveva fatto un bell’investimento, ma i cui frutti saranno goduti da Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia. Queste le mete più gettonate.

Altro problema: questa diaspora non è compensata da altrettanti arrivi dall’estero. Sempre quel rapporto segnala che arriva un giovane straniero con ottima formazione ogni 8 italiani espatriati. La ragione è chiarissima: non ci sono in Italia le condizioni migliori per sviluppare una carriera lavorativa. Né per gli italiani, né per gli stranieri.

Retribuzioni iniziali quasi offensive, zero spazio ai più giovani in azienda, carriere lentissime, tassazione asfissiante. Giusto quindi cercare fortuna laddove si sa valorizzare sia la competenza che la freschezza. E chiaramente ha poco senso per un neo-medico tedesco venire a lavorare qui in Italia (a Bolzano, ad esempio), dove guadagnerà la metà che a casa propria.

Il recente Decreto flussi ha aperto le porte a quasi mezzo milione di lavoratori stranieri in tre anni: il via libera più imponente da decenni, ma già valutato da subito come insufficiente.  Ma qui stiamo facendo discorsi con lo ‘spannometro’: che tipo di lavoratori stranieri serviranno all’Italia del futuro? Di tutti i tipi: solo che badanti e autisti in qualche modo si possono trovare o inventare. Infermieri e ingegneri no. E senza infermieri, ad esempio, non funzionano le case di riposo o l’assistenza domiciliare.

In una recente selezione ai corsi universitari per infermieri in una città del Nord, su 98 posti disponibili si sono presentati 80 candidati: la selezione quindi è stata totalmente inutile, è passato anche chi aveva preso un punto su 100 alla prova d’esame. E poi non tutti gli 80 arriveranno alla meta. Speriamo quindi nella rapida invenzione di robot che sappiano fare iniezioni e medicazioni…

Nicola Salvagnin]]>
una ragazza ripresa di fronte, conm la testa visibile a metà, con in mano un qiuaderno e sulle spalle uno zaino nero

Non è facile quantificare di preciso l’entità della cosiddetta “fuga di cervelli” dall’Italia all’estero, cioè quanti siano quei giovani (fino ai 34 anni) che fanno le valigie e se ne vanno all’estero a cercare miglior fortuna. Comunque, secondo uno studio presentato al Cnel dalla Fondazione Nord Est, in tredici anni, dal 2011 al 2023, circa 550 mila giovani italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati.

Il problema vero è che una fetta consistente di questa gioventù era assai ben formata: laureati di qualità (medici, ingegneri…) su cui il Paese aveva fatto un bell’investimento, ma i cui frutti saranno goduti da Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia. Queste le mete più gettonate.

Altro problema: questa diaspora non è compensata da altrettanti arrivi dall’estero. Sempre quel rapporto segnala che arriva un giovane straniero con ottima formazione ogni 8 italiani espatriati. La ragione è chiarissima: non ci sono in Italia le condizioni migliori per sviluppare una carriera lavorativa. Né per gli italiani, né per gli stranieri.

Retribuzioni iniziali quasi offensive, zero spazio ai più giovani in azienda, carriere lentissime, tassazione asfissiante. Giusto quindi cercare fortuna laddove si sa valorizzare sia la competenza che la freschezza. E chiaramente ha poco senso per un neo-medico tedesco venire a lavorare qui in Italia (a Bolzano, ad esempio), dove guadagnerà la metà che a casa propria.

Il recente Decreto flussi ha aperto le porte a quasi mezzo milione di lavoratori stranieri in tre anni: il via libera più imponente da decenni, ma già valutato da subito come insufficiente.  Ma qui stiamo facendo discorsi con lo ‘spannometro’: che tipo di lavoratori stranieri serviranno all’Italia del futuro? Di tutti i tipi: solo che badanti e autisti in qualche modo si possono trovare o inventare. Infermieri e ingegneri no. E senza infermieri, ad esempio, non funzionano le case di riposo o l’assistenza domiciliare.

In una recente selezione ai corsi universitari per infermieri in una città del Nord, su 98 posti disponibili si sono presentati 80 candidati: la selezione quindi è stata totalmente inutile, è passato anche chi aveva preso un punto su 100 alla prova d’esame. E poi non tutti gli 80 arriveranno alla meta. Speriamo quindi nella rapida invenzione di robot che sappiano fare iniezioni e medicazioni…

Nicola Salvagnin]]>
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La Terza guerra mondiale può essere evitata? https://www.lavoce.it/la-terza-guerra-mondiale-puo-essere-evitata/ https://www.lavoce.it/la-terza-guerra-mondiale-puo-essere-evitata/#respond Wed, 23 Oct 2024 10:40:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78140 macerie lungo una strada, uomini che con pale le raccolgono, altri uomini e bambini guardano sullo sfondo

Un incendio tanto più è indomabile quanto più deriva dall’innesco di diversi focolai. Il vertice Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) annuncia altri passi verso il multipolarismo, tra cui la de-dollarizzazione dei mercati. La Nato, con il plauso baltico-polacco, allestisce in Nord Europa una maxi-esercitazione per lo scenario di una guerra nucleare con la Russia. La Cina invece simula il blocco navale di Taiwan, a monito del sostegno Usa all’indipendenza dell’isola, funzionale a preservare il monopolio sull’Indo-Pacifico.

Intanto, significa molto la freddezza verso il “Piano della vittoria” svelato da Zelensky in tema di ingresso di Kiev nella Nato, e l’installazione di basi missilistiche. Considerando che entrambi i punti corrispondono al motivo primario dell’invasione russa, è altresì inverosimile che il Piano sia spendibile come leva negoziale con Mosca, per quanto allettante sia la contropartita offerta all’Occidente: sfruttamento estero delle risorse minerarie nazionali e subentro nelle basi europee dei militari ucraini (posto che ve ne siano a sufficienza) a quelli statunitensi, da liberare per altre sfide.

Tutt’altro discorso vale per il Medioriente. Quale che sia il suo inquilino, la Casa Bianca resta in ostaggio di Israele, non potendogli negare sostegno: al netto degli interessi geostrategici sull’avamposto israeliano, pesa l’influenza ebraica interna agli Usa, unita a quella delle Chiese evangeliche e dei cristianosionisti in genere, che condiscono di sincretismi rituali l’attesa escatologica del giorno in cui anche l’Israele vittorioso riconoscerà in Cristo il Messia.

Se Israele trascinerà in guerra l’Iran, il blocco del petrolio verso l’Asia sarebbe un reagente eccitativo sul Pacifico. Le petrolmonarchie sarebbero sempre più sospinte in direzione Brics, indisposte nei confronti di chi mette a rischio i loro traffici vitali. Senza contare il surplus del supporto tecnologico-militare ai pasdaran, che proverrebbe dalla Russia, intenta a preservarsi le proiezioni sui mari caldi: la destabilizzazione siriana è già servita a farle stringere solidarietà funzionali con Teheran.

Analogamente il conflitto in Ucraina, mentre ha cementato la subalternità Ue a Washington, d’altra parte ha spinto la Russia nelle braccia della Cina, sua antica rivale. Mentre le cortine commerciali sollevate dall’Occidente hanno indotto Pechino a connubi con un vicinato fino a ieri in orbita statunitense. Si tratta degli effetti paradossali derivanti dalla strategia dei disimpegni regionali avviati dagli Usa per concentrarsi sul Dragone. Eppure Washington oggi si trova implicata all’unisono su più polveriere, in cui la cura degli equilibri sembra l’ultimo dei pensieri.

Sicché le domande sulla terza guerra mondiale, più che il “se”, riguardano il “come” e il “quando”. Il rapporto di luglio della Commissione al Congresso per la Strategia nazionale di difesa raccomanda l’omologazione delle forze alleate alle direttive Usa, piani di reclutamento e la mobilitazione totale (dall’economia all’informazione alle scuole) per affrontare il nemico alle porte. Sono segnali dello snodo epocale di un ciclo egemonico, che tipicamente si consuma con eventi traumatici, inclusa la tentazione di rovesciare il tavolo pur di non fallire. Saggiare i ricorsi storici non significa però rassegnarsi con fatalismo. Il passato ingiunga di sterzare dalla traiettoria che si para innanzi.

Giuseppe Casale Pontificia università lateranense]]>
macerie lungo una strada, uomini che con pale le raccolgono, altri uomini e bambini guardano sullo sfondo

Un incendio tanto più è indomabile quanto più deriva dall’innesco di diversi focolai. Il vertice Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) annuncia altri passi verso il multipolarismo, tra cui la de-dollarizzazione dei mercati. La Nato, con il plauso baltico-polacco, allestisce in Nord Europa una maxi-esercitazione per lo scenario di una guerra nucleare con la Russia. La Cina invece simula il blocco navale di Taiwan, a monito del sostegno Usa all’indipendenza dell’isola, funzionale a preservare il monopolio sull’Indo-Pacifico.

Intanto, significa molto la freddezza verso il “Piano della vittoria” svelato da Zelensky in tema di ingresso di Kiev nella Nato, e l’installazione di basi missilistiche. Considerando che entrambi i punti corrispondono al motivo primario dell’invasione russa, è altresì inverosimile che il Piano sia spendibile come leva negoziale con Mosca, per quanto allettante sia la contropartita offerta all’Occidente: sfruttamento estero delle risorse minerarie nazionali e subentro nelle basi europee dei militari ucraini (posto che ve ne siano a sufficienza) a quelli statunitensi, da liberare per altre sfide.

Tutt’altro discorso vale per il Medioriente. Quale che sia il suo inquilino, la Casa Bianca resta in ostaggio di Israele, non potendogli negare sostegno: al netto degli interessi geostrategici sull’avamposto israeliano, pesa l’influenza ebraica interna agli Usa, unita a quella delle Chiese evangeliche e dei cristianosionisti in genere, che condiscono di sincretismi rituali l’attesa escatologica del giorno in cui anche l’Israele vittorioso riconoscerà in Cristo il Messia.

Se Israele trascinerà in guerra l’Iran, il blocco del petrolio verso l’Asia sarebbe un reagente eccitativo sul Pacifico. Le petrolmonarchie sarebbero sempre più sospinte in direzione Brics, indisposte nei confronti di chi mette a rischio i loro traffici vitali. Senza contare il surplus del supporto tecnologico-militare ai pasdaran, che proverrebbe dalla Russia, intenta a preservarsi le proiezioni sui mari caldi: la destabilizzazione siriana è già servita a farle stringere solidarietà funzionali con Teheran.

Analogamente il conflitto in Ucraina, mentre ha cementato la subalternità Ue a Washington, d’altra parte ha spinto la Russia nelle braccia della Cina, sua antica rivale. Mentre le cortine commerciali sollevate dall’Occidente hanno indotto Pechino a connubi con un vicinato fino a ieri in orbita statunitense. Si tratta degli effetti paradossali derivanti dalla strategia dei disimpegni regionali avviati dagli Usa per concentrarsi sul Dragone. Eppure Washington oggi si trova implicata all’unisono su più polveriere, in cui la cura degli equilibri sembra l’ultimo dei pensieri.

Sicché le domande sulla terza guerra mondiale, più che il “se”, riguardano il “come” e il “quando”. Il rapporto di luglio della Commissione al Congresso per la Strategia nazionale di difesa raccomanda l’omologazione delle forze alleate alle direttive Usa, piani di reclutamento e la mobilitazione totale (dall’economia all’informazione alle scuole) per affrontare il nemico alle porte. Sono segnali dello snodo epocale di un ciclo egemonico, che tipicamente si consuma con eventi traumatici, inclusa la tentazione di rovesciare il tavolo pur di non fallire. Saggiare i ricorsi storici non significa però rassegnarsi con fatalismo. Il passato ingiunga di sterzare dalla traiettoria che si para innanzi.

Giuseppe Casale Pontificia università lateranense]]>
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Orticelli politici, pure esasperati https://www.lavoce.it/orticelli-politici-pure-esasperati/ https://www.lavoce.it/orticelli-politici-pure-esasperati/#respond Wed, 16 Oct 2024 13:39:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77996

Il nostro sistema politico a volte appare inadeguato ad affrontare le grandi sfide di questo tempo difficile e complesso. È un problema di regole e di procedure – e per questo il dibattito sulle riforme istituzionali merita la massima attenzione da parte dei cittadini –, ma anche e forse soprattutto di comportamenti. Pesa in particolare la tendenza dei partiti a concentrarsi sugli interessi di quelli che vengono considerati gli elettorati di riferimento.

La prima preoccupazione è fidelizzare i propri sostenitori. Compiacere chi sventola la stessa bandiera. Questa tendenza rende la politica angusta, asfittica. Impedisce di guardare oltre i confini del proprio orto ideologico. Intendiamoci, qualcosa di simile accadeva anche prima, si potrebbe perfino dire che in una certa misura sia sempre accaduto. Ma ora si è arrivati al paradosso che, anche quando si individuano e si percorrono strade più ampie e magari più corrispondenti agli interessi generali del Paese, quasi lo si nasconde con le armi della retorica. Come se ci si dovesse vergognare nell’anteporre il bene comune a quello della propria fazione. Ovviamente incorrono assai più facilmente in questa perversione le forze che devono misurarsi con le scelte di governo. La concretezza dei problemi lascia spesso intravedere soluzioni ragionevoli e tuttavia, nelle decisioni operative come nella comunicazione pubblica, il più delle volte finiscono per essere privilegiati i cavalli di battaglia che si presumono graditi ai propri sostenitori tradizionali.

Ma anche sul versante delle opposizioni i totem ideologici sono oggetto di una particolare venerazione. Anche a costo di tagliar fuori fasce di elettorato potenzialmente aperte a valutare proposte responsabili, e compromettere così la possibilità di costruire alternative agli attuali equilibri elettorali e parlamentari. Questa politica delle “curve” – nel senso degli stadi calcistici – è una delle cause dell’astensionismo crescente. Non l’unica, ma una delle più robuste.

Ci sono milioni di cittadini che restano alla finestra perché non si riconoscono nell’estremizzazione delle posizioni che caratterizza l’offerta politica in questa fase. Proprio l’esistenza di quest’area enormemente vasta – nelle europee dello scorso giugno l’affluenza non è arrivata alla metà degli aventi diritto – evidenzia gli spazi che si aprirebbero per una politica diversa da parte degli stessi soggetti attualmente in campo o di altri che eventualmente sopraggiungessero. Invece la polarizzazione esasperata ha finito per invadere anche l’ambito che per definizione dovrebbe essere tenuto al riparo dagli eccessi delle rispettive tifoserie, dalle forzature muscolari e revansciste e dalle reazioni aprioristicamente difensive: quello delle istituzioni e delle relative riforme.

A fronte di questa deriva vale la pena riportare le parole di Roberto Ruffilli che l’autorevole rivista Il Mulino, diretta da Paolo Pombeni, pone in testa all’ultimo numero, largamente dedicato proprio al tema delle riforme: “Bisogna impegnarsi nella sfida per costringere le forze politiche a esplicitare la portata effettiva dell’apertura a una ricerca in comune di ‘compromessi ragionevoli’ sulle priorità e le scadenze che consentano di dare gradualità e organicità al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni manovra strumentale”. Non si trattava di un innocuo auspicio. Il testo citato è dell’inizio del 1988. Poco dopo, il 16 aprile di quello stesso anno, Ruffilli veniva ucciso dalle Brigate rosse. La mediazione autentica ha sempre molti nemici.

Stefano De Martis
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Il nostro sistema politico a volte appare inadeguato ad affrontare le grandi sfide di questo tempo difficile e complesso. È un problema di regole e di procedure – e per questo il dibattito sulle riforme istituzionali merita la massima attenzione da parte dei cittadini –, ma anche e forse soprattutto di comportamenti. Pesa in particolare la tendenza dei partiti a concentrarsi sugli interessi di quelli che vengono considerati gli elettorati di riferimento.

La prima preoccupazione è fidelizzare i propri sostenitori. Compiacere chi sventola la stessa bandiera. Questa tendenza rende la politica angusta, asfittica. Impedisce di guardare oltre i confini del proprio orto ideologico. Intendiamoci, qualcosa di simile accadeva anche prima, si potrebbe perfino dire che in una certa misura sia sempre accaduto. Ma ora si è arrivati al paradosso che, anche quando si individuano e si percorrono strade più ampie e magari più corrispondenti agli interessi generali del Paese, quasi lo si nasconde con le armi della retorica. Come se ci si dovesse vergognare nell’anteporre il bene comune a quello della propria fazione. Ovviamente incorrono assai più facilmente in questa perversione le forze che devono misurarsi con le scelte di governo. La concretezza dei problemi lascia spesso intravedere soluzioni ragionevoli e tuttavia, nelle decisioni operative come nella comunicazione pubblica, il più delle volte finiscono per essere privilegiati i cavalli di battaglia che si presumono graditi ai propri sostenitori tradizionali.

Ma anche sul versante delle opposizioni i totem ideologici sono oggetto di una particolare venerazione. Anche a costo di tagliar fuori fasce di elettorato potenzialmente aperte a valutare proposte responsabili, e compromettere così la possibilità di costruire alternative agli attuali equilibri elettorali e parlamentari. Questa politica delle “curve” – nel senso degli stadi calcistici – è una delle cause dell’astensionismo crescente. Non l’unica, ma una delle più robuste.

Ci sono milioni di cittadini che restano alla finestra perché non si riconoscono nell’estremizzazione delle posizioni che caratterizza l’offerta politica in questa fase. Proprio l’esistenza di quest’area enormemente vasta – nelle europee dello scorso giugno l’affluenza non è arrivata alla metà degli aventi diritto – evidenzia gli spazi che si aprirebbero per una politica diversa da parte degli stessi soggetti attualmente in campo o di altri che eventualmente sopraggiungessero. Invece la polarizzazione esasperata ha finito per invadere anche l’ambito che per definizione dovrebbe essere tenuto al riparo dagli eccessi delle rispettive tifoserie, dalle forzature muscolari e revansciste e dalle reazioni aprioristicamente difensive: quello delle istituzioni e delle relative riforme.

A fronte di questa deriva vale la pena riportare le parole di Roberto Ruffilli che l’autorevole rivista Il Mulino, diretta da Paolo Pombeni, pone in testa all’ultimo numero, largamente dedicato proprio al tema delle riforme: “Bisogna impegnarsi nella sfida per costringere le forze politiche a esplicitare la portata effettiva dell’apertura a una ricerca in comune di ‘compromessi ragionevoli’ sulle priorità e le scadenze che consentano di dare gradualità e organicità al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni manovra strumentale”. Non si trattava di un innocuo auspicio. Il testo citato è dell’inizio del 1988. Poco dopo, il 16 aprile di quello stesso anno, Ruffilli veniva ucciso dalle Brigate rosse. La mediazione autentica ha sempre molti nemici.

Stefano De Martis
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Sporchi interessi dietro i missili https://www.lavoce.it/sporchi-interessi-dietro-i-missili/ https://www.lavoce.it/sporchi-interessi-dietro-i-missili/#respond Wed, 09 Oct 2024 17:13:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77901

A un anno di distanza, in Medio Oriente la marcia verso la guerra totale subisce nuove accelerazioni. Dal canto suo, Netanyahu recupera dal lessico di George W. Bush la formula della “lotta all’asse del male”. L’operazione “Promessa vera 2” ha rotto gli indugi. Quella del 14 aprile fu lanciata a due settimane dall’attacco alla sede diplomatica a Damasco. Stavolta la rappresaglia pendeva da più tempo: dal 31 luglio, giorno dell’omicidio a Teheran di Haniyeh, leader di Hamas, sospesa in cambio di una tregua a Gaza. Poi la serie di altri colpi, fino all’operazione “Ordine nuovo” sul Libano e le uccisioni di Nasrallah e del generale iraniano Nilforoushan. La goccia della tracimazione si è ingrossata con il discorso rivolto da Netanyahu al popolo iraniano: un misto di minaccia e invito alla sollevazione contro una teocrazia che semina guerre nei cinque Continenti. L’Iran ha voluto riaffermare la deterrenza, quando il temporeggiamento è parso sulla soglia oltre la quale si chiama debolezza. E si è ritenuto che il lungo rinvio della risposta – comunque lanciata previo avviso a Washington – avesse già maturato l’intento di scongiurare la reazione a caldo degli Usa, il cui establishment, in Iran come altrove, viene giudicato impulsivo e di vista corta. Infine Teheran ha voluto marcare le differenze, contrapponendo la risposta calibrata sulla legalità internazionale alle abnormi violazioni di Israele, che aggiorna la sua dottrina del “cane pazzo” nelle mattanze indiscriminate a Gaza, mentre in Libano è già catastrofe umanitaria e si sventra un quartiere per uccidere Nasrallah mentre questi stava dialogando con Francia e Usa. Ma ciò non basta a interrompere i raid sul Libano, che hanno tre “pregi”: non contrariare i sudditi delle petrolmonarchie sunnite, rilanciare i consensi interni a Netanyahu e propiziare altri inneschi per coinvolgere gli Usa. Eventualità perseguita anche tentando l’invasione terrestre, che si scontra con la preparazione dei guerriglieri sciiti di Hezbollah e un’Idf (esercito israeliano) inadatta a guerre lunghe e multifronte. Nel frattempo i caschi blu Unifil, lì dal 1978 per interporsi, passivi schivano i colpi. Mentre pensa a cosa colpire dell’Iran (anche siti nucleari?), il Governo israeliano mette nel mirino anche la Siria. La quale, assieme a Iran, Libano, Iraq, Gaza, Cisgiordania e Yemen, è implicata nel “Nuovo ordine mediorientale” illustrato da Netanyahu all’Assemblea Onu. Osservando bene, si nota che ad accomunare i “benedetti” (democrazie o sultanismi feudali che siano) è la partecipazione al corridoio tra India ed Europa, siglato al G20 di Nuova Delhi un mese prima dell’assalto del 7 ottobre. Il fattore economico concorre a spiegare l’escalation e la proietta nella cornice di contese più ampie. Che non lasciano indifferenti Mosca, dati i nessi geostrategici tra la destabilizzazione siriana e l’atlantizzazione del Mar Nero per interposta Ucraina. L’interruttore per spegnere la miccia sta a Washington. Ma osta l’influenza dei profeti neo-conservatori incistati negli apparati, e trasversali ai due partiti. Ma fin dove spingersi? Fino una guerra totale? Del tipo che l’acribia geopolitica di Papa Francesco paventa all’orizzonte. Parlando in Lussemburgo, il Santo Padre ha sostituito la formula “terza guerra mondiale a pezzi” con quella di “guerra ormai quasi mondiale”: un passo avanti verso il baratro, sospinto da brame interconnesse, coltivate all’ombra di “missioni storiche” nel sopore di molte menti e di troppe coscienze. Giuseppe Casale Pontificia università lateranense]]>

A un anno di distanza, in Medio Oriente la marcia verso la guerra totale subisce nuove accelerazioni. Dal canto suo, Netanyahu recupera dal lessico di George W. Bush la formula della “lotta all’asse del male”. L’operazione “Promessa vera 2” ha rotto gli indugi. Quella del 14 aprile fu lanciata a due settimane dall’attacco alla sede diplomatica a Damasco. Stavolta la rappresaglia pendeva da più tempo: dal 31 luglio, giorno dell’omicidio a Teheran di Haniyeh, leader di Hamas, sospesa in cambio di una tregua a Gaza. Poi la serie di altri colpi, fino all’operazione “Ordine nuovo” sul Libano e le uccisioni di Nasrallah e del generale iraniano Nilforoushan. La goccia della tracimazione si è ingrossata con il discorso rivolto da Netanyahu al popolo iraniano: un misto di minaccia e invito alla sollevazione contro una teocrazia che semina guerre nei cinque Continenti. L’Iran ha voluto riaffermare la deterrenza, quando il temporeggiamento è parso sulla soglia oltre la quale si chiama debolezza. E si è ritenuto che il lungo rinvio della risposta – comunque lanciata previo avviso a Washington – avesse già maturato l’intento di scongiurare la reazione a caldo degli Usa, il cui establishment, in Iran come altrove, viene giudicato impulsivo e di vista corta. Infine Teheran ha voluto marcare le differenze, contrapponendo la risposta calibrata sulla legalità internazionale alle abnormi violazioni di Israele, che aggiorna la sua dottrina del “cane pazzo” nelle mattanze indiscriminate a Gaza, mentre in Libano è già catastrofe umanitaria e si sventra un quartiere per uccidere Nasrallah mentre questi stava dialogando con Francia e Usa. Ma ciò non basta a interrompere i raid sul Libano, che hanno tre “pregi”: non contrariare i sudditi delle petrolmonarchie sunnite, rilanciare i consensi interni a Netanyahu e propiziare altri inneschi per coinvolgere gli Usa. Eventualità perseguita anche tentando l’invasione terrestre, che si scontra con la preparazione dei guerriglieri sciiti di Hezbollah e un’Idf (esercito israeliano) inadatta a guerre lunghe e multifronte. Nel frattempo i caschi blu Unifil, lì dal 1978 per interporsi, passivi schivano i colpi. Mentre pensa a cosa colpire dell’Iran (anche siti nucleari?), il Governo israeliano mette nel mirino anche la Siria. La quale, assieme a Iran, Libano, Iraq, Gaza, Cisgiordania e Yemen, è implicata nel “Nuovo ordine mediorientale” illustrato da Netanyahu all’Assemblea Onu. Osservando bene, si nota che ad accomunare i “benedetti” (democrazie o sultanismi feudali che siano) è la partecipazione al corridoio tra India ed Europa, siglato al G20 di Nuova Delhi un mese prima dell’assalto del 7 ottobre. Il fattore economico concorre a spiegare l’escalation e la proietta nella cornice di contese più ampie. Che non lasciano indifferenti Mosca, dati i nessi geostrategici tra la destabilizzazione siriana e l’atlantizzazione del Mar Nero per interposta Ucraina. L’interruttore per spegnere la miccia sta a Washington. Ma osta l’influenza dei profeti neo-conservatori incistati negli apparati, e trasversali ai due partiti. Ma fin dove spingersi? Fino una guerra totale? Del tipo che l’acribia geopolitica di Papa Francesco paventa all’orizzonte. Parlando in Lussemburgo, il Santo Padre ha sostituito la formula “terza guerra mondiale a pezzi” con quella di “guerra ormai quasi mondiale”: un passo avanti verso il baratro, sospinto da brame interconnesse, coltivate all’ombra di “missioni storiche” nel sopore di molte menti e di troppe coscienze. Giuseppe Casale Pontificia università lateranense]]>
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Il ritorno dei referendum https://www.lavoce.it/il-ritorno-dei-referendum/ https://www.lavoce.it/il-ritorno-dei-referendum/#respond Wed, 02 Oct 2024 12:00:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77817

Tornano i referendum abrogativi. Riguardano autonomia differenziata, Jobs Act e cittadinanza, per un totale di sette quesiti che ora dovranno superare il vaglio di ammissibilità alla Corte costituzionale. Il responso è atteso per gennaio. Ma sull’autonomia ci sarà un primo passaggio cruciale già a novembre, quando la Consulta esaminerà i ricorsi che le Regioni guidate dal centro-sinistra hanno presentato utilizzando il canale diretto previsto dalla Costituzione. Perché il procedimento possa avere luogo, esse dovranno innanzitutto dimostrare che la legge Calderoli lede i loro interessi: è un caso giuridicamente molto sensibile, ulteriormente complicato dal fatto che non solo il Governo si costituirà in giudizio per difendere la legge, ma anche il Veneto impugnerà i ricorsi delle altre Regioni. Ma a cosa è dovuto questo ritorno? Le ultime consultazioni risalgono al 2022, quando sui quesiti in materia di giustizia si raggiunse a stento una partecipazione del 20%, abissalmente lontana dal quorum richiesto. Poi bisogna risalire al 2016, al quesito contro le trivellazioni marine, con un’affluenza che si fermò poco oltre il 30%. La tornata precedente, nell’ormai lontano 2011, fu l’ultima in cui i votanti superarono la soglia del 50% necessaria per la validità della consultazione; in quella circostanza vennero abrogate norme in diversi ambiti, dal nucleare all’acqua pubblica. Da allora, complice il progressivo incremento dell’astensionismo elettorale a ogni livello, il raggiungimento del quorum è diventato un ostacolo quasi insuperabile e questo ha sistematicamente scoraggiato altre iniziative. Come interpretare, dunque, la nuova impennata referendaria? È un segnale che può essere ricondotto alla crisi della rappresentanza politica tradizionale, ma è anche il sintomo di una vitalità democratica che non trova altri strumenti per esprimersi e coglie le opportunità offerte da iniziative che vanno al di là della pura e semplice dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione. Un dato nuovo è quello della possibilità della firma digitale. Il potenziale di tale innovazione è emerso con chiarezza a proposito del referendum sulla cittadinanza, il cui quesito è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 5 settembre e ha raggiunto il tetto delle 500 mila firme in meno di un mese. Tempi e costi della raccolta delle firme cambiano radicalmente, se basta un click. Il mezzo milione di sottoscrizioni diventa un obiettivo alla portata di molti, anche se poi (ammesso che la Consulta dia il via libera) bisogna portare alle urne 25 milioni di elettori perché la consultazione sia valida. C’è il rischio di ritrovarsi con referendum a raffica che non conducono a nulla: un terribile boomerang per la partecipazione. Ecco perché si discute dell’ipotesi di aumentare drasticamente il numero delle firme da raccogliere e, allo stesso tempo, di abbassare il quorum nelle urne rapportandolo al numero dei votanti alle ultime elezioni politiche, e non a quello degli aventi diritto in astratto. Qui, oltre agli aspetti tecnici, si impone una riflessione sul senso complessivo dello strumento referendario in una democrazia rappresentativa. Da un lato, infatti, bisogna scongiurare il pericolo che un uso distorto dei referendum possa indurre una deriva plebiscitaria del sistema; dall’altro la valorizzazione delle forme di democrazia diretta può costituire un utile bilanciamento a fronte di un ruolo sempre più forte dell’Esecutivo, tanto più nella prospettiva di un’eventuale riforma del premierato. Stefano De Martis]]>

Tornano i referendum abrogativi. Riguardano autonomia differenziata, Jobs Act e cittadinanza, per un totale di sette quesiti che ora dovranno superare il vaglio di ammissibilità alla Corte costituzionale. Il responso è atteso per gennaio. Ma sull’autonomia ci sarà un primo passaggio cruciale già a novembre, quando la Consulta esaminerà i ricorsi che le Regioni guidate dal centro-sinistra hanno presentato utilizzando il canale diretto previsto dalla Costituzione. Perché il procedimento possa avere luogo, esse dovranno innanzitutto dimostrare che la legge Calderoli lede i loro interessi: è un caso giuridicamente molto sensibile, ulteriormente complicato dal fatto che non solo il Governo si costituirà in giudizio per difendere la legge, ma anche il Veneto impugnerà i ricorsi delle altre Regioni. Ma a cosa è dovuto questo ritorno? Le ultime consultazioni risalgono al 2022, quando sui quesiti in materia di giustizia si raggiunse a stento una partecipazione del 20%, abissalmente lontana dal quorum richiesto. Poi bisogna risalire al 2016, al quesito contro le trivellazioni marine, con un’affluenza che si fermò poco oltre il 30%. La tornata precedente, nell’ormai lontano 2011, fu l’ultima in cui i votanti superarono la soglia del 50% necessaria per la validità della consultazione; in quella circostanza vennero abrogate norme in diversi ambiti, dal nucleare all’acqua pubblica. Da allora, complice il progressivo incremento dell’astensionismo elettorale a ogni livello, il raggiungimento del quorum è diventato un ostacolo quasi insuperabile e questo ha sistematicamente scoraggiato altre iniziative. Come interpretare, dunque, la nuova impennata referendaria? È un segnale che può essere ricondotto alla crisi della rappresentanza politica tradizionale, ma è anche il sintomo di una vitalità democratica che non trova altri strumenti per esprimersi e coglie le opportunità offerte da iniziative che vanno al di là della pura e semplice dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione. Un dato nuovo è quello della possibilità della firma digitale. Il potenziale di tale innovazione è emerso con chiarezza a proposito del referendum sulla cittadinanza, il cui quesito è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 5 settembre e ha raggiunto il tetto delle 500 mila firme in meno di un mese. Tempi e costi della raccolta delle firme cambiano radicalmente, se basta un click. Il mezzo milione di sottoscrizioni diventa un obiettivo alla portata di molti, anche se poi (ammesso che la Consulta dia il via libera) bisogna portare alle urne 25 milioni di elettori perché la consultazione sia valida. C’è il rischio di ritrovarsi con referendum a raffica che non conducono a nulla: un terribile boomerang per la partecipazione. Ecco perché si discute dell’ipotesi di aumentare drasticamente il numero delle firme da raccogliere e, allo stesso tempo, di abbassare il quorum nelle urne rapportandolo al numero dei votanti alle ultime elezioni politiche, e non a quello degli aventi diritto in astratto. Qui, oltre agli aspetti tecnici, si impone una riflessione sul senso complessivo dello strumento referendario in una democrazia rappresentativa. Da un lato, infatti, bisogna scongiurare il pericolo che un uso distorto dei referendum possa indurre una deriva plebiscitaria del sistema; dall’altro la valorizzazione delle forme di democrazia diretta può costituire un utile bilanciamento a fronte di un ruolo sempre più forte dell’Esecutivo, tanto più nella prospettiva di un’eventuale riforma del premierato. Stefano De Martis]]>
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Ogni news ha un limite https://www.lavoce.it/ogni-news-ha-un-limite/ https://www.lavoce.it/ogni-news-ha-un-limite/#respond Wed, 25 Sep 2024 14:03:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77733 giornali piegati

Sfogliando i quotidiani di giornata, facendo zapping tra i Tg di questo o quel canale, ascoltando la radio in auto o navigando in Rete, ho spesso una sensazione quasi di soffocamento. Da un conflitto all’altro, fra l’escalation di giornata e l’ennesima trattativa di pace, territori e città martoriati prima dagli incendi e poco dopo dalle alluvioni, e poi i barconi dei migranti inghiottiti dai mari coi sogni dei loro passeggeri, bimbi appena nati e sepolti in giardino, omicidi, femminicidi e altre violenze neppure immaginabili, dentro e fuori le famiglie, per strada, a volte senza neppure un ‘perché’.

A voi non capita di dover aprire la finestra per prendere una boccata di ossigeno di fronte a tutto ciò? Per carità, niente di nuovo. Nulla che non abbiamo già sentito fin da quando l’uomo e la donna hanno iniziato a popolare la Terra. Ma spesso si ha la sensazione che il limite – quello che ogni operatore dell’informazione dovrebbe darsi – si sposta sempre più in là, sempre di più verso confini inesplorati e pericolosi.

Un limite che non riguarda solo i giornalisti, che pure sarebbero tenuti a osservare un’etica e una deontologia professionali, ma che interpella anche autori, fotografi, videomaker, registi, grafici e gli stessi vertici di ogni impresa chiamata a fare informazione e comunicazione. E non voglio nemmeno aprire il “vaso di Pandora” dei social media, perché i mali che ne uscirebbero fuori potrebbero affondare del tutto le nostre riflessioni.

Allora, meglio tornare alla speranza. Come quella che sta nel tema che Papa Francesco ha scelto per la 59a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra nel 2025, e che è stato reso noto proprio in questi giorni. “Condividete con mitezza la speranza che sta nei vostri cuori” è il passaggio della Prima lettera di Pietro al quale il Santo Padre si è ispirato. Ci fa riflettere sul fatto che “oggi troppo spesso la comunicazione è violenta, mirata a colpire e non a stabilire i presupposti per il dialogo; è quindi necessario disarmare la comunicazione, purificarla dall’aggressività; dai talk show televisivi alle guerre verbali sui social il paradigma che rischia di prevalere è quello della competizione, contrapposizione e volontà di dominio”.

Per chiudere, attingiamo ancora alle cronache degli ultimi giorni: al cinquantenne modenese che ha appena strangolato la madre ottantenne e confessa tutto al microfono dell’ infotainment televisivo pomeridiano di turno, prima ancora che ai carabinieri. Ecco, è quello il confine tra tenere accesi microfono e telecamera, oppure decidere di spegnerli per non superare il limite.

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giornali piegati

Sfogliando i quotidiani di giornata, facendo zapping tra i Tg di questo o quel canale, ascoltando la radio in auto o navigando in Rete, ho spesso una sensazione quasi di soffocamento. Da un conflitto all’altro, fra l’escalation di giornata e l’ennesima trattativa di pace, territori e città martoriati prima dagli incendi e poco dopo dalle alluvioni, e poi i barconi dei migranti inghiottiti dai mari coi sogni dei loro passeggeri, bimbi appena nati e sepolti in giardino, omicidi, femminicidi e altre violenze neppure immaginabili, dentro e fuori le famiglie, per strada, a volte senza neppure un ‘perché’.

A voi non capita di dover aprire la finestra per prendere una boccata di ossigeno di fronte a tutto ciò? Per carità, niente di nuovo. Nulla che non abbiamo già sentito fin da quando l’uomo e la donna hanno iniziato a popolare la Terra. Ma spesso si ha la sensazione che il limite – quello che ogni operatore dell’informazione dovrebbe darsi – si sposta sempre più in là, sempre di più verso confini inesplorati e pericolosi.

Un limite che non riguarda solo i giornalisti, che pure sarebbero tenuti a osservare un’etica e una deontologia professionali, ma che interpella anche autori, fotografi, videomaker, registi, grafici e gli stessi vertici di ogni impresa chiamata a fare informazione e comunicazione. E non voglio nemmeno aprire il “vaso di Pandora” dei social media, perché i mali che ne uscirebbero fuori potrebbero affondare del tutto le nostre riflessioni.

Allora, meglio tornare alla speranza. Come quella che sta nel tema che Papa Francesco ha scelto per la 59a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra nel 2025, e che è stato reso noto proprio in questi giorni. “Condividete con mitezza la speranza che sta nei vostri cuori” è il passaggio della Prima lettera di Pietro al quale il Santo Padre si è ispirato. Ci fa riflettere sul fatto che “oggi troppo spesso la comunicazione è violenta, mirata a colpire e non a stabilire i presupposti per il dialogo; è quindi necessario disarmare la comunicazione, purificarla dall’aggressività; dai talk show televisivi alle guerre verbali sui social il paradigma che rischia di prevalere è quello della competizione, contrapposizione e volontà di dominio”.

Per chiudere, attingiamo ancora alle cronache degli ultimi giorni: al cinquantenne modenese che ha appena strangolato la madre ottantenne e confessa tutto al microfono dell’ infotainment televisivo pomeridiano di turno, prima ancora che ai carabinieri. Ecco, è quello il confine tra tenere accesi microfono e telecamera, oppure decidere di spegnerli per non superare il limite.

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A chi serve ancora questa guerra https://www.lavoce.it/a-chi-serve-ancora-questa-guerra/ https://www.lavoce.it/a-chi-serve-ancora-questa-guerra/#respond Wed, 18 Sep 2024 09:47:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77595

Ma davvero c’è qualcuno che pensa che trasferire missili a lunga gittata all’Ucraina aiuterà la pace? Perfino gli strateghi specializzati del Pentagono e i Capi di stato maggiore delle nazioni europee concordano nell’affermare (apertamente o con discrezione) che quella controversia non può avere una soluzione armata. Al contrario la guerra sembra destinata a proseguire a lungo, a trascinarsi stancamente e drammaticamente con il suo carico di distruzione, morti e sofferenze, se non si ha il coraggio di intervenire con tutta la forza diplomatica che il mondo ha in corpo.

Eppure, contrariamente a quello che ci hanno riferito i dispacci di palazzo, anche l’agenda del viaggio del premier britannico Keir Starmer in Italia segnava la richiesta del via libera indispensabile del Governo italiano all’uso in Ucraina degli Storm Shadow (“Presagio di tempesta”). A studiare bene le carte delle aziende, questo missile a lunga gittata che potrebbe superare i confini russo-ucraini e provocare la distruzione di obiettivi strategici in territorio russo viene prodotto dal consorzio europeo Mbda, sigla che include la francese Matra (ex Aerospace), la britannica British Aerospace (Bae) Dynamics e l’italiana Alenia, con un 25% di share di Leonardo.

Pertanto questi missili, per essere ceduti alle forze armate ucraine, hanno bisogno anche del consenso italiano che finora è stato negato. Ma il tema vero è che, se davvero ci si concentrasse nello sforzo diplomatico, nella riapertura di canali efficaci di dialogo con Putin e nella mediazione tra i due Governi belligeranti, forse si riuscirebbe a ottenere un risultato più apprezzabile di quello che si ricava continuando a gettare benzina sul fuoco della guerra. Né appare comprensibile e solido a questo proposito l’argomento secondo il quale il dittatore russo non ne vuole sapere, e forse nemmeno Zelensky.

Siamo riusciti a negoziare con i talebani afghani e con i peggiori dittatori della Storia! A questo punto serve piuttosto comprendere a chi serve la guerra. Serve sicuramente alle aziende di materiale bellico e di nuovi sistemi d’arma, che si inebriano del business e considerano ogni conflitto armato una nuova vetrina per testare ed esporre l’efficienza degli strumenti di morte, che poi piazzeranno in tutto il mondo.

Forse conviene alle potenze mondiali di Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e Nato per provare la propria forza su un terreno concreto e fiutare l’aria del dominio del mondo. In ogni caso, quella che stiamo percorrendo è la via della morte quotidiana di esseri umani inconsapevoli, che la guerra la subiscono e non la scelgono.

Da parte nostra, come credenti nel Vangelo della pace, dovremmo fare il tifo per la soluzione diplomatica, incoraggiando le parole del Papa e indirizzandole ciascuno al proprio Governo; ma nello stesso tempo dovremmo chiedere una riforma in senso democratico dell’Onu, che anche in questo scenario si rivela un utensile obsoleto e inutile; e incoraggiare le popolazioni dei Paesi in guerra a scegliere la strada dell’obiezione di coscienza. Sono queste le vie che il Vangelo della pace ci suggerisce, lontano mille miglia dalla logica della forza delle armi.

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Ma davvero c’è qualcuno che pensa che trasferire missili a lunga gittata all’Ucraina aiuterà la pace? Perfino gli strateghi specializzati del Pentagono e i Capi di stato maggiore delle nazioni europee concordano nell’affermare (apertamente o con discrezione) che quella controversia non può avere una soluzione armata. Al contrario la guerra sembra destinata a proseguire a lungo, a trascinarsi stancamente e drammaticamente con il suo carico di distruzione, morti e sofferenze, se non si ha il coraggio di intervenire con tutta la forza diplomatica che il mondo ha in corpo.

Eppure, contrariamente a quello che ci hanno riferito i dispacci di palazzo, anche l’agenda del viaggio del premier britannico Keir Starmer in Italia segnava la richiesta del via libera indispensabile del Governo italiano all’uso in Ucraina degli Storm Shadow (“Presagio di tempesta”). A studiare bene le carte delle aziende, questo missile a lunga gittata che potrebbe superare i confini russo-ucraini e provocare la distruzione di obiettivi strategici in territorio russo viene prodotto dal consorzio europeo Mbda, sigla che include la francese Matra (ex Aerospace), la britannica British Aerospace (Bae) Dynamics e l’italiana Alenia, con un 25% di share di Leonardo.

Pertanto questi missili, per essere ceduti alle forze armate ucraine, hanno bisogno anche del consenso italiano che finora è stato negato. Ma il tema vero è che, se davvero ci si concentrasse nello sforzo diplomatico, nella riapertura di canali efficaci di dialogo con Putin e nella mediazione tra i due Governi belligeranti, forse si riuscirebbe a ottenere un risultato più apprezzabile di quello che si ricava continuando a gettare benzina sul fuoco della guerra. Né appare comprensibile e solido a questo proposito l’argomento secondo il quale il dittatore russo non ne vuole sapere, e forse nemmeno Zelensky.

Siamo riusciti a negoziare con i talebani afghani e con i peggiori dittatori della Storia! A questo punto serve piuttosto comprendere a chi serve la guerra. Serve sicuramente alle aziende di materiale bellico e di nuovi sistemi d’arma, che si inebriano del business e considerano ogni conflitto armato una nuova vetrina per testare ed esporre l’efficienza degli strumenti di morte, che poi piazzeranno in tutto il mondo.

Forse conviene alle potenze mondiali di Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e Nato per provare la propria forza su un terreno concreto e fiutare l’aria del dominio del mondo. In ogni caso, quella che stiamo percorrendo è la via della morte quotidiana di esseri umani inconsapevoli, che la guerra la subiscono e non la scelgono.

Da parte nostra, come credenti nel Vangelo della pace, dovremmo fare il tifo per la soluzione diplomatica, incoraggiando le parole del Papa e indirizzandole ciascuno al proprio Governo; ma nello stesso tempo dovremmo chiedere una riforma in senso democratico dell’Onu, che anche in questo scenario si rivela un utensile obsoleto e inutile; e incoraggiare le popolazioni dei Paesi in guerra a scegliere la strada dell’obiezione di coscienza. Sono queste le vie che il Vangelo della pace ci suggerisce, lontano mille miglia dalla logica della forza delle armi.

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Scuola come antidoto al vuoto https://www.lavoce.it/scuola-come-antidoto-al-vuoto/ https://www.lavoce.it/scuola-come-antidoto-al-vuoto/#respond Thu, 12 Sep 2024 09:41:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77524

Cosa significa “scuola inclusiva”? È un mantra di questi anni, e si potrebbe dire che indica la volontà dell’istituzione scolastica di accogliere tutti, di creare un ambiente favorevole alle relazioni, al rispetto delle diversità, ai ritmi di crescita e di apprendimento di ciascuno. C’è un aspetto, in questo orizzonte di “inclusività”, che pare particolarmente provocante anche alla luce dei terribili fatti di cronaca avvenuti in questo periodo di fine estate: su tutti l’uccisione “senza movente” di Sharon Verzeni nella Bergamasca, e la tragica strage familiare perpetrata da un adolescente a Paderno Dugnano.

In entrambi i casi, naturalmente molto diversi tra loro, sembra di cogliere un elemento comune, che potremmo indicare forse in modo inesatto, ma vale la pena di provare, come l’emergere della solitudine, l’isolamento – con modalità diverse e motivazioni complesse che non tocca noi indagare – dei soggetti protagonisti, nei confronti degli altri e del mondo che li circonda.

L’omicida del Bergamasco sembra aver seguito un suo personale disegno, una pulsione, un impulso omicida coltivato e maturato nella solitudine della sua interiorità. Ha coltivato dentro se stesso il progetto di uccidere, con una leggerezza – sempre così appare dalle cronache – spaventosa e inspiegabile.

Anche il ragazzo di Paderno ha dato forma a un incubo cresciuto dentro di sé, a un malessere che ha sentito svilupparsi senza poterne prendere le distanze, esploso con una brutalità impensabile e agghiacciante. Solitudine, isolamento in se stessi, incapacità/impossibilità di uscire dal proprio mondo interiore, popolato da quelli che Gaber avrebbe definito “i mostri che abbiamo dentro”.

Lasciamo agli esperti e ai giudici il loro lavoro di analisi e ricostruzione di fatti e personalità, ma sul tema della solitudine possiamo provare a richiamare l’immagine proposta all’inizio della “scuola inclusiva” e la questione dell’educazione. Perché proprio la scuola, che adesso torna a essere popolata da bambini e ragazzi, è una grande opportunità per affrontare le tante solitudini del nostro mondo contemporaneo e che non risparmiano i più giovani. Anzi.

La pratica scolastica, l’interazione quotidiana tra pari, così come tra giovani e adulti, in un ambiente che dovrebbe essere in qualche modo protetto e soprattutto guidato da una intenzionalità educativa – l’attenzione alla crescita armonica e complessiva di ciascuno – è un antidoto all’isolamento e alla solitudine. Incontrarsi e scontrarsi ogni mattina, misurarsi con le diversità, con i successi e i fallimenti aiuta a uscire da se stessi e dal proprio mondo isolato, talvolta iperprotetto dalle famiglie, prendendone le distanze. Non è una garanzia di “benessere”, certo, ma un aiuto sì.

Si discute da anni, ad esempio, sui rischi di autoreferenzialità e isolamento che porta con sé l’uso smodato di smartphone e internet (educazione digitale?) anche se sarebbe banale cercare solo qui le cause di tanti malesseri dei più giovani (e degli adulti). Tuttavia, anche in questo caso l’interazione “fisica” che la scuola propone, la vicinanza e lo scambio, lo scontro con gli altri: tutto questo, se guidato in modo intenzionale, si badi bene, diventa opportunità. Panacea di ogni male? No, certo. “Il male cammina con noi” scriveva nei giorni scorsi un noto regista. Anche a scuola; dove però si può e si deve cercare qualche antidoto.

Alberto Campoleoni
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Cosa significa “scuola inclusiva”? È un mantra di questi anni, e si potrebbe dire che indica la volontà dell’istituzione scolastica di accogliere tutti, di creare un ambiente favorevole alle relazioni, al rispetto delle diversità, ai ritmi di crescita e di apprendimento di ciascuno. C’è un aspetto, in questo orizzonte di “inclusività”, che pare particolarmente provocante anche alla luce dei terribili fatti di cronaca avvenuti in questo periodo di fine estate: su tutti l’uccisione “senza movente” di Sharon Verzeni nella Bergamasca, e la tragica strage familiare perpetrata da un adolescente a Paderno Dugnano.

In entrambi i casi, naturalmente molto diversi tra loro, sembra di cogliere un elemento comune, che potremmo indicare forse in modo inesatto, ma vale la pena di provare, come l’emergere della solitudine, l’isolamento – con modalità diverse e motivazioni complesse che non tocca noi indagare – dei soggetti protagonisti, nei confronti degli altri e del mondo che li circonda.

L’omicida del Bergamasco sembra aver seguito un suo personale disegno, una pulsione, un impulso omicida coltivato e maturato nella solitudine della sua interiorità. Ha coltivato dentro se stesso il progetto di uccidere, con una leggerezza – sempre così appare dalle cronache – spaventosa e inspiegabile.

Anche il ragazzo di Paderno ha dato forma a un incubo cresciuto dentro di sé, a un malessere che ha sentito svilupparsi senza poterne prendere le distanze, esploso con una brutalità impensabile e agghiacciante. Solitudine, isolamento in se stessi, incapacità/impossibilità di uscire dal proprio mondo interiore, popolato da quelli che Gaber avrebbe definito “i mostri che abbiamo dentro”.

Lasciamo agli esperti e ai giudici il loro lavoro di analisi e ricostruzione di fatti e personalità, ma sul tema della solitudine possiamo provare a richiamare l’immagine proposta all’inizio della “scuola inclusiva” e la questione dell’educazione. Perché proprio la scuola, che adesso torna a essere popolata da bambini e ragazzi, è una grande opportunità per affrontare le tante solitudini del nostro mondo contemporaneo e che non risparmiano i più giovani. Anzi.

La pratica scolastica, l’interazione quotidiana tra pari, così come tra giovani e adulti, in un ambiente che dovrebbe essere in qualche modo protetto e soprattutto guidato da una intenzionalità educativa – l’attenzione alla crescita armonica e complessiva di ciascuno – è un antidoto all’isolamento e alla solitudine. Incontrarsi e scontrarsi ogni mattina, misurarsi con le diversità, con i successi e i fallimenti aiuta a uscire da se stessi e dal proprio mondo isolato, talvolta iperprotetto dalle famiglie, prendendone le distanze. Non è una garanzia di “benessere”, certo, ma un aiuto sì.

Si discute da anni, ad esempio, sui rischi di autoreferenzialità e isolamento che porta con sé l’uso smodato di smartphone e internet (educazione digitale?) anche se sarebbe banale cercare solo qui le cause di tanti malesseri dei più giovani (e degli adulti). Tuttavia, anche in questo caso l’interazione “fisica” che la scuola propone, la vicinanza e lo scambio, lo scontro con gli altri: tutto questo, se guidato in modo intenzionale, si badi bene, diventa opportunità. Panacea di ogni male? No, certo. “Il male cammina con noi” scriveva nei giorni scorsi un noto regista. Anche a scuola; dove però si può e si deve cercare qualche antidoto.

Alberto Campoleoni
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Ius scholae: parliamone! https://www.lavoce.it/ius-scholae-parliamone/ https://www.lavoce.it/ius-scholae-parliamone/#respond Wed, 04 Sep 2024 17:44:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77450 La facciata dall'alto di palazzo Chigi, sede del Governo italiano, in primo piano l'antica colonna romana di Marco Aurelio

È difficile fare previsioni sull’esito che avrà effettivamente il dibattito intorno alla nuova legge sulla cittadinanza, e se la via dello ius scholae – su cui peraltro anche i sondaggi registrano notevoli consensi – troverà finalmente una concretizzazione normativa. I precedenti non sono incoraggianti, come dimostra il fatto che sostanzialmente la legge di riferimento è ancora quella del 1992, nonostante i profondi cambiamenti che hanno investito la realtà del fenomeno migratorio nel nostro Paese, e nonostante la consapevolezza sempre più diffusa che l’apporto dei “nuovi italiani” è e sarà sempre più decisivo per gli equilibri demografici ed economici.

Qualcosa però sembra essersi davvero messo in movimento. A far ripartire il percorso della riforma è stata l’apertura di Forza Italia, che ha disincagliato il dibattito dalle secche di un’interpretazione angusta e miope dei vincoli di maggioranza. Il premierato come nuovo assetto istituzionale è di là da venire, al di là degli annunci che sottolineano enfaticamente ogni passaggio anche meramente formale; ma, di fatto, le dinamiche di un ‘maggioritario spinto’ che finisce per limitare fortemente le prerogative del Parlamento sono già pienamente operanti.

Il tema annoso dell’overdose di decreti legge sta lì a documentarlo. Le stesse riforme costituzionali sono diventate un affare di maggioranza (ma sotto questo profilo anche il centrosinistra ha i suoi peccati da farsi perdonare…), impacchettate in un accordo che prevede un capitolo per ciascuno dei partiti che formano la coalizione di governo: premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere dei magistrati.

Nessuno nega all’Esecutivo di turno il diritto di portare avanti il proprio programma con il sostegno dei gruppi parlamentari usciti dalle elezioni. Ma le Camere non possono essere ridotte a cinghia di trasmissione delle iniziative del Governo. “Organo della rappresentanza politica”, “centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione”: così la Corte costituzionale definisce il Parlamento. Esso è il luogo in cui si rispecchia il pluralismo politico e culturale del Paese, e questa identità non può essere cancellata dai meccanismi che pur legittimamente vengono adottati per garantire la governabilità. Sarebbe davvero un bel segnale se, su un tema di così grande rilevanza sociale e civile come la cittadinanza, la discussione e il voto delle Camere potessero svilupparsi con libertà e senso di responsabilità.

Certo, non solo la maggioranza dovrebbe rinunciare a rinchiudersi nelle mura dell’Esecutivo, ma anche le opposizioni dovrebbero evitare di cavalcare la questione per mettere in difficoltà il Governo.

Mettere da parte contrapposizioni ideologiche, “ma non gli ideali, la conoscenza, la passione”, per dirla con il cardinale Zuppi. A giudicare da come è stato strumentalizzato dalla Lega perfino l’omicidio di Sharon Verzeni, non è facile essere ottimisti, ma il tentativo va condotto fino in fondo.

Stefano De Martis]]>
La facciata dall'alto di palazzo Chigi, sede del Governo italiano, in primo piano l'antica colonna romana di Marco Aurelio

È difficile fare previsioni sull’esito che avrà effettivamente il dibattito intorno alla nuova legge sulla cittadinanza, e se la via dello ius scholae – su cui peraltro anche i sondaggi registrano notevoli consensi – troverà finalmente una concretizzazione normativa. I precedenti non sono incoraggianti, come dimostra il fatto che sostanzialmente la legge di riferimento è ancora quella del 1992, nonostante i profondi cambiamenti che hanno investito la realtà del fenomeno migratorio nel nostro Paese, e nonostante la consapevolezza sempre più diffusa che l’apporto dei “nuovi italiani” è e sarà sempre più decisivo per gli equilibri demografici ed economici.

Qualcosa però sembra essersi davvero messo in movimento. A far ripartire il percorso della riforma è stata l’apertura di Forza Italia, che ha disincagliato il dibattito dalle secche di un’interpretazione angusta e miope dei vincoli di maggioranza. Il premierato come nuovo assetto istituzionale è di là da venire, al di là degli annunci che sottolineano enfaticamente ogni passaggio anche meramente formale; ma, di fatto, le dinamiche di un ‘maggioritario spinto’ che finisce per limitare fortemente le prerogative del Parlamento sono già pienamente operanti.

Il tema annoso dell’overdose di decreti legge sta lì a documentarlo. Le stesse riforme costituzionali sono diventate un affare di maggioranza (ma sotto questo profilo anche il centrosinistra ha i suoi peccati da farsi perdonare…), impacchettate in un accordo che prevede un capitolo per ciascuno dei partiti che formano la coalizione di governo: premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere dei magistrati.

Nessuno nega all’Esecutivo di turno il diritto di portare avanti il proprio programma con il sostegno dei gruppi parlamentari usciti dalle elezioni. Ma le Camere non possono essere ridotte a cinghia di trasmissione delle iniziative del Governo. “Organo della rappresentanza politica”, “centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione”: così la Corte costituzionale definisce il Parlamento. Esso è il luogo in cui si rispecchia il pluralismo politico e culturale del Paese, e questa identità non può essere cancellata dai meccanismi che pur legittimamente vengono adottati per garantire la governabilità. Sarebbe davvero un bel segnale se, su un tema di così grande rilevanza sociale e civile come la cittadinanza, la discussione e il voto delle Camere potessero svilupparsi con libertà e senso di responsabilità.

Certo, non solo la maggioranza dovrebbe rinunciare a rinchiudersi nelle mura dell’Esecutivo, ma anche le opposizioni dovrebbero evitare di cavalcare la questione per mettere in difficoltà il Governo.

Mettere da parte contrapposizioni ideologiche, “ma non gli ideali, la conoscenza, la passione”, per dirla con il cardinale Zuppi. A giudicare da come è stato strumentalizzato dalla Lega perfino l’omicidio di Sharon Verzeni, non è facile essere ottimisti, ma il tentativo va condotto fino in fondo.

Stefano De Martis]]>
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D’autunno fioriscono le spine https://www.lavoce.it/dautunno-fioriscono-le-spine/ https://www.lavoce.it/dautunno-fioriscono-le-spine/#respond Wed, 28 Aug 2024 16:05:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77393 calcolatrice su un tavolo dove ci sono occhiali computer e euro di carta e di metallo

Un classico della fine vacanze, nel giornalismo, è il seguente articolo: l’autunno “caldo” e le disgrazie che ci porterà. Un classico ridimensionato dall’autunno 2020, quando veramente non sapevamo se il Covid ci avrebbe lasciati in vita o no. Ma rimane che la sospensione estiva – laddove si preferiscono bibite fredde e notizie frivole – determina giocoforza la necessità di affrontare ora le spine nascoste sotto l’ombrellone.

Non mancheranno le spine pure con l’arrivo della prossima stagione: già un esponente del Governo ha messo le mani avanti, dichiarando che la manovra autunnale sarà di “almeno” 25 miliardi di euro. Laddove per manovra s’intende l’aggiustamento dei conti, nel senso di taglio delle spese e/o aumento delle entrate.

Insomma i classici “sacrifici”: vedremo chi li dovrà fare. Nel frattempo si guarda con crescente apprensione al di là delle Alpi in direzione Germania: la locomotiva europea arranca da tempo, le difficoltà sembrano strutturali (calo delle esportazioni, scarsità di personale, stallo della fondamentale industria automobilistica). E se la Germania piange, l’Italia ha poco da sorridere: è il nostro mercato principale, siamo importanti fornitori delle industrie teutoniche.

Ci sarebbero poi le varie guerre che infestano anche zone del pianeta a noi vicine; ma ormai abbiamo fatto il callo e battezzato per verità acclarata quella “Terza guerra mondiale a pezzi” che anni fa denunciò Papa Francesco. Grande è la confusione sotto questo cielo, si fa veramente fatica a capire dove vadano le stelle.

Ma una delle incognite che peserà di più nel prossimo futuro è legata a un passaggio fondamentale di una democrazia che sovrintende la più poderosa economia del mondo: le elezioni americane di novembre, dove si confronteranno una candidata che in realtà conosciamo molto poco, e un candidato che in realtà conosciamo molto bene. Questo o quella, per noi, pari non sono.

Infine una considerazione puramente oggettiva, scevra da ogni altra considerazione che spetta alla politica e alla società: l’Occidente invecchiato (l’Italia in primis ) ha bisogno di ulteriore forza lavoro per sostenersi e per sostenere quella crescita economica che possa conservare l’attuale benessere.

Insomma, servono lavoratori stranieri. L’ha detto papale papale il governatore della Banca d’Italia, che ha raccolto i lamenti di praticamente tutte le categorie economiche.  E quindi non si tratta più di discutere del se, ma del come.

Nicola Salvagnin
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calcolatrice su un tavolo dove ci sono occhiali computer e euro di carta e di metallo

Un classico della fine vacanze, nel giornalismo, è il seguente articolo: l’autunno “caldo” e le disgrazie che ci porterà. Un classico ridimensionato dall’autunno 2020, quando veramente non sapevamo se il Covid ci avrebbe lasciati in vita o no. Ma rimane che la sospensione estiva – laddove si preferiscono bibite fredde e notizie frivole – determina giocoforza la necessità di affrontare ora le spine nascoste sotto l’ombrellone.

Non mancheranno le spine pure con l’arrivo della prossima stagione: già un esponente del Governo ha messo le mani avanti, dichiarando che la manovra autunnale sarà di “almeno” 25 miliardi di euro. Laddove per manovra s’intende l’aggiustamento dei conti, nel senso di taglio delle spese e/o aumento delle entrate.

Insomma i classici “sacrifici”: vedremo chi li dovrà fare. Nel frattempo si guarda con crescente apprensione al di là delle Alpi in direzione Germania: la locomotiva europea arranca da tempo, le difficoltà sembrano strutturali (calo delle esportazioni, scarsità di personale, stallo della fondamentale industria automobilistica). E se la Germania piange, l’Italia ha poco da sorridere: è il nostro mercato principale, siamo importanti fornitori delle industrie teutoniche.

Ci sarebbero poi le varie guerre che infestano anche zone del pianeta a noi vicine; ma ormai abbiamo fatto il callo e battezzato per verità acclarata quella “Terza guerra mondiale a pezzi” che anni fa denunciò Papa Francesco. Grande è la confusione sotto questo cielo, si fa veramente fatica a capire dove vadano le stelle.

Ma una delle incognite che peserà di più nel prossimo futuro è legata a un passaggio fondamentale di una democrazia che sovrintende la più poderosa economia del mondo: le elezioni americane di novembre, dove si confronteranno una candidata che in realtà conosciamo molto poco, e un candidato che in realtà conosciamo molto bene. Questo o quella, per noi, pari non sono.

Infine una considerazione puramente oggettiva, scevra da ogni altra considerazione che spetta alla politica e alla società: l’Occidente invecchiato (l’Italia in primis ) ha bisogno di ulteriore forza lavoro per sostenersi e per sostenere quella crescita economica che possa conservare l’attuale benessere.

Insomma, servono lavoratori stranieri. L’ha detto papale papale il governatore della Banca d’Italia, che ha raccolto i lamenti di praticamente tutte le categorie economiche.  E quindi non si tratta più di discutere del se, ma del come.

Nicola Salvagnin
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Olimpiadi di Parigi. Velocità sì, ma anche lentezza https://www.lavoce.it/olimpiadi-di-perigi-velocita-si-ma-anche-lentezza/ https://www.lavoce.it/olimpiadi-di-perigi-velocita-si-ma-anche-lentezza/#respond Wed, 31 Jul 2024 13:11:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77237

Gli occhi puntati sulle Olimpiadi e poco dopo sulle Paralimpiadi augurandosi che alcune insensatezze della cerimonia di apertura non si ripetano. Ritorna con il suo fascino il motto Citius, Altius, Fortius, “Più veloce, più in alto, più forte”. Lo aveva ideato il domenicano francese Henry Didon e il barone Pierre de Coubertin lo accolse con favore ponendolo a riferimento ideale della grande avventura sportiva. È un inno alla forza, all’abilità, alla tenacia nel competere forse senza ricordare che cumpetere significa “andare nella stessa direzione” senza prendersi a gomitate. Purtroppo, il motto di Didon è stato imprigionato in una versione aggressiva oggi utilizzata nel mercato, nello scontro politico e perfino nel linguaggio delle istituzioni.

Nel 2021 il Comitato olimpico internazionale si accorse che qualcosa mancava e aggiunse Communiter al trinomio per richiamare il valore della solidarietà nello sport. “Più veloce, più in alto, più forte” intendeva e intende richiamare il fondamento delle prestazioni fisiche cioè l’allenamento severo anche sul piano umano, psicologico, morale. Un allenamento senza esclusioni: la squadra olimpica dei rifugiati e le Paralimpiadi sono a loro modo un buon segnale.

Tra gli anni ’80 e ’90 ci fu chi affiancò al motto olimpico la triade Lentius più lentamente, Profundius più in profondità, Suavius più dolcemente. La pensò e la diffuse Alexander Langer (1946 – 1995) un giovane intellettuale, altoatesino, europeo, ribelle al conformismo e alla mediocrità. Un sognatore direbbero i pragmatisti. Alexander Langer lottò, come altri, per realizzare un sogno di pace, di giustizia, di rispetto della casa comune. In parte ci riuscì, la sua traccia è ancor oggi importante. Morì suicida a Firenze, e questo suo gesto estremo è nel mistero della vita di fronte al quale ogni giudizio umano si ferma.

Mettere accanto al motto olimpico la triade di Langer significa creare un’occasione perché si interroghino, si misurino, si completino. Ci sono parole che hanno radici profonde che si incrociano e nessuna può essere recisa senza ferire l’altra.

C’è allora una domanda impegnativa e nello stesso tempo affascinante: cosa significa proporre la via della lentezza, della profondità, della dolcezza a chi oggi è costretto a correre sempre più velocemente per rimanere sulla piazza, a superare asticelle poste da altri sempre più in alto per non fallire, a subire la forza bruta o sottile del tiranno per sopravvivere?

Domanda difficile, si rischia una risposta perdente. Potrà venire un segnale dalle Olimpiadi e dalle Paralimpiadi, potrà venire dallo spettacolo dello sport, fatto di successi e di insuccessi?

Un segnale verrà se il trinomio Citius, Altius, Fortius di Didon si declinerà con il trinomio Lentius, Profundius, Suavius di Langer. La gara delle parole è aperta, la competizione cioè l’andare nella stessa direzione è iniziata, il traguardo è considerare l’altro un fratello, il traguardo è cancellare la definizione “nemico”, il traguardo è la pace.

Paolo Bustaffa
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Gli occhi puntati sulle Olimpiadi e poco dopo sulle Paralimpiadi augurandosi che alcune insensatezze della cerimonia di apertura non si ripetano. Ritorna con il suo fascino il motto Citius, Altius, Fortius, “Più veloce, più in alto, più forte”. Lo aveva ideato il domenicano francese Henry Didon e il barone Pierre de Coubertin lo accolse con favore ponendolo a riferimento ideale della grande avventura sportiva. È un inno alla forza, all’abilità, alla tenacia nel competere forse senza ricordare che cumpetere significa “andare nella stessa direzione” senza prendersi a gomitate. Purtroppo, il motto di Didon è stato imprigionato in una versione aggressiva oggi utilizzata nel mercato, nello scontro politico e perfino nel linguaggio delle istituzioni.

Nel 2021 il Comitato olimpico internazionale si accorse che qualcosa mancava e aggiunse Communiter al trinomio per richiamare il valore della solidarietà nello sport. “Più veloce, più in alto, più forte” intendeva e intende richiamare il fondamento delle prestazioni fisiche cioè l’allenamento severo anche sul piano umano, psicologico, morale. Un allenamento senza esclusioni: la squadra olimpica dei rifugiati e le Paralimpiadi sono a loro modo un buon segnale.

Tra gli anni ’80 e ’90 ci fu chi affiancò al motto olimpico la triade Lentius più lentamente, Profundius più in profondità, Suavius più dolcemente. La pensò e la diffuse Alexander Langer (1946 – 1995) un giovane intellettuale, altoatesino, europeo, ribelle al conformismo e alla mediocrità. Un sognatore direbbero i pragmatisti. Alexander Langer lottò, come altri, per realizzare un sogno di pace, di giustizia, di rispetto della casa comune. In parte ci riuscì, la sua traccia è ancor oggi importante. Morì suicida a Firenze, e questo suo gesto estremo è nel mistero della vita di fronte al quale ogni giudizio umano si ferma.

Mettere accanto al motto olimpico la triade di Langer significa creare un’occasione perché si interroghino, si misurino, si completino. Ci sono parole che hanno radici profonde che si incrociano e nessuna può essere recisa senza ferire l’altra.

C’è allora una domanda impegnativa e nello stesso tempo affascinante: cosa significa proporre la via della lentezza, della profondità, della dolcezza a chi oggi è costretto a correre sempre più velocemente per rimanere sulla piazza, a superare asticelle poste da altri sempre più in alto per non fallire, a subire la forza bruta o sottile del tiranno per sopravvivere?

Domanda difficile, si rischia una risposta perdente. Potrà venire un segnale dalle Olimpiadi e dalle Paralimpiadi, potrà venire dallo spettacolo dello sport, fatto di successi e di insuccessi?

Un segnale verrà se il trinomio Citius, Altius, Fortius di Didon si declinerà con il trinomio Lentius, Profundius, Suavius di Langer. La gara delle parole è aperta, la competizione cioè l’andare nella stessa direzione è iniziata, il traguardo è considerare l’altro un fratello, il traguardo è cancellare la definizione “nemico”, il traguardo è la pace.

Paolo Bustaffa
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Il futuro oscuro delle pensioni https://www.lavoce.it/il-futuro-oscuro-delle-pensioni/ https://www.lavoce.it/il-futuro-oscuro-delle-pensioni/#respond Wed, 24 Jul 2024 15:11:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77142 Euro di carta e monete da un euro e centesimi

Si parla sempre di giungla quando si affronta il tema pensioni. Una vera e propria selva di normative, di eccezioni, di regimi speciali, di distinguo e soprattutto di modifiche che ultimamente non hanno vita più lunga di un anno. Si scontrano due concetti opposti: da una parte la voglia di moltissimi lavoratori di andare appunto in pensione; dall’altra la situazione della previdenza pubblica, stretta dalla morsa delle pensioni da erogare ogni mese e dalle proiezioni future. Lo ha spiegato a chiare lettere il ministro dell’Economia, Giorgetti: più che questione previdenziale, si deve iniziare a parlare di questione demografica. Se nascono sempre meno figli e la popolazione italiana vive in media più a lungo, chi pagherà le pensioni del futuro?

E chi pagherà poi quelle dei nostri attuali giovani? Quindi ci sarebbero pressioni politiche per arrivare, ad esempio, a una quota massima di anni lavorativi pari a 41 per tutti; ma questo ridurrebbe le attuali soglie di pensione di vecchiaia, comportando un aumento della spesa previdenziale.

E in questi ultimi anni – dopo il grande allargamento delle maglie deciso dal Governo gialloverde tra il 2019 e il 2020 – si è continuato a stringerle: Opzione donna ha innalzato le soglie per accedervi e rimane assai penalizzante per chi aderisce (il taglio dell’assegno mensile è veramente corposo). Così come continua, leggina dopo leggina, a espandersi il calcolo contributivo: avrai solo ciò che hai versato. Giusto, se non fosse che milioni di italiani per decenni hanno ricevuto ben oltre quanto avevano versato.

La questione quindi sta diventando un’altra: non tanto “quando andrò in pensione”, quanto “quale sarà la mia pensione”. Perché già ora, nel migliore dei casi (lunghe permanenze lavorative senza buchi contributivi, costanza e crescita dei contributi versati), i calcoli pensionistici indicano la decurtazione di almeno un quarto di quanto percepito prima del pensionamento. Ma basta veramente poco – soprattutto in caso di anticipi pensionistici – per scivolare a poco più della metà: basta per campare? Non parliamo dei trentenni d’oggi, che dovranno sicuramente lavorare oltre i 70 anni d’età e riceveranno assegni pensionistici… se li riceveranno. Per tenere su l’attuale sistema, pur limandolo in peggio in modo poco avvertibile dall’opinione pubblica (meno rivalutazione Istat, qualche mese in più prima di riceverla, ecc.), serviranno a fine anno diversi miliardi di euro in bilancio.

Lo sa Giorgetti, ha già messo le mani avanti (“Gli interventi devono essere sostenibili”), aspettiamoci a fine anno un’insalata di regole in cui qualche appariscente foglia dolce nasconda molte piccole foglie amare. Tutto ciò non vale per i professionisti con proprie casse previdenziali né per la previdenza integrativa che non è altro che una forma d’investimento agevolata dalla fiscalità generale. E prima o poi un Governo sarà costretto ad affrontare la questione “assegno sociale”, quei 530 euro per 13 mesi versati a chi, dopo i 67 anni e in particolari condizioni di reddito, non ha mai lavorato o comunque versato sufficienti contributi. È una misura assistenziale (la ricevono più del 20% dei pensionati attuali) alimentata con i contributi previdenziali: così com’è strutturata, non regge più.

Nicola Salvagnin
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Euro di carta e monete da un euro e centesimi

Si parla sempre di giungla quando si affronta il tema pensioni. Una vera e propria selva di normative, di eccezioni, di regimi speciali, di distinguo e soprattutto di modifiche che ultimamente non hanno vita più lunga di un anno. Si scontrano due concetti opposti: da una parte la voglia di moltissimi lavoratori di andare appunto in pensione; dall’altra la situazione della previdenza pubblica, stretta dalla morsa delle pensioni da erogare ogni mese e dalle proiezioni future. Lo ha spiegato a chiare lettere il ministro dell’Economia, Giorgetti: più che questione previdenziale, si deve iniziare a parlare di questione demografica. Se nascono sempre meno figli e la popolazione italiana vive in media più a lungo, chi pagherà le pensioni del futuro?

E chi pagherà poi quelle dei nostri attuali giovani? Quindi ci sarebbero pressioni politiche per arrivare, ad esempio, a una quota massima di anni lavorativi pari a 41 per tutti; ma questo ridurrebbe le attuali soglie di pensione di vecchiaia, comportando un aumento della spesa previdenziale.

E in questi ultimi anni – dopo il grande allargamento delle maglie deciso dal Governo gialloverde tra il 2019 e il 2020 – si è continuato a stringerle: Opzione donna ha innalzato le soglie per accedervi e rimane assai penalizzante per chi aderisce (il taglio dell’assegno mensile è veramente corposo). Così come continua, leggina dopo leggina, a espandersi il calcolo contributivo: avrai solo ciò che hai versato. Giusto, se non fosse che milioni di italiani per decenni hanno ricevuto ben oltre quanto avevano versato.

La questione quindi sta diventando un’altra: non tanto “quando andrò in pensione”, quanto “quale sarà la mia pensione”. Perché già ora, nel migliore dei casi (lunghe permanenze lavorative senza buchi contributivi, costanza e crescita dei contributi versati), i calcoli pensionistici indicano la decurtazione di almeno un quarto di quanto percepito prima del pensionamento. Ma basta veramente poco – soprattutto in caso di anticipi pensionistici – per scivolare a poco più della metà: basta per campare? Non parliamo dei trentenni d’oggi, che dovranno sicuramente lavorare oltre i 70 anni d’età e riceveranno assegni pensionistici… se li riceveranno. Per tenere su l’attuale sistema, pur limandolo in peggio in modo poco avvertibile dall’opinione pubblica (meno rivalutazione Istat, qualche mese in più prima di riceverla, ecc.), serviranno a fine anno diversi miliardi di euro in bilancio.

Lo sa Giorgetti, ha già messo le mani avanti (“Gli interventi devono essere sostenibili”), aspettiamoci a fine anno un’insalata di regole in cui qualche appariscente foglia dolce nasconda molte piccole foglie amare. Tutto ciò non vale per i professionisti con proprie casse previdenziali né per la previdenza integrativa che non è altro che una forma d’investimento agevolata dalla fiscalità generale. E prima o poi un Governo sarà costretto ad affrontare la questione “assegno sociale”, quei 530 euro per 13 mesi versati a chi, dopo i 67 anni e in particolari condizioni di reddito, non ha mai lavorato o comunque versato sufficienti contributi. È una misura assistenziale (la ricevono più del 20% dei pensionati attuali) alimentata con i contributi previdenziali: così com’è strutturata, non regge più.

Nicola Salvagnin
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Volontari: regge solo il fai-da-te https://www.lavoce.it/volontari-regge-solo-il-fai-da-te/ https://www.lavoce.it/volontari-regge-solo-il-fai-da-te/#respond Wed, 17 Jul 2024 16:02:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77035 Mani in primo piano che si intrecciano

I numeri sono sempre da prendere con le pinze, ma comunque segnalano un trend: l’Istat ha recentemente registrato un calo del volontariato di circa 600 mila unità tra il 2016 e il 2021. Chiariamoci: il dato del 2016 era quasi sicuramente sovrastimato e quindi il calo è stato più contenuto. Però aggiungiamo che il Covid ha dato un ulteriore colpo al volontariato quanto a numeri, e questo trend lo confermano praticamente tutti gli enti del terzo settore che traggono linfa vitale dal volontariato. La questione ha anche un risvolto economico: milioni di ore lavorative a zero euro che vengono a mancare, comportando quindi o un aumento dei costi o una diminuzione dei servizi. Spesso, entrambe le cose.

C’è da dire che questi ultimi anni hanno portato alla regolarizzazione lavorativa di molte figure prima inquadrate come “volontari”: gli occupati nel terzo settore in Italia guardano da vicino la soglia del milione di unità. Ma l’Istat segnala comunque una tendenza chiara: a diminuire sono soprattutto i volontari inquadrati negli enti non profit più grandi, più strutturati; soffrono anche gli intermedi, mentre aumenta il numero di volontari nelle realtà più piccole. Segno – dice l’istituto statistico – di una minore voglia di “inquadramento” e della maggior propensione a un volontariato più occasionale e più “vicino”:

lo hanno definito “volontariato liquido”. Insomma “individuale, episodico, temporaneo, discontinuo, in cui prevale l’iniziativa personale”. Bisogna anzitutto guardare alla demografia: sempre meno giovani, età del pensionamento sempre più lontana. Una tenaglia che stringe il settore.  Ma soprattutto è la mentalità cambiata, le motivazioni che spingono alla generosità sociale: dal dare una mano a chi ne ha bisogno al dare una mano perché mi va, mi migliora, mi fa star bene. Una “crisi vocazionale” a cui non è estraneo un mondo cattolico sempre meno frequentato dalle giovani generazioni: il buon samaritano 2024 s’impegna per il clima, la plastica, gli animali; un po’ meno per i disabili o i vecchi. Insomma, per il genere umano non globalmente inteso.

A questo punto sarà compito delle realtà del terzo settore farsi conoscere e mobilitare nuove energie, saper attrarre braccia e menti che diano una mano, senza per forza un compenso economico in cambio. Altrimenti il rischio vero è quello di trasformarsi in un para-Stato, laddove l’impegno è solamente contrattualizzato, ma senza più quel cuore che fa la differenza tra un amico che aiuta e un impiegato pubblico che lavora.

Nicola Salvagnin
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Mani in primo piano che si intrecciano

I numeri sono sempre da prendere con le pinze, ma comunque segnalano un trend: l’Istat ha recentemente registrato un calo del volontariato di circa 600 mila unità tra il 2016 e il 2021. Chiariamoci: il dato del 2016 era quasi sicuramente sovrastimato e quindi il calo è stato più contenuto. Però aggiungiamo che il Covid ha dato un ulteriore colpo al volontariato quanto a numeri, e questo trend lo confermano praticamente tutti gli enti del terzo settore che traggono linfa vitale dal volontariato. La questione ha anche un risvolto economico: milioni di ore lavorative a zero euro che vengono a mancare, comportando quindi o un aumento dei costi o una diminuzione dei servizi. Spesso, entrambe le cose.

C’è da dire che questi ultimi anni hanno portato alla regolarizzazione lavorativa di molte figure prima inquadrate come “volontari”: gli occupati nel terzo settore in Italia guardano da vicino la soglia del milione di unità. Ma l’Istat segnala comunque una tendenza chiara: a diminuire sono soprattutto i volontari inquadrati negli enti non profit più grandi, più strutturati; soffrono anche gli intermedi, mentre aumenta il numero di volontari nelle realtà più piccole. Segno – dice l’istituto statistico – di una minore voglia di “inquadramento” e della maggior propensione a un volontariato più occasionale e più “vicino”:

lo hanno definito “volontariato liquido”. Insomma “individuale, episodico, temporaneo, discontinuo, in cui prevale l’iniziativa personale”. Bisogna anzitutto guardare alla demografia: sempre meno giovani, età del pensionamento sempre più lontana. Una tenaglia che stringe il settore.  Ma soprattutto è la mentalità cambiata, le motivazioni che spingono alla generosità sociale: dal dare una mano a chi ne ha bisogno al dare una mano perché mi va, mi migliora, mi fa star bene. Una “crisi vocazionale” a cui non è estraneo un mondo cattolico sempre meno frequentato dalle giovani generazioni: il buon samaritano 2024 s’impegna per il clima, la plastica, gli animali; un po’ meno per i disabili o i vecchi. Insomma, per il genere umano non globalmente inteso.

A questo punto sarà compito delle realtà del terzo settore farsi conoscere e mobilitare nuove energie, saper attrarre braccia e menti che diano una mano, senza per forza un compenso economico in cambio. Altrimenti il rischio vero è quello di trasformarsi in un para-Stato, laddove l’impegno è solamente contrattualizzato, ma senza più quel cuore che fa la differenza tra un amico che aiuta e un impiegato pubblico che lavora.

Nicola Salvagnin
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Meloni dopo Parigi e Londra https://www.lavoce.it/meloni-dopo-parigi-e-londra/ https://www.lavoce.it/meloni-dopo-parigi-e-londra/#respond Wed, 10 Jul 2024 14:11:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76960

Le elezioni che si sono svolte nel Regno Unito e in Francia si sono dimostrate di eccezionale rilevanza non solo per i Paesi direttamente interessati. La storica vittoria dei laburisti a Londra, per quanto ampiamente annunciata, e l’assolutamente imprevedibile esito del voto a Parigi, hanno ribaltato la narrazione che vedeva la destra, anche la più estrema, lanciata in una marcia trionfale apparentemente inarrestabile.

Nel Regno Unito il successo dei laburisti si è accompagnato a un crollo verticale dei conservatori e, nonostante l’exploit di Nigel Farage, si può ben dire che è stata penalizzata la classe politica a cui si deve la Brexit, con le sue conseguenze economiche e sociali. Il che dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme tra gli euroscettici e gli antieuropei nostrani.

Il caso francese, a sua volta, investe direttamente le vicende della Ue e quindi anche le nostre, che a quelle sono indissolubilmente legate. Non sappiamo ancora quale governo nascerà a Parigi, ma sicuramente non sarà un governo come quello che sognava la Le Pen, visto il successo del nuovo Front populaire. E tutto sommato lo stesso presidente Macron esce rinfrancato da una scommessa che pure presentava rischi enormi per lui e il suo Paese.

Tenuto poi conto che a Berlino governa il socialdemocratico Scholz e a Madrid il socialista Sanchez, è del tutto evidente che i margini di movimento per Giorgia Meloni siano ristrettissimi.

Nella partita interna al destra-centro italiano, però, il voto francese rappresenta soprattutto un duro colpo per Salvini, che ha un sodalizio robusto e di antica data con la Le Pen, a differenza della premier che è schierata con un’altra famiglia della destra europea. Questa situazione potrebbe spingere la Meloni su posizioni più moderate, trovando una sponda in Forza Italia e rinunciando a rincorrere il leader leghista nelle sue scorribande anti-Ue.

Il problema si pone in maniera speculare nell’altro schieramento. Elly Schlein e i suoi alleati, effettivi e potenziali, hanno ovviamente accolto con entusiasmo il voto di Londra e di Parigi. Ma si trovano di fronte a una scelta molto impegnativa sul piano strategico.

Il modello francese testimonia che la destra può essere battuta con quello che da noi si chiamerebbe “campo largo”; ma se si tratta di presentarsi agli elettori come una maggioranza di governo credibile, il discorso è ben diverso. Il modello britannico, a sua volta, è di tutt’altra natura: un solo partito e una proposta programmatica di stampo riformista.

In ogni caso contano in misura decisiva i sistemi istituzionali ed elettorali. Keir Starmer ha ottenuto circa il 63% dei seggi con il 33,9% dei voti, in virtù di quel sistema uninominale a un turno che è un classico della tradizione inglese e che con alcune varianti piacerebbe anche alla destra di casa nostra.

Tutto lecito, ovviamente, e la vittoria politica dei laburisti è incontrovertibile. Ma si tratta pur sempre di minoranze che diventano maggioranze. Da noi la materia è oggetto di discussione e, anche se si tratta di argomenti ostici, i cittadini dovrebbero tenere gli occhi ben aperti.

Non a caso il presidente Mattarella, parlando a Trieste dei pericoli per la democrazia, ha puntato il dito contro quelle situazioni in cui “il principio ‘un uomo-un voto’ venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori”.

Stefano De Martis
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Le elezioni che si sono svolte nel Regno Unito e in Francia si sono dimostrate di eccezionale rilevanza non solo per i Paesi direttamente interessati. La storica vittoria dei laburisti a Londra, per quanto ampiamente annunciata, e l’assolutamente imprevedibile esito del voto a Parigi, hanno ribaltato la narrazione che vedeva la destra, anche la più estrema, lanciata in una marcia trionfale apparentemente inarrestabile.

Nel Regno Unito il successo dei laburisti si è accompagnato a un crollo verticale dei conservatori e, nonostante l’exploit di Nigel Farage, si può ben dire che è stata penalizzata la classe politica a cui si deve la Brexit, con le sue conseguenze economiche e sociali. Il che dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme tra gli euroscettici e gli antieuropei nostrani.

Il caso francese, a sua volta, investe direttamente le vicende della Ue e quindi anche le nostre, che a quelle sono indissolubilmente legate. Non sappiamo ancora quale governo nascerà a Parigi, ma sicuramente non sarà un governo come quello che sognava la Le Pen, visto il successo del nuovo Front populaire. E tutto sommato lo stesso presidente Macron esce rinfrancato da una scommessa che pure presentava rischi enormi per lui e il suo Paese.

Tenuto poi conto che a Berlino governa il socialdemocratico Scholz e a Madrid il socialista Sanchez, è del tutto evidente che i margini di movimento per Giorgia Meloni siano ristrettissimi.

Nella partita interna al destra-centro italiano, però, il voto francese rappresenta soprattutto un duro colpo per Salvini, che ha un sodalizio robusto e di antica data con la Le Pen, a differenza della premier che è schierata con un’altra famiglia della destra europea. Questa situazione potrebbe spingere la Meloni su posizioni più moderate, trovando una sponda in Forza Italia e rinunciando a rincorrere il leader leghista nelle sue scorribande anti-Ue.

Il problema si pone in maniera speculare nell’altro schieramento. Elly Schlein e i suoi alleati, effettivi e potenziali, hanno ovviamente accolto con entusiasmo il voto di Londra e di Parigi. Ma si trovano di fronte a una scelta molto impegnativa sul piano strategico.

Il modello francese testimonia che la destra può essere battuta con quello che da noi si chiamerebbe “campo largo”; ma se si tratta di presentarsi agli elettori come una maggioranza di governo credibile, il discorso è ben diverso. Il modello britannico, a sua volta, è di tutt’altra natura: un solo partito e una proposta programmatica di stampo riformista.

In ogni caso contano in misura decisiva i sistemi istituzionali ed elettorali. Keir Starmer ha ottenuto circa il 63% dei seggi con il 33,9% dei voti, in virtù di quel sistema uninominale a un turno che è un classico della tradizione inglese e che con alcune varianti piacerebbe anche alla destra di casa nostra.

Tutto lecito, ovviamente, e la vittoria politica dei laburisti è incontrovertibile. Ma si tratta pur sempre di minoranze che diventano maggioranze. Da noi la materia è oggetto di discussione e, anche se si tratta di argomenti ostici, i cittadini dovrebbero tenere gli occhi ben aperti.

Non a caso il presidente Mattarella, parlando a Trieste dei pericoli per la democrazia, ha puntato il dito contro quelle situazioni in cui “il principio ‘un uomo-un voto’ venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori”.

Stefano De Martis
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L’Agenda strategica per cambiare l’Unione europea https://www.lavoce.it/lagenda-strategica-per-cambiare-lunione-europea/ https://www.lavoce.it/lagenda-strategica-per-cambiare-lunione-europea/#respond Thu, 04 Jul 2024 14:01:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76918

Una “Agenda strategica” per il 2024-2029 che intende “rendere l’Ue più forte e accrescere la sovranità europea”, affrontando “le questioni centrali connesse alle sue priorità politiche, nonché alla sua capacità di agire di fronte alla nuova realtà geopolitica e a sfide sempre più complesse”. Elaborata nel corso dei mesi, l’agenda che guarda al futuro dell’integrazione europea è stata approvata durante il Consiglio europeo del 27 giugno. Un documento di una decina di pagine, varato non senza obiezioni e malumori di alcuni Paesi membri, che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere sviluppato e concretizzato nel prossimo quinquennio parallelamente alle riforme istituzionali suggerite dalla Conferenza sul futuro dell’Europa (maggio 2021-maggio 2022) e al processo di allargamento che guarda a Balcani, Ucraina, Moldova e Georgia. La premessa al documento ricorda alcuni punti fermi dell’Ue fra cui pace, sicurezza, cooperazione economica, lotta al cambiamento climatico, ruolo costruttivo nella “rivoluzione digitale”.

“Un’Europa libera e democratica” è il primo capitolo. Democrazia e partecipazione dei cittadini sono intesi come un elemento fondamentale, assieme alla promozione della diversità culturale e del patrimonio culturale. L’Unione europea deve “continuare a essere la più accesa sostenitrice dell’ordinamento giuridico internazionale, difendendo strenuamente le Nazioni Unite e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite”.

Segue il capitolo denominato “Un’Europa forte e sicura”. Qui si nota come soprattutto la guerra in Ucraina abbia imposto il tema della sicurezza e della difesa. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina è anche un attacco contro un’Europa libera e democratica. L’Unione europea rimarrà al fianco dell’Ucraina nella sua lotta per mantenere l’indipendenza e la sovranità e riconquistare l’integrità territoriale entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale. Sosterremo inoltre la sua ricostruzione e il perseguimento di una pace giusta. L’Europa – aggiungono – deve essere un luogo in cui le persone siano e si sentano libere e sicure”. Ma per accrescere la sicurezza “serve una solida base economica”.

Infine “Un’Europa prospera e competitiva”. I Capi di Stato e di governo si dicono “determinati a rafforzare la base della nostra competitività a lungo termine e a migliorare il benessere economico e sociale dei cittadini”. Appare l’impegno a rafforzare il potere d’acquisto dei cittadini, a “creare buoni posti di lavoro e assicurare la qualità dei beni e dei servizi in Europa”. Quindi un ulteriore impegno, tante volte risuonato in passato e rimasto perlopiù sulla carta: “Colmeremo i nostri divari in termini di crescita, produttività e innovazione con i partner internazionali e i principali concorrenti”.

All’interno del mercato unico si vuole agire in diversi settori: energia, finanza, telecomunicazioni, commercio estero, spazio, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, semiconduttori, 5G/6G, sanità, biotecnologie, tecnologie a zero emissioni nette, mobilità, prodotti farmaceutici. Non ultima, la promessa: “Portare a buon fine le transizioni verde e digitale”. Per affermare, infine, che “la crescita economica deve andare a vantaggio di tutti i cittadini”, dove finalmente si parla di protezione sociale, formazione e istruzione, opportunità per i giovani. L’Agenda strategica è approvata. Ora il difficile, ma non impossibile compito, di andare oltre le parole.

Gianni Borsa
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Una “Agenda strategica” per il 2024-2029 che intende “rendere l’Ue più forte e accrescere la sovranità europea”, affrontando “le questioni centrali connesse alle sue priorità politiche, nonché alla sua capacità di agire di fronte alla nuova realtà geopolitica e a sfide sempre più complesse”. Elaborata nel corso dei mesi, l’agenda che guarda al futuro dell’integrazione europea è stata approvata durante il Consiglio europeo del 27 giugno. Un documento di una decina di pagine, varato non senza obiezioni e malumori di alcuni Paesi membri, che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere sviluppato e concretizzato nel prossimo quinquennio parallelamente alle riforme istituzionali suggerite dalla Conferenza sul futuro dell’Europa (maggio 2021-maggio 2022) e al processo di allargamento che guarda a Balcani, Ucraina, Moldova e Georgia. La premessa al documento ricorda alcuni punti fermi dell’Ue fra cui pace, sicurezza, cooperazione economica, lotta al cambiamento climatico, ruolo costruttivo nella “rivoluzione digitale”.

“Un’Europa libera e democratica” è il primo capitolo. Democrazia e partecipazione dei cittadini sono intesi come un elemento fondamentale, assieme alla promozione della diversità culturale e del patrimonio culturale. L’Unione europea deve “continuare a essere la più accesa sostenitrice dell’ordinamento giuridico internazionale, difendendo strenuamente le Nazioni Unite e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite”.

Segue il capitolo denominato “Un’Europa forte e sicura”. Qui si nota come soprattutto la guerra in Ucraina abbia imposto il tema della sicurezza e della difesa. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina è anche un attacco contro un’Europa libera e democratica. L’Unione europea rimarrà al fianco dell’Ucraina nella sua lotta per mantenere l’indipendenza e la sovranità e riconquistare l’integrità territoriale entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale. Sosterremo inoltre la sua ricostruzione e il perseguimento di una pace giusta. L’Europa – aggiungono – deve essere un luogo in cui le persone siano e si sentano libere e sicure”. Ma per accrescere la sicurezza “serve una solida base economica”.

Infine “Un’Europa prospera e competitiva”. I Capi di Stato e di governo si dicono “determinati a rafforzare la base della nostra competitività a lungo termine e a migliorare il benessere economico e sociale dei cittadini”. Appare l’impegno a rafforzare il potere d’acquisto dei cittadini, a “creare buoni posti di lavoro e assicurare la qualità dei beni e dei servizi in Europa”. Quindi un ulteriore impegno, tante volte risuonato in passato e rimasto perlopiù sulla carta: “Colmeremo i nostri divari in termini di crescita, produttività e innovazione con i partner internazionali e i principali concorrenti”.

All’interno del mercato unico si vuole agire in diversi settori: energia, finanza, telecomunicazioni, commercio estero, spazio, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, semiconduttori, 5G/6G, sanità, biotecnologie, tecnologie a zero emissioni nette, mobilità, prodotti farmaceutici. Non ultima, la promessa: “Portare a buon fine le transizioni verde e digitale”. Per affermare, infine, che “la crescita economica deve andare a vantaggio di tutti i cittadini”, dove finalmente si parla di protezione sociale, formazione e istruzione, opportunità per i giovani. L’Agenda strategica è approvata. Ora il difficile, ma non impossibile compito, di andare oltre le parole.

Gianni Borsa
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Convergenze parallele https://www.lavoce.it/convergenze-parallele-2/ https://www.lavoce.it/convergenze-parallele-2/#respond Thu, 27 Jun 2024 07:51:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76743

Con i risultati dei cinque ballottaggi umbri, archiviati ma ancora “freschi”, dalle elezioni comunali a quelle europee non si ferma la scia dei commenti, delle analisi e - a volte - anche dello scontro politico sul ruolo e sul posizionamento dei cattolici. Un dibattito che affiora spesso, provocando lacerazioni e ferite profonde.

Con uno sguardo attento sulle recenti amministrative, si nota come - in maniera più evidente o sotto traccia - la questione dei cattolici schierati da una parte o dall’altra non abbia riguardato solo il ballottaggio perugino, dove ci sono stati interventi e “manifesti” pubblici a favore delle due candidate di centrosinistra e centrodestra. La questione ha toccato molto da vicino anche Foligno e Gubbio, ad esempio, e altri Comuni ancora. In qualche caso le Curie diocesane e gli stessi Vescovi sono stati tirati per la giacchetta, tanto da dover diffondere messaggi di imparzialità, dialogo e richiamo alla responsabilità di elettori e candidati.

Tutto questo, alla vigilia della Settimana sociale di Trieste, chiamata a riflettere su cosa sia necessario ritrovare nel cuore della democrazia, riscoprendo una sana partecipazione popolare. Anche su queste pagine vorremmo fare la nostra parte, a cominciare dal riaprire un dialogo e un dibattito tra cattolici che possa contribuire a mettere da parte le divisioni, per riscoprire obiettivi e orizzonti comuni, pur nella differenza di schieramento.

Le nostre comunità locali, nazionale ed europea non possono permettersi il calo della partecipazione dei cittadini alle scelte che li toccano da vicino, manifestato dall’affluenza elettorale in continua flessione. Ci sono disuguaglianze sociali sempre più radicate e una povertà ormai troppo strutturale e cronica, arrivata ai massimi storici anche nella nostra Regione.

Frammentazione e polarizzazione tra gli schieramenti non aiutano la politica a risolvere i problemi reali e urgenti delle nostre comunità. Anzi, aumentano ancora di più il distacco delle persone dalla “cosa pubblica”, lasciando spazi incontrollati ai populismi di ogni specie.

Ecco, forse proprio da qui potrebbero e dovrebbero ripartire i cattolici, ritrovando l’unità nel favorire dialogo e convergenza tra schieramenti diversi sulle scelte davvero importanti per il Paese, per i Comuni e per tutti i cittadini.

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Con i risultati dei cinque ballottaggi umbri, archiviati ma ancora “freschi”, dalle elezioni comunali a quelle europee non si ferma la scia dei commenti, delle analisi e - a volte - anche dello scontro politico sul ruolo e sul posizionamento dei cattolici. Un dibattito che affiora spesso, provocando lacerazioni e ferite profonde.

Con uno sguardo attento sulle recenti amministrative, si nota come - in maniera più evidente o sotto traccia - la questione dei cattolici schierati da una parte o dall’altra non abbia riguardato solo il ballottaggio perugino, dove ci sono stati interventi e “manifesti” pubblici a favore delle due candidate di centrosinistra e centrodestra. La questione ha toccato molto da vicino anche Foligno e Gubbio, ad esempio, e altri Comuni ancora. In qualche caso le Curie diocesane e gli stessi Vescovi sono stati tirati per la giacchetta, tanto da dover diffondere messaggi di imparzialità, dialogo e richiamo alla responsabilità di elettori e candidati.

Tutto questo, alla vigilia della Settimana sociale di Trieste, chiamata a riflettere su cosa sia necessario ritrovare nel cuore della democrazia, riscoprendo una sana partecipazione popolare. Anche su queste pagine vorremmo fare la nostra parte, a cominciare dal riaprire un dialogo e un dibattito tra cattolici che possa contribuire a mettere da parte le divisioni, per riscoprire obiettivi e orizzonti comuni, pur nella differenza di schieramento.

Le nostre comunità locali, nazionale ed europea non possono permettersi il calo della partecipazione dei cittadini alle scelte che li toccano da vicino, manifestato dall’affluenza elettorale in continua flessione. Ci sono disuguaglianze sociali sempre più radicate e una povertà ormai troppo strutturale e cronica, arrivata ai massimi storici anche nella nostra Regione.

Frammentazione e polarizzazione tra gli schieramenti non aiutano la politica a risolvere i problemi reali e urgenti delle nostre comunità. Anzi, aumentano ancora di più il distacco delle persone dalla “cosa pubblica”, lasciando spazi incontrollati ai populismi di ogni specie.

Ecco, forse proprio da qui potrebbero e dovrebbero ripartire i cattolici, ritrovando l’unità nel favorire dialogo e convergenza tra schieramenti diversi sulle scelte davvero importanti per il Paese, per i Comuni e per tutti i cittadini.

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Agli esami senza patemi https://www.lavoce.it/agli-esami-senza-patemi/ https://www.lavoce.it/agli-esami-senza-patemi/#respond Thu, 20 Jun 2024 07:00:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76650 banchi singoli di scuola in una classe vuota

Siamo nel pieno della stagione della consegna delle pagelle scolastiche per tantissimi ragazzi e per un numero inferiore, ma sempre considerevole, nel corso degli esami di terza media, o a meno di una settimana da quelli di maturità. Non pare che, seppure i livelli di preparazione scolastica possano essersi abbassati, vi sia poi chissà quale lassismo. Anzi, tanti ragazzi sono vittime di ansie dalle radici misteriose e lontane e che forse non trovano direttamente sul piano scolastico il primo terreno di manifestazione, ma certo anche questo è parte integrante delle sfide che ha di fronte quella che alcuni hanno definito la “Xanax-generation”.

Come genitori non possiamo non interrogarci. Come affianchiamo i nostri figli in occasione delle prove? Oggi, per esempio, lo stesso arrivo delle pagelle ha perso un poco del fascino che aveva nel passato. Esse “escono”, come per magia, sui registri elettronici e rimbalzano sugli smartphone fra le generazioni senza quella ritualità che era connessa allo stesso supporto cartaceo...

Non che ora manchi la possibilità di questa condivisione, ma il rischio è che la mera informazione rubi il posto al calore di una reazione immediata e spontanea, a un entusiasmo condiviso, a una soddisfazione contagiosa, oppure, di converso, a una presa in carico di responsabilità che possa aiutare chi ha subìto una cocente delusione, o una vera e propria sconfitta a non sentirsi solo, a non viverla come un dramma insormontabile, ma se mai a essere supportato a recuperare il tempo perso, o la mancanza di impegno. Di fronte all’incapacità dei ragazzi di affrontare le prove con serietà, i genitori e tutta la comunità educante non

possono alzare le spalle con rassegnazione miope, o scaricare eventuali colpe su una generica complessità del presente. Non è vero che “si stava meglio quando si stava peggio”, così come non basta dire che oggi i ragazzi che vanno a scuola hanno troppe distrazioni o sono in balia dell’uso improprio della tecnologia. C’è senz’altro da vigilare sulle interferenze che la Rete e il mondo artificiale propongono alle percezioni quotidiane dei nostri ragazzi, ma questo non ci esimerà mai da un costante e indispensabile esame di coscienza sul ruolo della famiglia come presidio di umanità.

Quante situazioni e atteggiamenti diversi! C’è chi esterna preoccupazioni logorroiche e monopolizza tutti in casa… Ma c’è anche chi si chiude a riccio, non crede che ci sia spazio perché possa sfogarsi, o forse neanche lo desidera, con il rischio, però, di prendere qualche cantonata per eccesso di autoreferenzialità. Ci sono anche figli che paiono non dare il benché minimo problema e che, però, magari, negli anni avranno verso i genitori un senso di rivalsa perché a loro non si è mai data abbastanza attenzione.

Siamo chiamati a vivere queste settimane con spirito costruttivo e vigile, senza avere a nostra volta l’“ansia da prestazione” di chi vorrebbe essere in classe al posto dei figli, o peggio, proporgli scorciatoie più o meno lecite. Quella genitoriale è la fatica di chi affianca con pazienza artigianale, fatta soprattutto di ascolto mite, attento a non accusare gli insegnanti per ogni minimo insuccesso, ma al contempo facendo sentire ai ragazzi che sempre saremo dalla loro parte.

Giovanni M. Capetta
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banchi singoli di scuola in una classe vuota

Siamo nel pieno della stagione della consegna delle pagelle scolastiche per tantissimi ragazzi e per un numero inferiore, ma sempre considerevole, nel corso degli esami di terza media, o a meno di una settimana da quelli di maturità. Non pare che, seppure i livelli di preparazione scolastica possano essersi abbassati, vi sia poi chissà quale lassismo. Anzi, tanti ragazzi sono vittime di ansie dalle radici misteriose e lontane e che forse non trovano direttamente sul piano scolastico il primo terreno di manifestazione, ma certo anche questo è parte integrante delle sfide che ha di fronte quella che alcuni hanno definito la “Xanax-generation”.

Come genitori non possiamo non interrogarci. Come affianchiamo i nostri figli in occasione delle prove? Oggi, per esempio, lo stesso arrivo delle pagelle ha perso un poco del fascino che aveva nel passato. Esse “escono”, come per magia, sui registri elettronici e rimbalzano sugli smartphone fra le generazioni senza quella ritualità che era connessa allo stesso supporto cartaceo...

Non che ora manchi la possibilità di questa condivisione, ma il rischio è che la mera informazione rubi il posto al calore di una reazione immediata e spontanea, a un entusiasmo condiviso, a una soddisfazione contagiosa, oppure, di converso, a una presa in carico di responsabilità che possa aiutare chi ha subìto una cocente delusione, o una vera e propria sconfitta a non sentirsi solo, a non viverla come un dramma insormontabile, ma se mai a essere supportato a recuperare il tempo perso, o la mancanza di impegno. Di fronte all’incapacità dei ragazzi di affrontare le prove con serietà, i genitori e tutta la comunità educante non

possono alzare le spalle con rassegnazione miope, o scaricare eventuali colpe su una generica complessità del presente. Non è vero che “si stava meglio quando si stava peggio”, così come non basta dire che oggi i ragazzi che vanno a scuola hanno troppe distrazioni o sono in balia dell’uso improprio della tecnologia. C’è senz’altro da vigilare sulle interferenze che la Rete e il mondo artificiale propongono alle percezioni quotidiane dei nostri ragazzi, ma questo non ci esimerà mai da un costante e indispensabile esame di coscienza sul ruolo della famiglia come presidio di umanità.

Quante situazioni e atteggiamenti diversi! C’è chi esterna preoccupazioni logorroiche e monopolizza tutti in casa… Ma c’è anche chi si chiude a riccio, non crede che ci sia spazio perché possa sfogarsi, o forse neanche lo desidera, con il rischio, però, di prendere qualche cantonata per eccesso di autoreferenzialità. Ci sono anche figli che paiono non dare il benché minimo problema e che, però, magari, negli anni avranno verso i genitori un senso di rivalsa perché a loro non si è mai data abbastanza attenzione.

Siamo chiamati a vivere queste settimane con spirito costruttivo e vigile, senza avere a nostra volta l’“ansia da prestazione” di chi vorrebbe essere in classe al posto dei figli, o peggio, proporgli scorciatoie più o meno lecite. Quella genitoriale è la fatica di chi affianca con pazienza artigianale, fatta soprattutto di ascolto mite, attento a non accusare gli insegnanti per ogni minimo insuccesso, ma al contempo facendo sentire ai ragazzi che sempre saremo dalla loro parte.

Giovanni M. Capetta
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