ABAT JOUR Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/rubriche/abat-jour/ Settimanale di informazione regionale Thu, 21 May 2020 14:58:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg ABAT JOUR Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/rubriche/abat-jour/ 32 32 Benigni: una prova di forza https://www.lavoce.it/benigni-una-prova-di-forza/ Tue, 12 May 2020 14:52:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57140 Sì, penso che sia stata soprattutto una prova di forza. Parlo della trasmissione televisiva che Roberto Benigni ha dedicato alla presentazione dei Dieci Comandamenti la sera di sabato 9 maggio u.s.. Una prova di forza. Tanto più perché l’aveva già fatta, quella presentazione, nel 2014.

“Voglio vedere se il mio pubblico regge ancora un mio monologo lungo un po’ più di tre ore e mezza!” Ha retto, quel pubblico, e ha continuato ad applaudire, ininterrottamente, dalle 20,30 alle 24 e oltre. Prova di forza riuscita, perché la vis comunicativa di Benigni ti coinvolge anche quando parla di zecche e pappataci, ma soprattutto perché giustificava lo spreco di aggettivi superlativi con la grande capacità di cogliere la sostanza di profonda umanità e di straordinaria attualità presente in ognuna delle Dieci Parole che Dio lanciò nella storia dal Mone Sinai.

“Profonda umanità”. Particolarmente intensa nella presentazione del quarto comandamento; “Onora il padre e la madre”: sono venuti a galla i ricordi personali; e con essi la forza morale, elementare ma di grande spessore, della famiglia contadina dei temi andati, con la sua capacità di apprezzare le cose della vita per quello che valgono: da questa istanza ideale di quella famiglia, che è stata anche la sua, è nato l’artista Benigni.
“Straordinaria attualità”. Quel commento al nono comandamento, “Non desiderare la roba d’altri”, con quel ripetuto, shockante ritornello; “Rubano e non se ne vergognano, rubano e se ne vantano!!”

“Me la faranno pagare, o mi faranno cardinale?” ti sei chiesto: niente, Roberto non se ne farà niente. Non c’è motivo per farlo. Ti saremo sempre grati per l’intensità morale che hai colto nelle tavole del Sinai, ma…

Ma vedi, quella è solo una tappa della storia che inizia con Adamo a finisce nella valle di Giosafat: la storia della salvezza. Una storia all’interno della quale le dieci parole date a Mosè rappresentano una tappa, di perenne validità, certo, ma solo una tappa.
Verrà il tempo in cui l’uomo di Nazareth, e sulla sua scia, ma con particolare vigore, Paolo di Tarso relativizzerà la legge a favore della Grazia.

Il tempo in cui, senza dimenticarle, anzi, proprio grazie anche ad esse, Agostino compendierà tutto in quattro parole: “Ama et fac quod vis!”. Tutto il resto sarà sempre e soltanto esemplificazione. Le Dieci Parole potevano essere anche dodici, o anche sette: l’importante che si potesse giungere alle quattro parole di Agostino.

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Anche perché l’asticella s’alza https://www.lavoce.it/anche-perche-lasticella-salza/ Mon, 11 May 2020 16:47:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57078 logo abat jour, rubrica settimanale

L’ultima abat-jour denunciava amarezza di fronte alla prorompente banalizzazione di un importante capitolo della vicenda umana qual è la sfera sessuale, ma si chiudeva con una nota positiva appena accennata: “anche perché”… Perché è stata l’occasione buona per esaltare ulteriormente la dignità di quella sfera alla luce del mistero che fa centro in Cristo.

Il matrimonio

Ricordo qualcosa della vecchia teologia del sacramento come me l’insegnò il prof. Lambruschini al Laterano, a ridosso dell’inizio del Concilio; essa ruotava intorno all’affermazione che “il matrimonio in tanto è sacramento in quanto è contratto”: consiste nelle cessione al coniuge dei diritti sul proprio corpo, che fra l’altro “contiene” anche l’anima... Un mercato delle vacche con tanto d’acqua santa. Oggi l’introduzione al nuovo rito del matrimonio, varato nel 2002: “Con la celebrazione del sacramento del Matrimonio gli sposi cristiani partecipano all’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa e ricevono la grazia di viverla e manifestarla nel loro rapporto di coppia e nella vita familiare. Si tratta di una celebrazione in cui si attua un evento salvifico”. E la colletta: “Dio onnipotente, origine e fonte della vita, che ci hai rigenerati nell’acqua con la potenza del tuo Spirito, ravviva in tutti noi la grazia del Battesimo e concedi a N. e N. un cuore libero e una fede ardente perché, purificati nell’intimo, accolgano il dono del Matrimonio, nuova via della loro santificazione”. E si invita a privilegiare le letture che esprimono in modo particolare l’importanza e la dignità del Matrimonio nel mistero della salvezza. Questo modo di fare della Chiesa, credo ci debba entusiasmare. Più la cultura dei nostri giorni si laicizza in senso negativo, deprezzando la dignità dell’essere umano, più la Chiesa rilancia la grandezza dell’avventura umana. Più la invitano, i tanti suoi improvvisati consiglieri, ad abbassare l’asticella, e più la Chiesa, nella sua giovanissima vecchiaia, quell’asticella la alza! A cura di Angelo M. Fanucci]]>
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L’ultima abat-jour denunciava amarezza di fronte alla prorompente banalizzazione di un importante capitolo della vicenda umana qual è la sfera sessuale, ma si chiudeva con una nota positiva appena accennata: “anche perché”… Perché è stata l’occasione buona per esaltare ulteriormente la dignità di quella sfera alla luce del mistero che fa centro in Cristo.

Il matrimonio

Ricordo qualcosa della vecchia teologia del sacramento come me l’insegnò il prof. Lambruschini al Laterano, a ridosso dell’inizio del Concilio; essa ruotava intorno all’affermazione che “il matrimonio in tanto è sacramento in quanto è contratto”: consiste nelle cessione al coniuge dei diritti sul proprio corpo, che fra l’altro “contiene” anche l’anima... Un mercato delle vacche con tanto d’acqua santa. Oggi l’introduzione al nuovo rito del matrimonio, varato nel 2002: “Con la celebrazione del sacramento del Matrimonio gli sposi cristiani partecipano all’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa e ricevono la grazia di viverla e manifestarla nel loro rapporto di coppia e nella vita familiare. Si tratta di una celebrazione in cui si attua un evento salvifico”. E la colletta: “Dio onnipotente, origine e fonte della vita, che ci hai rigenerati nell’acqua con la potenza del tuo Spirito, ravviva in tutti noi la grazia del Battesimo e concedi a N. e N. un cuore libero e una fede ardente perché, purificati nell’intimo, accolgano il dono del Matrimonio, nuova via della loro santificazione”. E si invita a privilegiare le letture che esprimono in modo particolare l’importanza e la dignità del Matrimonio nel mistero della salvezza. Questo modo di fare della Chiesa, credo ci debba entusiasmare. Più la cultura dei nostri giorni si laicizza in senso negativo, deprezzando la dignità dell’essere umano, più la Chiesa rilancia la grandezza dell’avventura umana. Più la invitano, i tanti suoi improvvisati consiglieri, ad abbassare l’asticella, e più la Chiesa, nella sua giovanissima vecchiaia, quell’asticella la alza! A cura di Angelo M. Fanucci]]>
Amore, dal romanzo alle fiction. Quanti secoli! https://www.lavoce.it/amore-dal-romanzo-alle-fiction-quanti-secoli/ Fri, 01 May 2020 10:50:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57004 logo abat jour, rubrica settimanale

Parbleu! Non è vero che in tempo di coronavirus tutta le nostre attività vanno avanti col freno tirato. Le fiction televisive, ad esempio, hanno fatto registrare un vero balzellone in avanti. E l’ozio della pandemia ha imposto molte delle loro molte puntate anche all’autore di abat-jour, notoriamente prevenuto verso tutto ciò che (come fiction, appunto) viene dal latino fingere . E invece oggi lui si rammarica del fatto che il mostro invisibile ha decurtato della puntata più importante, l’ultima, due delle fiction più coinvolgenti: Doc – Nelle tue mani e Il commissario Maltese. Tra le tante impressioni positive, ne emerge però una molto negativa: il rapporto sessuale sembra ridotto a poco più di una stretta di mano. Il matrimonio oggi non serve più a nulla, sembra. L’eterno Montalbano convive con Livia, ma Inge è quasi una riserva fissa, e poi lui non si tira mai indietro quando altre fìmmine si fanno avanti. Il suo vice Mimì è sposato, ma vive in perenne tensione a tradire la moglie Beba... Il commissario Maltese, la sera stessa del giorno in cui l’ha sottratta all’amico che l’affiancava per l’ultima volta nella sua lotta alla mafia trapanese, deliba felicemente Elisa, la fidanzata che viene dal Nord.

Quanto diverso il racconto dell'amore!

Quanti secoli sono passati da quando lo sguardo di Lucia, stressata fino al pianto al culmine della “notte degli inganni”, dalla barca che la portava lontano dalle grinfie di don Rodrigo andava accarezzando con lo sguardo, al chiarore della luna, i luoghi della sua infanzia? E le ultime che quel suo sguardo mestissimo accarezzava erano la casa di Renzo e la chiesetta: “Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!”. Faccio male se lascio che cresca lo sgongolo d’amarezza che mi s’è formato in gola? Faccio male. Anche perché… Angelo M. Fanucci]]>
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Parbleu! Non è vero che in tempo di coronavirus tutta le nostre attività vanno avanti col freno tirato. Le fiction televisive, ad esempio, hanno fatto registrare un vero balzellone in avanti. E l’ozio della pandemia ha imposto molte delle loro molte puntate anche all’autore di abat-jour, notoriamente prevenuto verso tutto ciò che (come fiction, appunto) viene dal latino fingere . E invece oggi lui si rammarica del fatto che il mostro invisibile ha decurtato della puntata più importante, l’ultima, due delle fiction più coinvolgenti: Doc – Nelle tue mani e Il commissario Maltese. Tra le tante impressioni positive, ne emerge però una molto negativa: il rapporto sessuale sembra ridotto a poco più di una stretta di mano. Il matrimonio oggi non serve più a nulla, sembra. L’eterno Montalbano convive con Livia, ma Inge è quasi una riserva fissa, e poi lui non si tira mai indietro quando altre fìmmine si fanno avanti. Il suo vice Mimì è sposato, ma vive in perenne tensione a tradire la moglie Beba... Il commissario Maltese, la sera stessa del giorno in cui l’ha sottratta all’amico che l’affiancava per l’ultima volta nella sua lotta alla mafia trapanese, deliba felicemente Elisa, la fidanzata che viene dal Nord.

Quanto diverso il racconto dell'amore!

Quanti secoli sono passati da quando lo sguardo di Lucia, stressata fino al pianto al culmine della “notte degli inganni”, dalla barca che la portava lontano dalle grinfie di don Rodrigo andava accarezzando con lo sguardo, al chiarore della luna, i luoghi della sua infanzia? E le ultime che quel suo sguardo mestissimo accarezzava erano la casa di Renzo e la chiesetta: “Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!”. Faccio male se lascio che cresca lo sgongolo d’amarezza che mi s’è formato in gola? Faccio male. Anche perché… Angelo M. Fanucci]]>
“Tollere”: farsi carico di https://www.lavoce.it/tollere-farsi-carico-di/ Wed, 25 Mar 2020 14:00:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56549 logo abat jour, rubrica settimanale

Tollere come “condonare” o tollere come “farsi carico di”.

Qual è il senso giusto da attribuire all’offerta che Gesù ha fatto a Dio al posto nostro, quando ha deciso di tollere i nostri peccati?

Qui a Gubbio, come in tante altre comunità d’antica tradizione, la processione del Venerdì santo parte al tramonto. Parte da Porta Metauro e attraversa tutta la città. Ore di cammino dietro a Lui, che stamane, deposto dalla croce, è stato adagiato sul catafalco. Le donne del quartiere di San Martino gli hanno unto le piaghe con olio vergine e profumi di prima qualità. Circa 200 uomini di ogni classe sociale, divisi in due cori, stanno per intonare il Miserere in latino, a due voci, quattro note traboccanti di passione che ci arrivano dal cuore del grande Medioevo e attraversano tutta la città; un coro dietro a Lui, l’altro dietro a sua Madre. Decine e decine sono quelli che, incappucciati per il dolore e la vergogna, reggono il baldacchino o portano i simboli della Passione. https://www.youtube.com/watch?time_continue=134&v=VnsvEHpLTiY&feature=emb_logo Eccolo lì, il volto scavato, il corpo lacerato, le braccia larghe, eccolo lì: schiacciato da un peso invisibile ma immenso, il peso che Lui ha scelto di tollere, di caricare su se stesso, il peso dei nostri peccati. Dio mio, come l’ha ridotto il male del mondo! Era quello il costo della satisfactio vicaria che lui offriva a Dio al posto nostro. Mi dissero, più di 50 anni fa, i miei docenti al Laterano che la logica dell’offesa e la logica della riparazione dell’offesa sono profondamente diverse. Lo spessore dell’offesa va valutato sulla persona che viene offesa: quando è Dio che viene offeso, la gravità del fatto è inaudita. L’efficacia della riparazione dell’offesa è invece legata alla statura morale di colui che la chiede. E dunque, pensare che un uomo possa riparare adeguatamente l’offesa che lui e i suoi hanno fatto a Dio, è da pazzi. Solo un Dio può offrire a Dio una riparazione adeguata. Gesù, vero uomo e vero Dio, solo Lui poteva offrire l’azione riparatrice adeguata (satis-factio, satis facere). E l’ha fatto offrendo al Padre il suo sangue. Il sangue nella sua materialità era gradito al dio degli aztechi, la cui benevolenza ogni giorno a mezzogiorno ne faceva congrua provvista, succhiandolo da due ventenni inermi. Ma per noi cristiani il sangue è un segno: il sangue di Gesù è il segno della sofferenza e della morte dovute al fatto di essersi fatto carico dei nostri peccati. Qui la grande domanda: perché quella sofferenza, perché quella morte?]]>
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Tollere come “condonare” o tollere come “farsi carico di”.

Qual è il senso giusto da attribuire all’offerta che Gesù ha fatto a Dio al posto nostro, quando ha deciso di tollere i nostri peccati?

Qui a Gubbio, come in tante altre comunità d’antica tradizione, la processione del Venerdì santo parte al tramonto. Parte da Porta Metauro e attraversa tutta la città. Ore di cammino dietro a Lui, che stamane, deposto dalla croce, è stato adagiato sul catafalco. Le donne del quartiere di San Martino gli hanno unto le piaghe con olio vergine e profumi di prima qualità. Circa 200 uomini di ogni classe sociale, divisi in due cori, stanno per intonare il Miserere in latino, a due voci, quattro note traboccanti di passione che ci arrivano dal cuore del grande Medioevo e attraversano tutta la città; un coro dietro a Lui, l’altro dietro a sua Madre. Decine e decine sono quelli che, incappucciati per il dolore e la vergogna, reggono il baldacchino o portano i simboli della Passione. https://www.youtube.com/watch?time_continue=134&v=VnsvEHpLTiY&feature=emb_logo Eccolo lì, il volto scavato, il corpo lacerato, le braccia larghe, eccolo lì: schiacciato da un peso invisibile ma immenso, il peso che Lui ha scelto di tollere, di caricare su se stesso, il peso dei nostri peccati. Dio mio, come l’ha ridotto il male del mondo! Era quello il costo della satisfactio vicaria che lui offriva a Dio al posto nostro. Mi dissero, più di 50 anni fa, i miei docenti al Laterano che la logica dell’offesa e la logica della riparazione dell’offesa sono profondamente diverse. Lo spessore dell’offesa va valutato sulla persona che viene offesa: quando è Dio che viene offeso, la gravità del fatto è inaudita. L’efficacia della riparazione dell’offesa è invece legata alla statura morale di colui che la chiede. E dunque, pensare che un uomo possa riparare adeguatamente l’offesa che lui e i suoi hanno fatto a Dio, è da pazzi. Solo un Dio può offrire a Dio una riparazione adeguata. Gesù, vero uomo e vero Dio, solo Lui poteva offrire l’azione riparatrice adeguata (satis-factio, satis facere). E l’ha fatto offrendo al Padre il suo sangue. Il sangue nella sua materialità era gradito al dio degli aztechi, la cui benevolenza ogni giorno a mezzogiorno ne faceva congrua provvista, succhiandolo da due ventenni inermi. Ma per noi cristiani il sangue è un segno: il sangue di Gesù è il segno della sofferenza e della morte dovute al fatto di essersi fatto carico dei nostri peccati. Qui la grande domanda: perché quella sofferenza, perché quella morte?]]>
Alla radice del nostro rapporto con i poveri https://www.lavoce.it/radice-rapporto-poveri/ Fri, 13 Mar 2020 14:34:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56464 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Se uno è veramente cristiano, tende a rapportarsi ai poveri come l’ha fatto Gesù. Secoli prima che Lui scendesse tra noi, il profeta Isaia ci ha dato una precisa indicazione per riconoscere quando quella discesa sarebbe avvenuta: “Egli non spegnerà i lucignoli fumiganti, non finirà di spezzare le canne incrinate”. Lo riconoscerete dal fatto che si prenderà cura delle forme deboli di vita. Poi, il Battista, l’ultimo dei profeti dell’Antica Alleanza, l’ha chiamato “Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”.

Nella Nuova Alleanza queste parole vengono rilanciate nel momento apicale della celebrazione eucaristica. Sono state dette le sante parole che la sera dell’Ultima Cena Gesù ci chiese di ripetere sul pane e sul vino ogniqualvolta l’avessimo voluto con noi. Poi il celebrante, alzando al cielo le sacre specie (“per Cristo, con Cristo e in Cristo”), ci ha ricordato che la storia nella sua totalità è sacra, e che nella loro anima profonda gli eventi che si srotolano nel tempo hanno tutti come comune denominatore la gloria di Dio.

Poi, con tutta l’assemblea, ha pregato il Padre con le parole suggerite da suo Figlio. E adesso il pane e il vino consacrati si protende verso l’assemblea e si alza quasi un grido: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”.

“Toglie”: una delle parole che il Nuovo Messale modificherà, insieme a quel “non ci indurre in tentazione” che stona tanto con il resto del Padre nostro.

“Toglie”: il mistero impallidisce. Cos’è stata, un’amnistia? “Via, abbiamo peccato, purtroppo; ma poi ci siamo accaparrati l’amicizia del Figlio di Dio; egli ha chiesto al Padre di perdonarci. E il Padre ha annuito”. No, non può essere.

Certo, il latino tollere può indicare anche il gesto con cui un creditore cassa dal suo registro la cifra che il suo debitore gli deve. Ma non è il caso nostro, sarebbe un significato troppo riduttivo. Tollere connota anche il gesto dello schiavo che scarica la nave appena arrivata dall’Africa, e si carica sulle spalle una balla enorme di cotone. “Cancella” il debito che abbiamo contratto con il peccato, oppure quel debito lo fa proprio, lo “carica” su se stesso. Una domanda decisiva. Occorre una risposta decisiva.

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di Angelo M. Fanucci

Se uno è veramente cristiano, tende a rapportarsi ai poveri come l’ha fatto Gesù. Secoli prima che Lui scendesse tra noi, il profeta Isaia ci ha dato una precisa indicazione per riconoscere quando quella discesa sarebbe avvenuta: “Egli non spegnerà i lucignoli fumiganti, non finirà di spezzare le canne incrinate”. Lo riconoscerete dal fatto che si prenderà cura delle forme deboli di vita. Poi, il Battista, l’ultimo dei profeti dell’Antica Alleanza, l’ha chiamato “Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”.

Nella Nuova Alleanza queste parole vengono rilanciate nel momento apicale della celebrazione eucaristica. Sono state dette le sante parole che la sera dell’Ultima Cena Gesù ci chiese di ripetere sul pane e sul vino ogniqualvolta l’avessimo voluto con noi. Poi il celebrante, alzando al cielo le sacre specie (“per Cristo, con Cristo e in Cristo”), ci ha ricordato che la storia nella sua totalità è sacra, e che nella loro anima profonda gli eventi che si srotolano nel tempo hanno tutti come comune denominatore la gloria di Dio.

Poi, con tutta l’assemblea, ha pregato il Padre con le parole suggerite da suo Figlio. E adesso il pane e il vino consacrati si protende verso l’assemblea e si alza quasi un grido: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”.

“Toglie”: una delle parole che il Nuovo Messale modificherà, insieme a quel “non ci indurre in tentazione” che stona tanto con il resto del Padre nostro.

“Toglie”: il mistero impallidisce. Cos’è stata, un’amnistia? “Via, abbiamo peccato, purtroppo; ma poi ci siamo accaparrati l’amicizia del Figlio di Dio; egli ha chiesto al Padre di perdonarci. E il Padre ha annuito”. No, non può essere.

Certo, il latino tollere può indicare anche il gesto con cui un creditore cassa dal suo registro la cifra che il suo debitore gli deve. Ma non è il caso nostro, sarebbe un significato troppo riduttivo. Tollere connota anche il gesto dello schiavo che scarica la nave appena arrivata dall’Africa, e si carica sulle spalle una balla enorme di cotone. “Cancella” il debito che abbiamo contratto con il peccato, oppure quel debito lo fa proprio, lo “carica” su se stesso. Una domanda decisiva. Occorre una risposta decisiva.

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Due ragazze https://www.lavoce.it/due-ragazze/ Thu, 13 Feb 2020 15:05:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56280 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Sono morte quasi contemporaneamente. Parlo di due ragazze accolte nella mia Comunità di Capodarco dell’Umbria (che oggi, per la verità, è un po’ meno mia).

Cinzia

La prima delle due, Cinzia Coco, l’avevamo incontrata vent’anni fa sulla strada che da Rignano Garganico conduce a San Giovanni Rotondo: inchiodata alla sua carrozzina, ma mentalmente vivissima, e un fisico capace, al massimo, di battere i tasti di un pc. Aveva appena conseguito il diploma magistrale.

Bene, benissimo, ma purtroppo si apprestava a trascorrere a letto quasi la giornata intera, visto che, da una parte, i Servizi sociali non l’avrebbero più prelevata per portarla a scuola e, dall’altra, la sua piccola famiglia, oggettivamente, di assistenza gliene poteva garantire pochissima. “Vieni!”. Venne con noi a Perugia, Cinzia, nella Comunità di Capodarco dell’Umbria, prima a Prepo, poi a via Pennetti Pennella.

Alla facoltà di Economia si laureò con il prof. Cavazzoni, “Gianfri” per gli amici, che nell’atto di dichiararla dottore in Economia ebbe per lei e per la mia Comunità parole di oro fino. Poi Cinzia mise a frutto quello che aveva imparato e, grazie anche alle sue notevoli competenze informatiche, divenne segretaria dell’Acradu (Associazione cristiana residenze per anziani e disabili dell’Umbria), oggi presieduta dalla Di Maolo.

Poi l’ictus violentissimo, venti giorni fa. Nell’unico momento di riemersione della coscienza, ha mandato un saluto ai compagni di strada ai quali pensava di aver fatto torto.

Franca

L’altra, Franca Vagnarelli, era tornata a Gubbio da Torino quando suo padre Renato era andato in pensione dal lavoro, un lavoro fatto giorno dopo giorno obtorto collocon la ferma intenzione di farsi casa quaggiù. C’era riuscito, ma Franca a Gubbio s’era portata dentro da Torino un disagio più grande di lei, destinato a crescere dopo la morte del padre e a farsi patologico ogni giorno di più. E su di esso si sono accumulati tanti guai medici diversi, fino alla morte, sabato scorso.

Ci guardiamo in faccia, sgomenti, con le operatrici che con maggiore intensità hanno lavorato per e su Cinzia e Franca. Non è servito a niente, quel nostro impegno lungo, difficile, faticosamente rinnovato ogni giorno?

Nel tesoro del regno di Dio, gremito dei tentativi di bene approdati a niente, il Signore ha collocato tra i più preziosi ogni tentativo che chiunque abbia fatto per dare alle personalità ferite quello che loro spetta: il respiro della persona. Lode a Lui, che solo fa giustizia!

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di Angelo M. Fanucci

Sono morte quasi contemporaneamente. Parlo di due ragazze accolte nella mia Comunità di Capodarco dell’Umbria (che oggi, per la verità, è un po’ meno mia).

Cinzia

La prima delle due, Cinzia Coco, l’avevamo incontrata vent’anni fa sulla strada che da Rignano Garganico conduce a San Giovanni Rotondo: inchiodata alla sua carrozzina, ma mentalmente vivissima, e un fisico capace, al massimo, di battere i tasti di un pc. Aveva appena conseguito il diploma magistrale.

Bene, benissimo, ma purtroppo si apprestava a trascorrere a letto quasi la giornata intera, visto che, da una parte, i Servizi sociali non l’avrebbero più prelevata per portarla a scuola e, dall’altra, la sua piccola famiglia, oggettivamente, di assistenza gliene poteva garantire pochissima. “Vieni!”. Venne con noi a Perugia, Cinzia, nella Comunità di Capodarco dell’Umbria, prima a Prepo, poi a via Pennetti Pennella.

Alla facoltà di Economia si laureò con il prof. Cavazzoni, “Gianfri” per gli amici, che nell’atto di dichiararla dottore in Economia ebbe per lei e per la mia Comunità parole di oro fino. Poi Cinzia mise a frutto quello che aveva imparato e, grazie anche alle sue notevoli competenze informatiche, divenne segretaria dell’Acradu (Associazione cristiana residenze per anziani e disabili dell’Umbria), oggi presieduta dalla Di Maolo.

Poi l’ictus violentissimo, venti giorni fa. Nell’unico momento di riemersione della coscienza, ha mandato un saluto ai compagni di strada ai quali pensava di aver fatto torto.

Franca

L’altra, Franca Vagnarelli, era tornata a Gubbio da Torino quando suo padre Renato era andato in pensione dal lavoro, un lavoro fatto giorno dopo giorno obtorto collocon la ferma intenzione di farsi casa quaggiù. C’era riuscito, ma Franca a Gubbio s’era portata dentro da Torino un disagio più grande di lei, destinato a crescere dopo la morte del padre e a farsi patologico ogni giorno di più. E su di esso si sono accumulati tanti guai medici diversi, fino alla morte, sabato scorso.

Ci guardiamo in faccia, sgomenti, con le operatrici che con maggiore intensità hanno lavorato per e su Cinzia e Franca. Non è servito a niente, quel nostro impegno lungo, difficile, faticosamente rinnovato ogni giorno?

Nel tesoro del regno di Dio, gremito dei tentativi di bene approdati a niente, il Signore ha collocato tra i più preziosi ogni tentativo che chiunque abbia fatto per dare alle personalità ferite quello che loro spetta: il respiro della persona. Lode a Lui, che solo fa giustizia!

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Fa’ il bene e scordalo… https://www.lavoce.it/fa-il-bene-e-scordalo/ Wed, 05 Feb 2020 15:52:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56215 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Non so chi sia stato a inviarlo alla mia email, con viva preghiera di diffonderlo il più possibile. So solo che quel video mi ha lasciato a lungo a bocca aperta. Un video, girato probabilmente nei primi anni Duemila, che inquadra un nutrito pubblico di over-50 ambosessi che si appresta ad ascoltare un concerto.

Un concerto che in realtà è solo un pretesto. E infatti in sala non è risuonato nemmeno un accordo, ma a un certo momento tutti all’unisono si sono alzati in piedi. Tutti, tranne lui che rimane seduto, sommerso dagli abbracci di tutti, prima sorpreso, poi commosso. Lui è Nicholas Winton, un signore inglese che dimostra molto meno degli anni che ha, e che da oltre cinquant’anni si porta dentro un segreto che pensa nessuno abbia mai condiviso né condividerà con lui. E invece...

Durante la Seconda guerra mondiale il giovane Nicholas Winton lavorava in Cecoslovacchia e assisteva sgomento allo scempio nazista degli ebrei. Assisteva. Ma perché non fare qualcosa, perché non tentare, protetto dalla carta d’identità, di sottrarre al suo destino quel bambino… quello là, Jan, un faccino così dolce, e con gli occhi così tristi? Ci provò e ci riuscì, a trasferirlo in Inghilterra, affidandolo a una famiglia sensibile alla tragedia. E dopo Jan, perché non tentare con Petr, Tomas, Pavel…? Negli anni la lista si allungò, fino a 669. Seicentosessantanove bambini cecoslovacchi sottratti alla morte atroce che un criminale pazzo e onnipotente voleva per loro.

Sottratti e affidati, in Inghilterra, a famiglie accoglienti. Tutto fatto attraverso documenti falsi ma timbrati come credibili. Di ognuno di essi Winton conservava copia auteticata. Finita la guerra, Winton depose un angolo del soffitto di casa il malloppo che documentava i 669 salvataggi, e continuò a vivere e a lavorare come aveva sempre vissuto e lavorato. Ma la moglie Greta, curiosando un giorno nel soffitto a tempo perso, rinvenne il malloppo e lo passò a un giornalista, che organizzò il falso concerto. Falso come concerto, autentico come un “grazie!” impastato di vita.

Oddìo, “falso concerto”! Un’aria sicuramente qualcuno l’ha eseguita, un’aria dolce che, come cassa di risonanza, ha avuto l’universo. Una musica dolcissima, su parole eterne: “Fa’ il bene e scòrdalo!”.

Sottintendendo l’altra faccia della medaglia: “Fa’ il male e pensaci!”.

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di Angelo M. Fanucci

Non so chi sia stato a inviarlo alla mia email, con viva preghiera di diffonderlo il più possibile. So solo che quel video mi ha lasciato a lungo a bocca aperta. Un video, girato probabilmente nei primi anni Duemila, che inquadra un nutrito pubblico di over-50 ambosessi che si appresta ad ascoltare un concerto.

Un concerto che in realtà è solo un pretesto. E infatti in sala non è risuonato nemmeno un accordo, ma a un certo momento tutti all’unisono si sono alzati in piedi. Tutti, tranne lui che rimane seduto, sommerso dagli abbracci di tutti, prima sorpreso, poi commosso. Lui è Nicholas Winton, un signore inglese che dimostra molto meno degli anni che ha, e che da oltre cinquant’anni si porta dentro un segreto che pensa nessuno abbia mai condiviso né condividerà con lui. E invece...

Durante la Seconda guerra mondiale il giovane Nicholas Winton lavorava in Cecoslovacchia e assisteva sgomento allo scempio nazista degli ebrei. Assisteva. Ma perché non fare qualcosa, perché non tentare, protetto dalla carta d’identità, di sottrarre al suo destino quel bambino… quello là, Jan, un faccino così dolce, e con gli occhi così tristi? Ci provò e ci riuscì, a trasferirlo in Inghilterra, affidandolo a una famiglia sensibile alla tragedia. E dopo Jan, perché non tentare con Petr, Tomas, Pavel…? Negli anni la lista si allungò, fino a 669. Seicentosessantanove bambini cecoslovacchi sottratti alla morte atroce che un criminale pazzo e onnipotente voleva per loro.

Sottratti e affidati, in Inghilterra, a famiglie accoglienti. Tutto fatto attraverso documenti falsi ma timbrati come credibili. Di ognuno di essi Winton conservava copia auteticata. Finita la guerra, Winton depose un angolo del soffitto di casa il malloppo che documentava i 669 salvataggi, e continuò a vivere e a lavorare come aveva sempre vissuto e lavorato. Ma la moglie Greta, curiosando un giorno nel soffitto a tempo perso, rinvenne il malloppo e lo passò a un giornalista, che organizzò il falso concerto. Falso come concerto, autentico come un “grazie!” impastato di vita.

Oddìo, “falso concerto”! Un’aria sicuramente qualcuno l’ha eseguita, un’aria dolce che, come cassa di risonanza, ha avuto l’universo. Una musica dolcissima, su parole eterne: “Fa’ il bene e scòrdalo!”.

Sottintendendo l’altra faccia della medaglia: “Fa’ il male e pensaci!”.

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Tra la caricatura e lo sgorbio https://www.lavoce.it/caricatura-sgorbio/ Fri, 31 Jan 2020 12:10:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56168 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Paolo Sorrentino è un regista napoletano la cui fronte è stata baciata dagli dèi della celluloide. Il suo capolavoro, La grande bellezza, presentato in concorso nel 2014 a Cannes, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il Golden Globe e il Bafta (e che ’dd’è?!); altri suoi film hanno stravinto ben quattro European Film Awards, ben nove David di Donatello, ben cinque Nastri d’argento, una cuccuma di altri premi internazionali.

Ho visto solo in parte La grande bellezza e, più che un capolavoro, mi è parsa una processione, forse non banale, di punti esclamativi (“Oh, che bello!”), che però non colgono quasi mai l’anima profonda e sempre nuova dei tanti paragrafi di quella grande bellezza. Credetemi, La grande bellezza non è il film che si dice. Posso sbagliarmi, ma rimango della mia opinione.

Dove invece sono sicuro di non sbagliarmi è nel dire e proclamare tutto il male possibile del film che sta andando in onda a puntate su Sky il venerdì alle 21.15: The New Pope. Una boiata. Farà una barca di quattrini, “Il nuovo Papa”, ma è una boiata, una risibile fantasticheria sui successori di Papa Francesco e sui redivivi epigoni di Pio XII. E un insulto alla Chiesa cattolica.

Il Vaticano, il vero protagonista di The New Pope, è una insipida torta di Pasqua col formaggio muffito, offerta a carnevale a titolo di insipido scherzo.

Per molti anni ho frequentato a titolo di amicizia il prefetto della Casa pontificia mons. Paolo De’ Niccolò, antico, carissimo sodale insieme con i cardinali Ennio Antonelli e Fortunato Baldelli. Attraversavo il portone di bronzo, mi compiacevo dell’assoluta sintonia con cui le due guardie svizzere guastavano la croce di sant’Andrea delle loro lance per farmi passare, salivo lentamente lo scalone d’onore, giravo a destra… ed era come tornare a tanti anni prima.

Parlavamo della Chiesa con don Paolo, come allora: l’habitat sicuro della nostra vita, che ci chiedeva di obbedire senza rinunciare a inventare, che ci garantiva la sostanza, e a volte di deludeva nei dettagli.

I pupazzi di The New Pope nemmeno lontanamente appartengono a quel mondo. Sono attori che rimangono attori, e del personaggio che dovrebbero incarnare danno un versione che è fra la caricatura e lo sgorbio puro e semplice.

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di Angelo M. Fanucci

Paolo Sorrentino è un regista napoletano la cui fronte è stata baciata dagli dèi della celluloide. Il suo capolavoro, La grande bellezza, presentato in concorso nel 2014 a Cannes, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il Golden Globe e il Bafta (e che ’dd’è?!); altri suoi film hanno stravinto ben quattro European Film Awards, ben nove David di Donatello, ben cinque Nastri d’argento, una cuccuma di altri premi internazionali.

Ho visto solo in parte La grande bellezza e, più che un capolavoro, mi è parsa una processione, forse non banale, di punti esclamativi (“Oh, che bello!”), che però non colgono quasi mai l’anima profonda e sempre nuova dei tanti paragrafi di quella grande bellezza. Credetemi, La grande bellezza non è il film che si dice. Posso sbagliarmi, ma rimango della mia opinione.

Dove invece sono sicuro di non sbagliarmi è nel dire e proclamare tutto il male possibile del film che sta andando in onda a puntate su Sky il venerdì alle 21.15: The New Pope. Una boiata. Farà una barca di quattrini, “Il nuovo Papa”, ma è una boiata, una risibile fantasticheria sui successori di Papa Francesco e sui redivivi epigoni di Pio XII. E un insulto alla Chiesa cattolica.

Il Vaticano, il vero protagonista di The New Pope, è una insipida torta di Pasqua col formaggio muffito, offerta a carnevale a titolo di insipido scherzo.

Per molti anni ho frequentato a titolo di amicizia il prefetto della Casa pontificia mons. Paolo De’ Niccolò, antico, carissimo sodale insieme con i cardinali Ennio Antonelli e Fortunato Baldelli. Attraversavo il portone di bronzo, mi compiacevo dell’assoluta sintonia con cui le due guardie svizzere guastavano la croce di sant’Andrea delle loro lance per farmi passare, salivo lentamente lo scalone d’onore, giravo a destra… ed era come tornare a tanti anni prima.

Parlavamo della Chiesa con don Paolo, come allora: l’habitat sicuro della nostra vita, che ci chiedeva di obbedire senza rinunciare a inventare, che ci garantiva la sostanza, e a volte di deludeva nei dettagli.

I pupazzi di The New Pope nemmeno lontanamente appartengono a quel mondo. Sono attori che rimangono attori, e del personaggio che dovrebbero incarnare danno un versione che è fra la caricatura e lo sgorbio puro e semplice.

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Il cardo al posto del giglio https://www.lavoce.it/cardo-posto-del-giglio/ Thu, 23 Jan 2020 14:21:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56096 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

17 dicembre 2019, genetliaco di Papa Francesco. Messaggi augurali da tutto il mondo. Grazie grazie, auguri auguri! “Tra le rose e le viole, / qualche giglio ci sta bene...”. Ma Francesco, a formulare l’augurio migliore a se stesso, ci ha pensato lui, e nella strofetta ha sostituito “cardo” a “giglio”: una decisione tutt’altro che edulcorante. Il cardo, raro, aspro nella sua montana solitudine, ha portato all’abolizione del segreto pontificio per i processi canonici relativi ad abuso sessuale sui minori, violenza sessuale e pedopornografia.

Scrive l’ Osservatore Romano: “È un segno di apertura, di disponibilità, di trasparenza, di collaborazione con le autorità civili”. Scrive Tornielli su La Stampa: “D’ora in avanti quel certo tipo di documenti (giacenti nei dicasteri vaticani e negli archivi delle varie diocesi) potranno essere consegnati ai magistrati inquirenti dei paesi rispettivi”. E Scicluna, ancora su La Stampa: “Viene così facilitata le possibilità di salvaguardare la comunità e di dire l’esito di una sentenza”.

Ma io non sono un giornalista, sono un prete bislacco, e la mia mente, spesso intorpidita dalla vecchiaia, di fronte a notizie del genere si ringaluzzisce e sogna. Sogna un Chiesa trasparente come un casa di cristallo.

Quante volte, sulla scia di san Paolo (Ef 5,27), abbiamo pregato per una Chiesa “senza macchia e senza ruga”, pur sapendo che la nostra santa Madre Chiesa lo sarà davvero, senza macchia e senza ruga, solo alla fine dei tempi. Oggi credo che dovremmo pregare con altrettanto fervore per una Chiesa senza schermi oscuranti e senza lampadine bolse, fulminate dalla notte dei tempi e mai sostituite.

Il famoso si non caste, saltem caute di san Bernardo (“se non riuscite a comportarvi da persone caste, fatelo almeno da persone caute”) fino a che punto è un imperativo saggio, fino a che punto si trasforma invece in un piccola, atroce furbizia indegna della Sposa di Cristo?

Una Chiesa trasparente. In questa direzione la notizia del decreto di dimissione dallo stato clericale per l’ex cardinale Theodore E. McCarrick, da una parte, è molto triste, in quanto conferma l’insinuazione che un certa prassi di Chiesa a volte porta sul moggio fiaccole che non fanno luce, ma fumo tossico. D’altra parte, ci si chiede quali altre prassi di Chiesa debbano essere rese impraticabili nella Chiesa, con metodi altrettanto severi.

Quelle che opprimono i poveri, certamente. E poi? La parola ai nostri giuristi. Con la speranza che abbiano letto il Vangelo. Per quel che mi riguarda, non vorrei essere nei loro panni.

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di Angelo M. Fanucci

17 dicembre 2019, genetliaco di Papa Francesco. Messaggi augurali da tutto il mondo. Grazie grazie, auguri auguri! “Tra le rose e le viole, / qualche giglio ci sta bene...”. Ma Francesco, a formulare l’augurio migliore a se stesso, ci ha pensato lui, e nella strofetta ha sostituito “cardo” a “giglio”: una decisione tutt’altro che edulcorante. Il cardo, raro, aspro nella sua montana solitudine, ha portato all’abolizione del segreto pontificio per i processi canonici relativi ad abuso sessuale sui minori, violenza sessuale e pedopornografia.

Scrive l’ Osservatore Romano: “È un segno di apertura, di disponibilità, di trasparenza, di collaborazione con le autorità civili”. Scrive Tornielli su La Stampa: “D’ora in avanti quel certo tipo di documenti (giacenti nei dicasteri vaticani e negli archivi delle varie diocesi) potranno essere consegnati ai magistrati inquirenti dei paesi rispettivi”. E Scicluna, ancora su La Stampa: “Viene così facilitata le possibilità di salvaguardare la comunità e di dire l’esito di una sentenza”.

Ma io non sono un giornalista, sono un prete bislacco, e la mia mente, spesso intorpidita dalla vecchiaia, di fronte a notizie del genere si ringaluzzisce e sogna. Sogna un Chiesa trasparente come un casa di cristallo.

Quante volte, sulla scia di san Paolo (Ef 5,27), abbiamo pregato per una Chiesa “senza macchia e senza ruga”, pur sapendo che la nostra santa Madre Chiesa lo sarà davvero, senza macchia e senza ruga, solo alla fine dei tempi. Oggi credo che dovremmo pregare con altrettanto fervore per una Chiesa senza schermi oscuranti e senza lampadine bolse, fulminate dalla notte dei tempi e mai sostituite.

Il famoso si non caste, saltem caute di san Bernardo (“se non riuscite a comportarvi da persone caste, fatelo almeno da persone caute”) fino a che punto è un imperativo saggio, fino a che punto si trasforma invece in un piccola, atroce furbizia indegna della Sposa di Cristo?

Una Chiesa trasparente. In questa direzione la notizia del decreto di dimissione dallo stato clericale per l’ex cardinale Theodore E. McCarrick, da una parte, è molto triste, in quanto conferma l’insinuazione che un certa prassi di Chiesa a volte porta sul moggio fiaccole che non fanno luce, ma fumo tossico. D’altra parte, ci si chiede quali altre prassi di Chiesa debbano essere rese impraticabili nella Chiesa, con metodi altrettanto severi.

Quelle che opprimono i poveri, certamente. E poi? La parola ai nostri giuristi. Con la speranza che abbiano letto il Vangelo. Per quel che mi riguarda, non vorrei essere nei loro panni.

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Rinnovarsi a marcia indietro https://www.lavoce.it/rinnovarsi-indietro/ Thu, 16 Jan 2020 17:01:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56036 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

“Rinnovarsi”: parola d’ordine, parola magica. Anche per la Chiesa. Rinnovarsi, accogliere e valorizzare quanto di meglio, non solo a livello di tecnica ma anche a livello di contenuti, ci offre il mondo degli uomini amati da Dio nel suo incessante protendersi verso il futuro.

Ma a volte il vero progresso esige che la Chiesa innesti la retromarcia. L’ha fatto Papa Francesco nell’ottobre 2019 accogliendo la Pacha Mama e omaggiandola.

Nella sua esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi Paolo VI aveva esordito ricordando con grande forza l’impegno di noi cosiddetti “cristiani” ad annunziare il Vangelo alle persone del nostro tempo, animate dalla speranza, ma, parimenti, spesso travagliate dalla paura e dall’angoscia. Questo è senza alcun dubbio un servizio non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità.

Papa Francesco ha sempre rilanciato con altrettanta forza il messaggio di Paolo VI. Ma quando, all’inizio del Sinodo panamazonico del 2019, un gruppo cristiano indigeno gli si è presentato con diverse immagini della loro amatissima Pacha Mama, la Madre Terra, raffigurata in legno, con il pancione della donna incinta, Papa Francesco ha ingranato la marcia indietro.

Si è ricordato del dettato conciliare che, prima ancora di annunciare loro il Vangelo, ci impone di considerare le religioni non cristiane non come permesse da Dio (così come Egli permette l’esistenza del male), ma come volute da Lui per la salvezza di coloro che le praticano.

Per questo il Papa argentino ha preso parte sia alla cerimonia centrata su alcune di quelle statuette nei Giardini vaticani, sia alla processione che le portava dalla basilica di San Pietro all’aula sinodale.

Apriti cielo! Ben 7.500 “cristiani super” hanno firmato 7.500 lettere (ovviamente “super”) che accusano Papa Francesco di… idolatria , niente meno!

Ma le statuette Pacha Mama “non sono dee”, e di conseguenza “non c’è stato alcun culto idolatrico”, perché “sono simboli di realtà ed esperienze amazzoniche, con motivazioni non solo culturali, ma anche religiose, non però di adorazione, perché anche secondo loro l’adorazione va riservata solo a Dio”.

Lo scrive il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas (Messico), mons. Felipe Arizmendi Esquivel, che con quelle popolazioni ha condiviso la vita intera, per molti anni.

Settemilacinquecento lettere a vuoto! Parola d’ordine: attaccare la spina, prima di parlare.

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di Angelo M. Fanucci

“Rinnovarsi”: parola d’ordine, parola magica. Anche per la Chiesa. Rinnovarsi, accogliere e valorizzare quanto di meglio, non solo a livello di tecnica ma anche a livello di contenuti, ci offre il mondo degli uomini amati da Dio nel suo incessante protendersi verso il futuro.

Ma a volte il vero progresso esige che la Chiesa innesti la retromarcia. L’ha fatto Papa Francesco nell’ottobre 2019 accogliendo la Pacha Mama e omaggiandola.

Nella sua esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi Paolo VI aveva esordito ricordando con grande forza l’impegno di noi cosiddetti “cristiani” ad annunziare il Vangelo alle persone del nostro tempo, animate dalla speranza, ma, parimenti, spesso travagliate dalla paura e dall’angoscia. Questo è senza alcun dubbio un servizio non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità.

Papa Francesco ha sempre rilanciato con altrettanta forza il messaggio di Paolo VI. Ma quando, all’inizio del Sinodo panamazonico del 2019, un gruppo cristiano indigeno gli si è presentato con diverse immagini della loro amatissima Pacha Mama, la Madre Terra, raffigurata in legno, con il pancione della donna incinta, Papa Francesco ha ingranato la marcia indietro.

Si è ricordato del dettato conciliare che, prima ancora di annunciare loro il Vangelo, ci impone di considerare le religioni non cristiane non come permesse da Dio (così come Egli permette l’esistenza del male), ma come volute da Lui per la salvezza di coloro che le praticano.

Per questo il Papa argentino ha preso parte sia alla cerimonia centrata su alcune di quelle statuette nei Giardini vaticani, sia alla processione che le portava dalla basilica di San Pietro all’aula sinodale.

Apriti cielo! Ben 7.500 “cristiani super” hanno firmato 7.500 lettere (ovviamente “super”) che accusano Papa Francesco di… idolatria , niente meno!

Ma le statuette Pacha Mama “non sono dee”, e di conseguenza “non c’è stato alcun culto idolatrico”, perché “sono simboli di realtà ed esperienze amazzoniche, con motivazioni non solo culturali, ma anche religiose, non però di adorazione, perché anche secondo loro l’adorazione va riservata solo a Dio”.

Lo scrive il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas (Messico), mons. Felipe Arizmendi Esquivel, che con quelle popolazioni ha condiviso la vita intera, per molti anni.

Settemilacinquecento lettere a vuoto! Parola d’ordine: attaccare la spina, prima di parlare.

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Pastorellerie https://www.lavoce.it/abat-jour-pastorellerie/ Thu, 19 Dec 2019 15:09:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55937 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Natale. Cos’è, un compleanno? Solo un compleanno? Con gli auguri ovviamente “tanti e sinceri”, doverosi come le condoglianze all’altro capo della strada? No. A Bose dicono che la luce che sfolgora la notte di Natale, in realtà, è un grido. Un grido nella notte, che anticipa un altro grido, un grido all’alba, l’alba di Pasqua.

Natale: “Qui Lui prende quel corpo che gli permetterà di morire e dirisorgere!”. Due gridi, incastrati l’uno nell’altro. Ma i milioni di persone (ci siamo dentro anche noi?) che si apprestano a delibare il loro Natale al caramello non sospettano nemmeno lontanamente che Natale sia un grido: lo sentono come una nenia.

A Natale usiamo parole andate in disuso perché siamo convinti che esse abbiano automaticamente una valenza poetica. “O Gesù, che dal grembo paterno / a noi vieni, vezzoso bambino…”. Bisognerebbe affittare un teologo per farsi spiegare che vuol dire quel grembo “paterno”: i padri che conosciamo non ce l’hanno, il grembo. Quanto poi al “vezzoso bambino”, provate a dirlo alla prima mamma che incontrate: “Signora, il suo bambino è vezzoso”. Quella vi denuncia.

No! La poesia autentica non ha bisogno di recuperi d’antiquariato, perché riesce a conferire intensità di sentimento alle parole più banali. “Dolce e chiara è la notte, e senza vento, / e quieta sovra i tetti e sovra gli orti /posa la luna”. Recanati, 1820. Tutte parole che usiamo ogni giorno.

Qui trasmettono quel qualcosa di dolce e angosciante, preciso e indefinito che chiamiamo poesia. Immagini incantate. La fede autentica, anche espressa in parole umili, è sempre poesia. Parole umili. Pensate un po’, “posa”: “posa l’osso, Fido!”. E poi i pastori.

Nella realtà erano gente dura, i pastori, gente che viveva notte e giorno con il gregge, vigorosamente rinsecchiti nel corpo e aggressivi nell’anima. Il Signore li ha scelti non “nonostante questo” ma “proprio per questo”. E la nostra Arcadia sempiterna li ha trasformati in pastorelli!

Ma ormai bisogna stare al gioco: immettere quanto possibile un po’ di sale in queste pastorellerie grondanti melassa, e riservarci uno spazio di silenzio in cui vivere l’Evento.

Chiederlo a Lui, cos’è il Natale. È questo l’augurio di Abat jour.

Insieme alla richiesta di una preghiera al Re della Pace, per la mia comunità, che naviga in un mare… non di melassa, ma di ripicche tenaci e di dispettucci piccolini. Pastorellerie anche queste.

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di Angelo M. Fanucci

Natale. Cos’è, un compleanno? Solo un compleanno? Con gli auguri ovviamente “tanti e sinceri”, doverosi come le condoglianze all’altro capo della strada? No. A Bose dicono che la luce che sfolgora la notte di Natale, in realtà, è un grido. Un grido nella notte, che anticipa un altro grido, un grido all’alba, l’alba di Pasqua.

Natale: “Qui Lui prende quel corpo che gli permetterà di morire e dirisorgere!”. Due gridi, incastrati l’uno nell’altro. Ma i milioni di persone (ci siamo dentro anche noi?) che si apprestano a delibare il loro Natale al caramello non sospettano nemmeno lontanamente che Natale sia un grido: lo sentono come una nenia.

A Natale usiamo parole andate in disuso perché siamo convinti che esse abbiano automaticamente una valenza poetica. “O Gesù, che dal grembo paterno / a noi vieni, vezzoso bambino…”. Bisognerebbe affittare un teologo per farsi spiegare che vuol dire quel grembo “paterno”: i padri che conosciamo non ce l’hanno, il grembo. Quanto poi al “vezzoso bambino”, provate a dirlo alla prima mamma che incontrate: “Signora, il suo bambino è vezzoso”. Quella vi denuncia.

No! La poesia autentica non ha bisogno di recuperi d’antiquariato, perché riesce a conferire intensità di sentimento alle parole più banali. “Dolce e chiara è la notte, e senza vento, / e quieta sovra i tetti e sovra gli orti /posa la luna”. Recanati, 1820. Tutte parole che usiamo ogni giorno.

Qui trasmettono quel qualcosa di dolce e angosciante, preciso e indefinito che chiamiamo poesia. Immagini incantate. La fede autentica, anche espressa in parole umili, è sempre poesia. Parole umili. Pensate un po’, “posa”: “posa l’osso, Fido!”. E poi i pastori.

Nella realtà erano gente dura, i pastori, gente che viveva notte e giorno con il gregge, vigorosamente rinsecchiti nel corpo e aggressivi nell’anima. Il Signore li ha scelti non “nonostante questo” ma “proprio per questo”. E la nostra Arcadia sempiterna li ha trasformati in pastorelli!

Ma ormai bisogna stare al gioco: immettere quanto possibile un po’ di sale in queste pastorellerie grondanti melassa, e riservarci uno spazio di silenzio in cui vivere l’Evento.

Chiederlo a Lui, cos’è il Natale. È questo l’augurio di Abat jour.

Insieme alla richiesta di una preghiera al Re della Pace, per la mia comunità, che naviga in un mare… non di melassa, ma di ripicche tenaci e di dispettucci piccolini. Pastorellerie anche queste.

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Una pre-evangelizzazione terapeutica https://www.lavoce.it/pre-evangelizzazione-terapeutica/ Thu, 12 Dec 2019 13:36:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55845 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

A cosa pensa Papa Francesco quando, non solo nei confronti dei cristiani non cattolici, ma anche delle religioni non cristiane, in particolare l’islam, compie quei gesti d’omaggio che provocano la brucellosi diffusa ad Antonio Socci e la valanga di critiche, in primis l’accusa di… eresia, da parte del coro diretto dal prof. De Mattei?

Alla base della sua valorizzazione di tutte le religioni c’è il Concilio, secondo il quale “le religioni contengono semi, elementi, raggi di verità e di grazia” (Nostra aetate, 2), che “rappresentano la ricchezza dei popoli” (Ad gentes11), “possono offrire spunti concreti per la salvezza dei loro seguaci” (AG, 3), non sono in antitesi con il Vangelo, il quale anzi “le purifica, le assume, le eleva”(AG, 11).

Ma oggi tutti le religioni devono assumersi la terapia d’una umanità malata di angoscia: un’angoscia radicale. Drogato di tecnologia, l’uomo di oggi non sa più dove si trova, e quando si guarda allo specchio si domanda: “Chi è quello?”.

In ottobre si è tenuto a Roma un convegno sullo spaesamento, un fenomeno che, insieme alle certezze dell’immigrato, vede crollare anche le certezze di chi dovrebbe accoglierlo. In proposito dovremmo riflettere su quello che, in Frontiere e politiche dell’inimiciziascrive Achille Membe, filosofo di colore, docente universitario a Johannesburg.

Membe sostiene che il problema fondamentale del mondo di oggi è quello di “fare i conti con quelli che, a qualsiasi titolo, non contano”. Finora si è pensato di risolverlo moltiplicando le frontiere di tutti i tipi, geografiche, sociali, culturali, pseudo-morali. Ma questo nel futuro non sarà più possibile, a causa di incremento demografico (tra 30-40 anni la popolazione africana equivarrà a quella di tutto il resto del mondo), mutamenti ecologici (presto molte zone non saranno più abitabili) e mutamenti tecnologici (già adesso la tecnologia della circolazione delle notizie sta ridicolizzando la sedentarietà).

Torna dunque di estrema attualità la tesi di teologia pastorale che Jean Daniélou, uno dei padri della Nouvelle théologie, formulò negli anni ’40 del XX secolo: “Oggi occorre che i cristiani mettano da parte il proselitismo a tutti i costi, e puntino alla ricerca di un’azione concertata con le altre religioni: ognuna di esse, dall’angolazione che le è propria, esalti gli eventi della salvezza così come il loro mistero impregna la loro storia e la loro attualità, nelle diversità di uomini e di culture”.

Una pre-evangelizzazione terapeutica, appunto. A cura di tutti coloro che ancora pronunciano il nome di Dio nel quotidiano.

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di Angelo M. Fanucci

A cosa pensa Papa Francesco quando, non solo nei confronti dei cristiani non cattolici, ma anche delle religioni non cristiane, in particolare l’islam, compie quei gesti d’omaggio che provocano la brucellosi diffusa ad Antonio Socci e la valanga di critiche, in primis l’accusa di… eresia, da parte del coro diretto dal prof. De Mattei?

Alla base della sua valorizzazione di tutte le religioni c’è il Concilio, secondo il quale “le religioni contengono semi, elementi, raggi di verità e di grazia” (Nostra aetate, 2), che “rappresentano la ricchezza dei popoli” (Ad gentes11), “possono offrire spunti concreti per la salvezza dei loro seguaci” (AG, 3), non sono in antitesi con il Vangelo, il quale anzi “le purifica, le assume, le eleva”(AG, 11).

Ma oggi tutti le religioni devono assumersi la terapia d’una umanità malata di angoscia: un’angoscia radicale. Drogato di tecnologia, l’uomo di oggi non sa più dove si trova, e quando si guarda allo specchio si domanda: “Chi è quello?”.

In ottobre si è tenuto a Roma un convegno sullo spaesamento, un fenomeno che, insieme alle certezze dell’immigrato, vede crollare anche le certezze di chi dovrebbe accoglierlo. In proposito dovremmo riflettere su quello che, in Frontiere e politiche dell’inimiciziascrive Achille Membe, filosofo di colore, docente universitario a Johannesburg.

Membe sostiene che il problema fondamentale del mondo di oggi è quello di “fare i conti con quelli che, a qualsiasi titolo, non contano”. Finora si è pensato di risolverlo moltiplicando le frontiere di tutti i tipi, geografiche, sociali, culturali, pseudo-morali. Ma questo nel futuro non sarà più possibile, a causa di incremento demografico (tra 30-40 anni la popolazione africana equivarrà a quella di tutto il resto del mondo), mutamenti ecologici (presto molte zone non saranno più abitabili) e mutamenti tecnologici (già adesso la tecnologia della circolazione delle notizie sta ridicolizzando la sedentarietà).

Torna dunque di estrema attualità la tesi di teologia pastorale che Jean Daniélou, uno dei padri della Nouvelle théologie, formulò negli anni ’40 del XX secolo: “Oggi occorre che i cristiani mettano da parte il proselitismo a tutti i costi, e puntino alla ricerca di un’azione concertata con le altre religioni: ognuna di esse, dall’angolazione che le è propria, esalti gli eventi della salvezza così come il loro mistero impregna la loro storia e la loro attualità, nelle diversità di uomini e di culture”.

Una pre-evangelizzazione terapeutica, appunto. A cura di tutti coloro che ancora pronunciano il nome di Dio nel quotidiano.

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La nave dei folli https://www.lavoce.it/nave-folli/ Mon, 12 Aug 2019 08:46:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55101 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci Stultifera navis (“La nave dei folli”): così Michel Foucault, il più grande degli storici di settore,  intitola il primo capitolo della sua Storia della follia nell'età classica. Ed è stata effettivamente una prassi “medica” quella che nel Nord Europa, sei/settecento anni fa, allontanava i "matti" che in numero eccessivo pesavano sulla comunità dei "normali", affidandoli a gente di mare. E la gente di mare spesso li stipava in grossi natanti che partivano… verso dove? Nessuno era tenuto a saperlo. Un’incombenza della quale è documentato che volentieri si facevano carico i battellieri di Francoforte nel 1399, per intero, escluso il “verso dove”. Alla nave dei folli m’hanno fatto pensare i signori che oggi reggono i destini del nostro paese. Ogni minuto dal balcone della politica s’affacciano sui nostri schermi televisivi, a volta minacciosi, più spesso civettuoli, e ci dicono cose che meritano di essere dimenticate subito dopo. Che hanno abolito la povertà, che hanno messo in sicurezza il nostro paese, che quella che comincia con loro sarà l’epoca politicamente più felice dalla Guerra dei Cento Anni in qua. Li vedi, li ascolti, ti fai il segno della croce e ti chiedi da quale pianeta del sistema solare siano piovuti questi androidi e dove approderà quella loro nave nella quale tutti, dalla cambusa alla cima dell’albero maestro, litigano con tutti. La mia generazione politicamente è nata quando De Gasperi con la sua DC travolse il Fronte Popolare: avevamo dieci anni, vivemmo la vicenda come una vittoria calcistica. Poi però abbiamo imparato ad entrare nelle pieghe dei problemi e la politica è diventata una passione lucida e incontenibile. Ahimé! Tangentopoli insieme ai grandi corruttori ha travolto anche la nostra verginità politica, fresca dell’esaltante vicenda del “Compromesso storico” di Moro e Berlinguer. Poi è arrivato l’Omino di Ceralacca, che purtroppo ha detto di voler bene  al suo e nostro paese; in realtà, tirando fuori una cofena di soldi, è riuscito a farci vivacchiare nella ngosciante banalità di una gestione dello stato ricalcata sulla gestione di un’azienda privata. Lui, l’Omino di Ceralacca, aveva già in mente il momento in cui le sue idee sarebbero state predicate e corrette in TV non da un moderno, rude Giovanni Battista, ma da suffragette tutta panna, tipo Mara Carfagna o Anna Maria Bernini, che il loro tirocinio politico l’hanno fatto dal parrucchiere (ai-ai-ai! dove siete finite Marie Elette Martini, Nilde Iotti, Tina Anselmi, dove siete finite?!). E va, la nave dei folli, odorosa di Giòrgio Armani. (Giò, con la “o” stretta, please!). Sulla tolda medita Toninelli: ma Montalbano e Zingaretti come fanno ad essere fratelli?]]>
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di Angelo M. Fanucci Stultifera navis (“La nave dei folli”): così Michel Foucault, il più grande degli storici di settore,  intitola il primo capitolo della sua Storia della follia nell'età classica. Ed è stata effettivamente una prassi “medica” quella che nel Nord Europa, sei/settecento anni fa, allontanava i "matti" che in numero eccessivo pesavano sulla comunità dei "normali", affidandoli a gente di mare. E la gente di mare spesso li stipava in grossi natanti che partivano… verso dove? Nessuno era tenuto a saperlo. Un’incombenza della quale è documentato che volentieri si facevano carico i battellieri di Francoforte nel 1399, per intero, escluso il “verso dove”. Alla nave dei folli m’hanno fatto pensare i signori che oggi reggono i destini del nostro paese. Ogni minuto dal balcone della politica s’affacciano sui nostri schermi televisivi, a volta minacciosi, più spesso civettuoli, e ci dicono cose che meritano di essere dimenticate subito dopo. Che hanno abolito la povertà, che hanno messo in sicurezza il nostro paese, che quella che comincia con loro sarà l’epoca politicamente più felice dalla Guerra dei Cento Anni in qua. Li vedi, li ascolti, ti fai il segno della croce e ti chiedi da quale pianeta del sistema solare siano piovuti questi androidi e dove approderà quella loro nave nella quale tutti, dalla cambusa alla cima dell’albero maestro, litigano con tutti. La mia generazione politicamente è nata quando De Gasperi con la sua DC travolse il Fronte Popolare: avevamo dieci anni, vivemmo la vicenda come una vittoria calcistica. Poi però abbiamo imparato ad entrare nelle pieghe dei problemi e la politica è diventata una passione lucida e incontenibile. Ahimé! Tangentopoli insieme ai grandi corruttori ha travolto anche la nostra verginità politica, fresca dell’esaltante vicenda del “Compromesso storico” di Moro e Berlinguer. Poi è arrivato l’Omino di Ceralacca, che purtroppo ha detto di voler bene  al suo e nostro paese; in realtà, tirando fuori una cofena di soldi, è riuscito a farci vivacchiare nella ngosciante banalità di una gestione dello stato ricalcata sulla gestione di un’azienda privata. Lui, l’Omino di Ceralacca, aveva già in mente il momento in cui le sue idee sarebbero state predicate e corrette in TV non da un moderno, rude Giovanni Battista, ma da suffragette tutta panna, tipo Mara Carfagna o Anna Maria Bernini, che il loro tirocinio politico l’hanno fatto dal parrucchiere (ai-ai-ai! dove siete finite Marie Elette Martini, Nilde Iotti, Tina Anselmi, dove siete finite?!). E va, la nave dei folli, odorosa di Giòrgio Armani. (Giò, con la “o” stretta, please!). Sulla tolda medita Toninelli: ma Montalbano e Zingaretti come fanno ad essere fratelli?]]>
Primo contatto con Capodarco https://www.lavoce.it/primo-contatto-capodarco/ Mon, 24 Jun 2019 11:00:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54760 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Sulla orme di Zincone, voglio andare vedere. 30 giugno 1970. A bordo della mia Citroen Dyane color giallo cacca di bambino, raggiungo per tempo Fermo. In piazza, alzo gli occhi e leggo “Piazza Temistocle Calzecchi Onesti”: oh, sì, il nonno della grande Rosina Calzecchi Onesti, commentatrice entusiasta del mio Ubaldo Baldassini novecento anni dopo (1985), autentica fan della Capodarco, oltre che braccio destro del card. Martini per la pastorale culturale della diocesi di Milano.

Fermo: Capodacqua è nelle vicinanze. “Sapreste indicarmi dov’è la Comunità di Capodacqua?”. “Capodacqua?! - l’omino si tormenta la barbicchia. - Ma no! Chissu cerca la Comunità de Capodarco, dove lu figghiu de lu bidellu ha r’dunato li spàstici!”. Il padre di don Franco, ’l sor Giggi, era uno dei bidelli delle famose Scuole tecniche Montani.

Scendo verso Porto San Giorgio, parcheggio a fianco all’antica villa Piccolomini, sulla cui facciata brillano le spie, quei rettangoli di vetro inseriti nella muratura: quando si spezzeranno, vorrà dire che la villa… si sarà “mossa”.

Accanto alla grande porta d’ingresso un cartellocanta: “Questa è la casa di tutti, entrate pure!”. E al suo stipite, toccandolo con la sommità della schiena e la sporgenza delle natiche, un distrofico, pancia molto in fuori per ragioni di equilibrio statico.

È Michele Rizzi, saprò che è un’autentica colonna della Comunità. Per adesso è solo un maleducato. “Mi scusi, potrebbe guidarmi in una visita alla Comunità?”. Appena uno sguardo, un ghigno di disgusto sulle labbra: “Hai piedi buoni, cammina! Se qualcosa di buono lo trovi, ne riparliamo. Altrimenti... amici come prima”. Amici o nemici, visto che non hai gradito il mio clergyman impeccabile, collarino romano incluso. “Cammina!”. Parlo con Alfredo Rasconi, genovese che vede tutto facile a onta della malattia che gli lascia libera solo la lingua. Maurizio Palazzetti dall’alto della sua carrozzina mi spiega come si sistemano nel grande letto due invalidi per volta: semplice, basta mettersi in senso inverso, e uno toglie i calzoni all’altro.

M’invitano a pranzo. Allungo il mio piatto in plastica flessibile prima a Ida che ha appena scodellato dal pentolone una colata lavica di spaghetti fumanti, poi al ragazzone che ha in mano il padellozzo con il condimento. All’ingresso della villa c’è uno scalone che sale su tutt’e quattro i lati: ogni gradino può comodamente ospitare quattro-sei mangianti, seduti, con il piatto sulle ginocchia. Che fame!

E riprendo a camminare, a chiedere, a osservare. Fino a sera. Sempre più disorientato.

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di Angelo M. Fanucci

Sulla orme di Zincone, voglio andare vedere. 30 giugno 1970. A bordo della mia Citroen Dyane color giallo cacca di bambino, raggiungo per tempo Fermo. In piazza, alzo gli occhi e leggo “Piazza Temistocle Calzecchi Onesti”: oh, sì, il nonno della grande Rosina Calzecchi Onesti, commentatrice entusiasta del mio Ubaldo Baldassini novecento anni dopo (1985), autentica fan della Capodarco, oltre che braccio destro del card. Martini per la pastorale culturale della diocesi di Milano.

Fermo: Capodacqua è nelle vicinanze. “Sapreste indicarmi dov’è la Comunità di Capodacqua?”. “Capodacqua?! - l’omino si tormenta la barbicchia. - Ma no! Chissu cerca la Comunità de Capodarco, dove lu figghiu de lu bidellu ha r’dunato li spàstici!”. Il padre di don Franco, ’l sor Giggi, era uno dei bidelli delle famose Scuole tecniche Montani.

Scendo verso Porto San Giorgio, parcheggio a fianco all’antica villa Piccolomini, sulla cui facciata brillano le spie, quei rettangoli di vetro inseriti nella muratura: quando si spezzeranno, vorrà dire che la villa… si sarà “mossa”.

Accanto alla grande porta d’ingresso un cartellocanta: “Questa è la casa di tutti, entrate pure!”. E al suo stipite, toccandolo con la sommità della schiena e la sporgenza delle natiche, un distrofico, pancia molto in fuori per ragioni di equilibrio statico.

È Michele Rizzi, saprò che è un’autentica colonna della Comunità. Per adesso è solo un maleducato. “Mi scusi, potrebbe guidarmi in una visita alla Comunità?”. Appena uno sguardo, un ghigno di disgusto sulle labbra: “Hai piedi buoni, cammina! Se qualcosa di buono lo trovi, ne riparliamo. Altrimenti... amici come prima”. Amici o nemici, visto che non hai gradito il mio clergyman impeccabile, collarino romano incluso. “Cammina!”. Parlo con Alfredo Rasconi, genovese che vede tutto facile a onta della malattia che gli lascia libera solo la lingua. Maurizio Palazzetti dall’alto della sua carrozzina mi spiega come si sistemano nel grande letto due invalidi per volta: semplice, basta mettersi in senso inverso, e uno toglie i calzoni all’altro.

M’invitano a pranzo. Allungo il mio piatto in plastica flessibile prima a Ida che ha appena scodellato dal pentolone una colata lavica di spaghetti fumanti, poi al ragazzone che ha in mano il padellozzo con il condimento. All’ingresso della villa c’è uno scalone che sale su tutt’e quattro i lati: ogni gradino può comodamente ospitare quattro-sei mangianti, seduti, con il piatto sulle ginocchia. Che fame!

E riprendo a camminare, a chiedere, a osservare. Fino a sera. Sempre più disorientato.

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Finalmente Capodarco https://www.lavoce.it/finalmente-capodarco/ Mon, 17 Jun 2019 08:46:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54726 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

E venne la stagione dei campi di lavoro. I miei studenti del Mse (Movimento studentesco eugubino) e io ci vergognavamo un po’ che i nostri coetanei lavoratori fruissero di un solo mese di ferie, mentre le ferie reali degli studenti e dei professori, qui a Gubbio, duravano molto a lungo: dai Ceri ai Santi, diciamo.

E allora cominciammo a inanellare, d’estate, un campo di lavoro dopo l’altro: quindici giorni qui ad aiutare certe suore che restauravano il loro convento, quindici giorni là a dare una mano agli scout che battevano il grano per una poverissima famiglia contadina… quindici giorni di grande impegno, anche fisico, a beneficio di questa o quell’iniziativa sociale.

Iniziative che spesso non costituivano una rispostaa necessità vere, e ci esponevano a pericoligratuiti. Una volta a Burano (la zona montuosa che si stende fra il nordest della provincia di Perugia e il sudovest della provincia di Pesaro Urbino), cieravamo offerti di aiutare una famiglia a falciarel’erba.

Famiglia povera, ma non imprudente. Quando il capofamiglia vide come uno dei nostri ragazzi impugnava la falce fienara (quella ad amplissima lama ricurva, in mano alla Morte scheletrica, rappresentata non come una “sorella”, ma come la giustiziera per antonomasia) per evitare spargimenti di sangue, gliela tolse di mano: “Perché ’nno state a casa, cocchi, ché fate meno danni?”.

Poi, nella primavera del 1970, al liceo Mazzatinti, durante l’intervallo delle ore 11 (insegnavo Italiano e Latino al corso B), apparve Ermanno Bei. Era il figlio di quel Giuseppe Bei Clementi, detto “Amabilino” a onta del suo reale spessore politico che lo volle più volte sindaco di Gubbio, e con onore, a parte la devozione per san Giuseppe Stalin.

Ermanno frequentava - avrebbe dovuto frequentare - l’Istituto tecnico industriale, ma molte mattinate le passava al Bar moderno, appena un passo sopra il “Mazzatinti”.

Quella mattina lo sguardo smaliziato di Ermanno cadde su un articolo del Corriere della Sera e pensò ben di farmelo conoscere: a pagina 3, la pagina culturale (N.B.!), Giuliano Zincone riferiva con entusiasmo sui quattro-cinque giorni bellissimi che aveva passato nella Comunità di Capodarco, anche se era pessimista sul suo futuro: “Mangia minga el panetùn!”, non arriva a Natale.

I contenuti dell’articolo non erano eccezionali. Zincone non aveva colto l’anima di quella comunità, e aveva intitolato il suo réportage Lavorano per sentirsi vivi, ma mi aveva ugualmente provocato. Dissi a me stesso: “Vado e vedo”.

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di Angelo M. Fanucci

E venne la stagione dei campi di lavoro. I miei studenti del Mse (Movimento studentesco eugubino) e io ci vergognavamo un po’ che i nostri coetanei lavoratori fruissero di un solo mese di ferie, mentre le ferie reali degli studenti e dei professori, qui a Gubbio, duravano molto a lungo: dai Ceri ai Santi, diciamo.

E allora cominciammo a inanellare, d’estate, un campo di lavoro dopo l’altro: quindici giorni qui ad aiutare certe suore che restauravano il loro convento, quindici giorni là a dare una mano agli scout che battevano il grano per una poverissima famiglia contadina… quindici giorni di grande impegno, anche fisico, a beneficio di questa o quell’iniziativa sociale.

Iniziative che spesso non costituivano una rispostaa necessità vere, e ci esponevano a pericoligratuiti. Una volta a Burano (la zona montuosa che si stende fra il nordest della provincia di Perugia e il sudovest della provincia di Pesaro Urbino), cieravamo offerti di aiutare una famiglia a falciarel’erba.

Famiglia povera, ma non imprudente. Quando il capofamiglia vide come uno dei nostri ragazzi impugnava la falce fienara (quella ad amplissima lama ricurva, in mano alla Morte scheletrica, rappresentata non come una “sorella”, ma come la giustiziera per antonomasia) per evitare spargimenti di sangue, gliela tolse di mano: “Perché ’nno state a casa, cocchi, ché fate meno danni?”.

Poi, nella primavera del 1970, al liceo Mazzatinti, durante l’intervallo delle ore 11 (insegnavo Italiano e Latino al corso B), apparve Ermanno Bei. Era il figlio di quel Giuseppe Bei Clementi, detto “Amabilino” a onta del suo reale spessore politico che lo volle più volte sindaco di Gubbio, e con onore, a parte la devozione per san Giuseppe Stalin.

Ermanno frequentava - avrebbe dovuto frequentare - l’Istituto tecnico industriale, ma molte mattinate le passava al Bar moderno, appena un passo sopra il “Mazzatinti”.

Quella mattina lo sguardo smaliziato di Ermanno cadde su un articolo del Corriere della Sera e pensò ben di farmelo conoscere: a pagina 3, la pagina culturale (N.B.!), Giuliano Zincone riferiva con entusiasmo sui quattro-cinque giorni bellissimi che aveva passato nella Comunità di Capodarco, anche se era pessimista sul suo futuro: “Mangia minga el panetùn!”, non arriva a Natale.

I contenuti dell’articolo non erano eccezionali. Zincone non aveva colto l’anima di quella comunità, e aveva intitolato il suo réportage Lavorano per sentirsi vivi, ma mi aveva ugualmente provocato. Dissi a me stesso: “Vado e vedo”.

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Il mio Papa bifronte (3) https://www.lavoce.it/il-mio-papa-bifronte/ Mon, 20 May 2019 08:44:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54549 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

No, quel 28 ottobre 1958 in cui il card. Roncalli divenne Giovanni XXIII, lo Spirito santo non era in ferie, come sospettavamo noi studentelli presuntuosetti.

Perché il vecchio contadino bergamasco che salì al Soglio di Pietro era un uomo di Dio.

Verso Dio: due ore di preghiera al giorno. La messa all’alba, e durante il giorno non solo la recita dell’intero breviario (tutte le ore, senza sconti; e il mattutino di allora, in tre parti, con nove letture invece delle attuali due: un mattone che nutriva come panna montata la sua pietà profondissima); a margine, la recita quotidiana di tutt’e quindici le poste del rosario. Tutti i giorni.

Verso gli esseri umani, un amore silenzioso e sconfinato, che trasuda da ogni suo discorso. Per tutti gli esseri umani.

E le chiavi di san Pietro le prese in mano come fossero le chiavi del salotto buono, senza ombra di patemi d’animo.

La prima uscita dal Vaticano la riservò al suo vecchio Seminario. Lo accogliemmo con un entusiasmo ancora rigato di gelo. Ma il gelo si sciolse quando volle fare una chiacchierata con noi. “È difficile fare il Papa?”. Ci pensa. “Dopo i primi giorni di ansia, ho fatto un patto con Gesù: io alla Chiesa ci penso di giorno, di notte ci pensi tu, e io dormo”.

“C’è molta differenza tra Roma e Venezia, da dove lei viene?”. “Nooo. Dell’acqua lì e Dell’Acqua qui, canali lì e Canali qui!”. Una battuta decisamente provvidenziale: lo accompagnavano il sostituto della Segreteria di Stato mons. Dell’Acqua e il governatore della Città del Vaticano, card. Canali. Applausi e risate Doc.

Ma quando, da Papa, cominciò a dire cose semplici e profonde che nessun Papa aveva mai detto, quando prese a compiere gesti assolutamente quotidiani carichi di profezia, per noi studentelli prima furono mazzate tremende tra capo e collo, poi tutto ci travolse gioiosamente in un entusiasmo finalmente puerile, acritico ma più che giustificato.

La visita all’ospedale del Bambin Gesù: “Nonno!” lo chiamò un frugoletto. A Regina Coeli scatenò l’applauso dei carcerati quando minimizzò il loro imbarazzo confessando d’avere avuto anche lui in casa un parente carcerato (un cugino: aveva passato una notte in caserma, per essersi presentato in ritardo alla visita militare). I pomeriggi domenicali passati nella parrocchie di periferia, con la folla che, per avvicinarsi a lui, rischiava di schiacciarlo.

“Questo è il mio Papa” dissi a me stesso. Quando più tardi lo seppe Papa Francesco, annuì: “Hai fatto bene”.

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di Angelo M. Fanucci

No, quel 28 ottobre 1958 in cui il card. Roncalli divenne Giovanni XXIII, lo Spirito santo non era in ferie, come sospettavamo noi studentelli presuntuosetti.

Perché il vecchio contadino bergamasco che salì al Soglio di Pietro era un uomo di Dio.

Verso Dio: due ore di preghiera al giorno. La messa all’alba, e durante il giorno non solo la recita dell’intero breviario (tutte le ore, senza sconti; e il mattutino di allora, in tre parti, con nove letture invece delle attuali due: un mattone che nutriva come panna montata la sua pietà profondissima); a margine, la recita quotidiana di tutt’e quindici le poste del rosario. Tutti i giorni.

Verso gli esseri umani, un amore silenzioso e sconfinato, che trasuda da ogni suo discorso. Per tutti gli esseri umani.

E le chiavi di san Pietro le prese in mano come fossero le chiavi del salotto buono, senza ombra di patemi d’animo.

La prima uscita dal Vaticano la riservò al suo vecchio Seminario. Lo accogliemmo con un entusiasmo ancora rigato di gelo. Ma il gelo si sciolse quando volle fare una chiacchierata con noi. “È difficile fare il Papa?”. Ci pensa. “Dopo i primi giorni di ansia, ho fatto un patto con Gesù: io alla Chiesa ci penso di giorno, di notte ci pensi tu, e io dormo”.

“C’è molta differenza tra Roma e Venezia, da dove lei viene?”. “Nooo. Dell’acqua lì e Dell’Acqua qui, canali lì e Canali qui!”. Una battuta decisamente provvidenziale: lo accompagnavano il sostituto della Segreteria di Stato mons. Dell’Acqua e il governatore della Città del Vaticano, card. Canali. Applausi e risate Doc.

Ma quando, da Papa, cominciò a dire cose semplici e profonde che nessun Papa aveva mai detto, quando prese a compiere gesti assolutamente quotidiani carichi di profezia, per noi studentelli prima furono mazzate tremende tra capo e collo, poi tutto ci travolse gioiosamente in un entusiasmo finalmente puerile, acritico ma più che giustificato.

La visita all’ospedale del Bambin Gesù: “Nonno!” lo chiamò un frugoletto. A Regina Coeli scatenò l’applauso dei carcerati quando minimizzò il loro imbarazzo confessando d’avere avuto anche lui in casa un parente carcerato (un cugino: aveva passato una notte in caserma, per essersi presentato in ritardo alla visita militare). I pomeriggi domenicali passati nella parrocchie di periferia, con la folla che, per avvicinarsi a lui, rischiava di schiacciarlo.

“Questo è il mio Papa” dissi a me stesso. Quando più tardi lo seppe Papa Francesco, annuì: “Hai fatto bene”.

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Quella sera, quella scritta https://www.lavoce.it/quella-sera-quella-scritta/ Mon, 15 Apr 2019 08:22:57 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54396 logo abat jour, rubrica settimanale

Dal giugno 1970, subito dopo i Campionati mondiali di calcio vinti dal Brasile di Pelè sull’Italia di Gigi Riva, con i ragazzi della seconda generazione del Movimento studenti eugubino (Vinicio Cacciamani, ’l Gige Lanuti, Renato Rogari, Paolo Lilli, l’infaticabile Lucio Lauri, e Leonardo, suo fratello faticabilissimo) per tutta l’estate c’immergemmo in Capodarco, campi di lavoro uno in fila all’altro. L’ultimo fu quello dell’1-4 novembre.

Ci avevano chiamato per realizzare la piattaforma in cemento sulla quale oggi sorge la grande sala del refettorio. Andammo, un pullmino. I ragazzi lavorarono sodo, la betoniera girò da mane a sera, l’impasto di cemento prese rapidamente a occupare lo spazio dovuto, ma la sera del 3 novembre ci rendemmo conto che con l’unica giornata che rimaneva non ce l’avremmo fatta a finire la gettata.

“Vuol dire che domattina cominciamo alle 4!”. Detto, fatto. Ci alzammo alle 3.30, alle 4 la betoniera riprese a girare, anche durante i pasti. Alla sera la gettata era completa. Cenammo verso le 10. Poi partimmo per Gubbio, sul pullmino che ci aveva procurato il dr. Alessandro, il padre di Alfonso e di Paolo. Dormivano tutti, tranne io e l’autista. L’autista guidava, io pensavo.

Pensavo a una vita alternativa della quale fino ad allora non avevo nemmeno sospettato l’esistenza. Sentivo crescere dentro di me il desiderio di venire a far parte di quella grande famiglia. Mi pareva che i miei primi dieci anni di sacerdozio fossero stati, se non sprecati, perlomeno sotto-utilizzati. Mi pareva che a Capodarco proprio non mancasse nulla per una vita degna di Colui che della convivenza e della condivisione con noi ha fatto il perno della sua presenza tra noi.

Come in un film, mi scorreva innanzi la parte disabile di quella famiglia: chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva a fatica sulle canadesi, chi si muoveva solo grazie al girello, chi respirava solo intubato. Ma nessuno piativa sulla propria condizione, nemmeno un po’; non parlavano di handicap, parlavano di emarginazione. Non si piangevano addosso.

Ragionavano su come avrebbero potuto cambiare il mondo, far sì che la Chiesa fosse finalmente ciò che aveva promesso che sarebbe stata. Ciò che di lei aveva detto colui al quale era intitolata la loro casa, Papa Giovanni: “La Chiesa è di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri”.

Che tu sia handicappato, perché sei nato con un cromosoma per traverso, e perché un tuffo sbagliato ti ha lesionato vertebre importanti… è successo, è un fatto, un evento, che ci vuoi fare? Ribellarsi non serve. Quello contro cui non solo puoi , ma devi ribellarti è l’emarginazione nella quale ti hanno relegato in seguito a quell’evento.

Era fatta. Mi addormentai anch’io, mentre il pullmino correva veloce. E credetti di vedere sul vetro di fondo alla vettura una scritta luminescente. Una Chiesa che, in prima fila, non si prende cura degli ultimi, è solo una congrega di buontemponi.

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Dal giugno 1970, subito dopo i Campionati mondiali di calcio vinti dal Brasile di Pelè sull’Italia di Gigi Riva, con i ragazzi della seconda generazione del Movimento studenti eugubino (Vinicio Cacciamani, ’l Gige Lanuti, Renato Rogari, Paolo Lilli, l’infaticabile Lucio Lauri, e Leonardo, suo fratello faticabilissimo) per tutta l’estate c’immergemmo in Capodarco, campi di lavoro uno in fila all’altro. L’ultimo fu quello dell’1-4 novembre.

Ci avevano chiamato per realizzare la piattaforma in cemento sulla quale oggi sorge la grande sala del refettorio. Andammo, un pullmino. I ragazzi lavorarono sodo, la betoniera girò da mane a sera, l’impasto di cemento prese rapidamente a occupare lo spazio dovuto, ma la sera del 3 novembre ci rendemmo conto che con l’unica giornata che rimaneva non ce l’avremmo fatta a finire la gettata.

“Vuol dire che domattina cominciamo alle 4!”. Detto, fatto. Ci alzammo alle 3.30, alle 4 la betoniera riprese a girare, anche durante i pasti. Alla sera la gettata era completa. Cenammo verso le 10. Poi partimmo per Gubbio, sul pullmino che ci aveva procurato il dr. Alessandro, il padre di Alfonso e di Paolo. Dormivano tutti, tranne io e l’autista. L’autista guidava, io pensavo.

Pensavo a una vita alternativa della quale fino ad allora non avevo nemmeno sospettato l’esistenza. Sentivo crescere dentro di me il desiderio di venire a far parte di quella grande famiglia. Mi pareva che i miei primi dieci anni di sacerdozio fossero stati, se non sprecati, perlomeno sotto-utilizzati. Mi pareva che a Capodarco proprio non mancasse nulla per una vita degna di Colui che della convivenza e della condivisione con noi ha fatto il perno della sua presenza tra noi.

Come in un film, mi scorreva innanzi la parte disabile di quella famiglia: chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva a fatica sulle canadesi, chi si muoveva solo grazie al girello, chi respirava solo intubato. Ma nessuno piativa sulla propria condizione, nemmeno un po’; non parlavano di handicap, parlavano di emarginazione. Non si piangevano addosso.

Ragionavano su come avrebbero potuto cambiare il mondo, far sì che la Chiesa fosse finalmente ciò che aveva promesso che sarebbe stata. Ciò che di lei aveva detto colui al quale era intitolata la loro casa, Papa Giovanni: “La Chiesa è di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri”.

Che tu sia handicappato, perché sei nato con un cromosoma per traverso, e perché un tuffo sbagliato ti ha lesionato vertebre importanti… è successo, è un fatto, un evento, che ci vuoi fare? Ribellarsi non serve. Quello contro cui non solo puoi , ma devi ribellarti è l’emarginazione nella quale ti hanno relegato in seguito a quell’evento.

Era fatta. Mi addormentai anch’io, mentre il pullmino correva veloce. E credetti di vedere sul vetro di fondo alla vettura una scritta luminescente. Una Chiesa che, in prima fila, non si prende cura degli ultimi, è solo una congrega di buontemponi.

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Senza titolo https://www.lavoce.it/senza-titolo/ Tue, 05 Mar 2019 08:00:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54131 logo abat jour, rubrica settimanale

Già: il titolo non serve, basta il logo della Comunità di Capodarco dell’Umbria, quella in cui io vivo dal 1974.

Sulla silhouette della nostra Umbria, quattro frecce. Frecce, movimento. Tre sono vuote, una sola è piena. Vuote: occorre riempirle.

Quella piena, quella che viene dall’alto, potremmo chiamarla la freccia di Gamaliele. Il vecchio rabbino, chiamato in Sinedrio (At 5, 3442) ad aggiungere la sua alla condanna contro quella setta che si ostinava a seguire Gesù, e che il Sinedrio aveva già pronunciato: “Che ne pensi? Li distruggiamo, sì o no?”. E lui: “Lasciate perdere. Se viene da Dio, non sarete voi a distruggerla; se non viene da Dio, finirà quanto prima di morte naturale”.

Freccia piena. Ma le tre vuote tocca a noi “riempirle”, a noi che per i motivi più diversi abbiamo scelto di vivere in una comunità di accoglienza. Riempirle con che cosa?

Siamo in piena araldica d’alto bordo, il latino è d’obbligo. Scrivete. Sono tre verbi, secchi e intensamente programmatici: compartiri , consociari , experiri.

Nella freccia vuota che va da sinistra verso il centro va scritto:

COMPARTIRI in corsivo, maiuscolo e neretto, perché è quella la freccia che dà sapore a tutta la baracca. Sulla freccia che sale dal basso verso l’alto: consociari .

Su quella cha da destra punta verso il centro: EXPERIRI.

Traduco, a 3 km dal più vicino liceo classico: compartiri = fare parte; consociari = mettersi insieme ad altri; experiri = tentare sempre nuove soluzioni.

Ma mettersi insieme e sperimentare sono sotto l’ombrello che dà loro significato, perché è il soggetto di tutta l’operazione, quel fare parte che permette di parlare di comunità, di vita comune, di vita condivisa. Se non è così, vuol dire che non siamo in presenza di una comunità di accoglienza, ma di qualcos’altro: un’associazione, bella, generosa, ma… ognuno a casa sua! Cornuto, il dilemma: condividere il cuore o condividere la vita?

Ma nella gerarchia dei nostri pensieri di seguaci dell’Uomo di Nazareth, al primo posto c’è chi di condivisione concreta nelle pieghe della vita di ogni giorno ha bisogno più che del pane, gente che da sola non si regge.

Se intervistassimo tutt’e 8 i miliardi di uomini che arrancano sulla faccia della Terra, ci inviterebbero tutti a “condividere il cuore” con i meno fortunati. Lui solo, quell’Uomo giovanissimo che è nato 2019 anni fa, ci direbbe che è la vita , in tutta la sua portata, che va condivisa con loro, i suoi preferiti.

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Già: il titolo non serve, basta il logo della Comunità di Capodarco dell’Umbria, quella in cui io vivo dal 1974.

Sulla silhouette della nostra Umbria, quattro frecce. Frecce, movimento. Tre sono vuote, una sola è piena. Vuote: occorre riempirle.

Quella piena, quella che viene dall’alto, potremmo chiamarla la freccia di Gamaliele. Il vecchio rabbino, chiamato in Sinedrio (At 5, 3442) ad aggiungere la sua alla condanna contro quella setta che si ostinava a seguire Gesù, e che il Sinedrio aveva già pronunciato: “Che ne pensi? Li distruggiamo, sì o no?”. E lui: “Lasciate perdere. Se viene da Dio, non sarete voi a distruggerla; se non viene da Dio, finirà quanto prima di morte naturale”.

Freccia piena. Ma le tre vuote tocca a noi “riempirle”, a noi che per i motivi più diversi abbiamo scelto di vivere in una comunità di accoglienza. Riempirle con che cosa?

Siamo in piena araldica d’alto bordo, il latino è d’obbligo. Scrivete. Sono tre verbi, secchi e intensamente programmatici: compartiri , consociari , experiri.

Nella freccia vuota che va da sinistra verso il centro va scritto:

COMPARTIRI in corsivo, maiuscolo e neretto, perché è quella la freccia che dà sapore a tutta la baracca. Sulla freccia che sale dal basso verso l’alto: consociari .

Su quella cha da destra punta verso il centro: EXPERIRI.

Traduco, a 3 km dal più vicino liceo classico: compartiri = fare parte; consociari = mettersi insieme ad altri; experiri = tentare sempre nuove soluzioni.

Ma mettersi insieme e sperimentare sono sotto l’ombrello che dà loro significato, perché è il soggetto di tutta l’operazione, quel fare parte che permette di parlare di comunità, di vita comune, di vita condivisa. Se non è così, vuol dire che non siamo in presenza di una comunità di accoglienza, ma di qualcos’altro: un’associazione, bella, generosa, ma… ognuno a casa sua! Cornuto, il dilemma: condividere il cuore o condividere la vita?

Ma nella gerarchia dei nostri pensieri di seguaci dell’Uomo di Nazareth, al primo posto c’è chi di condivisione concreta nelle pieghe della vita di ogni giorno ha bisogno più che del pane, gente che da sola non si regge.

Se intervistassimo tutt’e 8 i miliardi di uomini che arrancano sulla faccia della Terra, ci inviterebbero tutti a “condividere il cuore” con i meno fortunati. Lui solo, quell’Uomo giovanissimo che è nato 2019 anni fa, ci direbbe che è la vita , in tutta la sua portata, che va condivisa con loro, i suoi preferiti.

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Orate pro eis https://www.lavoce.it/orate-pro-eis/ Tue, 05 Feb 2019 08:00:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53956 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Domenica scorsa ho detto messa per i nostri governanti. Oremus pro eis. Pregare per chi ci governa è un dovere del cittadino e del cristiano, così come favorire, per quanto è in noi, l’esito positivo delle loro scelte. L’abbiamo capito fin dalla Lettera a Diogneto, che, a ridosso dell’età apostolica, l’ha detto dopo essere salito apposta sulle spalle di san Paolo.

Orate pro eis. Pregate, preghiamo per loro.

Le loro estemporanee uscite in tv ci hanno convinti a dirci l’un l’altro, sottovoce, ma (ahimè!) con un sottofondo di compiacimento: “Mio Dio, dove siamo caduti”.

Io, che in genere sono pacioso, di fronte alle loro spropositate previsioni e alle loro mirabolanti promesse, divento spiritualmente brucelloso: sento spuntarmi qua e là, sulle gambe sulle braccia, sulla schiena, fastidiosissimi foruncoli. Evitate di schiacciarli, per non liberare il loro contenuto pestilenziale.

I due vice premier per me sono due ministri a tutto tondo, efficaci per la mia salute. Salvini, nei miei momenti di depressione, fa esplodere in me il grido del giovane Leopardi: “L’armi, qua l’armi: / combatterò, procomberò sol io!”.

Di Maio contro i miei attacchi d’euforia funziona meglio del Voltaren contro gli strappi muscolari: quando lo ascolto proporre, in una discussione appena cominciata, l’ impeachment al Presidente della Repubblica, in un angolo del cervello mi appare un topo fermamente deciso a divorarsi un elefante. E quando proclama d’aver sconfitto la povertà, e d’aver creato lo Stato sociale...

E mi commuove l’eroicomico sforzo di Conte e di Tria, impegnati a tirare verso l’alto, fuori dallo zero virgola, il tasso di crescita prevedibile per l’Italia nel 2019. Accadde (dice la storiella) a Staffolo: il parroco aveva detto che la chiesa era troppo piccola, e i più volonterosi dei suoi parrocchiano legarono della gomene da attracco navi alle colonne di fondo e cominciarono a tirare, a tirare, sudati, con le vene del collo ingrossate come pali di gaggia.

Ma non si può scherzare oltre. Soprattutto non si può gufare. Perché, se andrà male, la pagheranno soprattutto i più poveri.

Lo splendido studio di Bronislaw Gèremek, un’eccellenza nelle scienze sociali, amico di Giovanni Paolo II, La pietà e la forca, dimostra che cresce la pietà quando l’andamento economico è buono e la solidarietà si dilata, ma torna in scena la forca per i poveri quando l’andamento economico è negativo e la solidarietà tende a scomparire. Orate, oremus pro eis. Pregate, preghiamo per loro.

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di Angelo M. Fanucci

Domenica scorsa ho detto messa per i nostri governanti. Oremus pro eis. Pregare per chi ci governa è un dovere del cittadino e del cristiano, così come favorire, per quanto è in noi, l’esito positivo delle loro scelte. L’abbiamo capito fin dalla Lettera a Diogneto, che, a ridosso dell’età apostolica, l’ha detto dopo essere salito apposta sulle spalle di san Paolo.

Orate pro eis. Pregate, preghiamo per loro.

Le loro estemporanee uscite in tv ci hanno convinti a dirci l’un l’altro, sottovoce, ma (ahimè!) con un sottofondo di compiacimento: “Mio Dio, dove siamo caduti”.

Io, che in genere sono pacioso, di fronte alle loro spropositate previsioni e alle loro mirabolanti promesse, divento spiritualmente brucelloso: sento spuntarmi qua e là, sulle gambe sulle braccia, sulla schiena, fastidiosissimi foruncoli. Evitate di schiacciarli, per non liberare il loro contenuto pestilenziale.

I due vice premier per me sono due ministri a tutto tondo, efficaci per la mia salute. Salvini, nei miei momenti di depressione, fa esplodere in me il grido del giovane Leopardi: “L’armi, qua l’armi: / combatterò, procomberò sol io!”.

Di Maio contro i miei attacchi d’euforia funziona meglio del Voltaren contro gli strappi muscolari: quando lo ascolto proporre, in una discussione appena cominciata, l’ impeachment al Presidente della Repubblica, in un angolo del cervello mi appare un topo fermamente deciso a divorarsi un elefante. E quando proclama d’aver sconfitto la povertà, e d’aver creato lo Stato sociale...

E mi commuove l’eroicomico sforzo di Conte e di Tria, impegnati a tirare verso l’alto, fuori dallo zero virgola, il tasso di crescita prevedibile per l’Italia nel 2019. Accadde (dice la storiella) a Staffolo: il parroco aveva detto che la chiesa era troppo piccola, e i più volonterosi dei suoi parrocchiano legarono della gomene da attracco navi alle colonne di fondo e cominciarono a tirare, a tirare, sudati, con le vene del collo ingrossate come pali di gaggia.

Ma non si può scherzare oltre. Soprattutto non si può gufare. Perché, se andrà male, la pagheranno soprattutto i più poveri.

Lo splendido studio di Bronislaw Gèremek, un’eccellenza nelle scienze sociali, amico di Giovanni Paolo II, La pietà e la forca, dimostra che cresce la pietà quando l’andamento economico è buono e la solidarietà si dilata, ma torna in scena la forca per i poveri quando l’andamento economico è negativo e la solidarietà tende a scomparire. Orate, oremus pro eis. Pregate, preghiamo per loro.

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Quarantacinque, cioè 55 – 10 https://www.lavoce.it/quarantacinque-55/ Tue, 22 Jan 2019 08:00:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53834 logo abat jour, rubrica settimanale

Il parto della mia autobiografia (Non per loro, ma con loro) si rivela laborioso più del previsto. E io continuo ad anticiparne qualche frammento, mentre un’équipe di ginecologi sta monitorando tempi e modi dell’evento.

Nel 1974, dopo tre anni di vita a Fabriano, condivisa con uno bel gruppo di disabili fisici nella comunità “La Buona Novella”, il primo manipolo di incoscienti si traferì con me a Gubbio per dare vita alla Comunità di San Girolamo (poi “Centro lavoro cultura”, infine Comunità di Capodarco dell’Umbria).

Ci siamo accampati alla bell’e meglio tra le rovine del fatiscente ex convento. Sul monte Ansciano: dei 5 monti presenti sullo stemma di Gubbio, è il primo per chi guarda - sulla destra del monte centrale, l’Ingino, il monte di sant’Ubaldo. Quasi subito da Siena una non meglio identificata assistente sociale (sig.ra Benci?) ci contattò: “Qui in ospedale abbiamo un bambino di dieci anni, tetraparetico e disartrico, ma in buona salute.

Noi possiamo offrirgli solo la pura sopravvivenza. Voi lo accogliereste nella vostra nascente comunità?”. Già. Sua madre l’ha depositato in ospedale sei anni fa, quando aveva quattro anni, ed è scomparsa. “Ha bisogno solo di una famiglia. Lo accogliereste nella vostra comunità, che nasce - ci dicono - come una famiglia?”.

Sì, certo! Andammo a trovarlo. Quinto piano dell’ospedale, gli incurabili. Si chiamava Franco M., oggi si chiama Franco Fanucci. In carrozzina. Sorridente in un reparto nel quale non c’era proprio nulla che autorizzasse un sorriso. Ma quando mi vide, mi chiamò “babbo”, e io andai in tilt. Erano gli anni dell’ideologia a briglia sciolta, che accreditavano i salti logici più spettacolari. “Mi ha chiamato ‘babbo’. Hai capito: babbo!

Vuoi mettere? A noi preti ci chiamano ‘padre’. Vuoi mettere la diversa portanza ideale fra babbo e padre. Vuoi mettere?”. Andammo a Siena in otto, a prelevarlo con un Ford Transit che cantava di gioia.

“Babbo”. Certo che ti prendiamo con noi! Dieci anni: sarai la mascotte della nostra nascente comunità. Poi scoprimmo che “babbo” era l’unica parola che Franco conosceva. Ma stavolta il salto logico, invece di spezzarmi le ossa, mi aveva procurato uno degli eventi più intensi della mia vita.

Perché quando raccontai l’accaduto a Giorgio Battistacci, giudice del Tribunale perugino per i minori, lui mi chiese, al termine di una risata che sembrava non voler finire più: “Perché non lo adotti?”. Detto, fatto. Al mezzo chilo di carte necessarie per l’adozione ci pensò lui.

Quarantacinque anni or sono. Oggi Franco ha 55 anni e ab illo tempore dorme nel letto accanto al mio, dorme di brutto. Il problema è quello di convincerlo a spegnere la tv.

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Il parto della mia autobiografia (Non per loro, ma con loro) si rivela laborioso più del previsto. E io continuo ad anticiparne qualche frammento, mentre un’équipe di ginecologi sta monitorando tempi e modi dell’evento.

Nel 1974, dopo tre anni di vita a Fabriano, condivisa con uno bel gruppo di disabili fisici nella comunità “La Buona Novella”, il primo manipolo di incoscienti si traferì con me a Gubbio per dare vita alla Comunità di San Girolamo (poi “Centro lavoro cultura”, infine Comunità di Capodarco dell’Umbria).

Ci siamo accampati alla bell’e meglio tra le rovine del fatiscente ex convento. Sul monte Ansciano: dei 5 monti presenti sullo stemma di Gubbio, è il primo per chi guarda - sulla destra del monte centrale, l’Ingino, il monte di sant’Ubaldo. Quasi subito da Siena una non meglio identificata assistente sociale (sig.ra Benci?) ci contattò: “Qui in ospedale abbiamo un bambino di dieci anni, tetraparetico e disartrico, ma in buona salute.

Noi possiamo offrirgli solo la pura sopravvivenza. Voi lo accogliereste nella vostra nascente comunità?”. Già. Sua madre l’ha depositato in ospedale sei anni fa, quando aveva quattro anni, ed è scomparsa. “Ha bisogno solo di una famiglia. Lo accogliereste nella vostra comunità, che nasce - ci dicono - come una famiglia?”.

Sì, certo! Andammo a trovarlo. Quinto piano dell’ospedale, gli incurabili. Si chiamava Franco M., oggi si chiama Franco Fanucci. In carrozzina. Sorridente in un reparto nel quale non c’era proprio nulla che autorizzasse un sorriso. Ma quando mi vide, mi chiamò “babbo”, e io andai in tilt. Erano gli anni dell’ideologia a briglia sciolta, che accreditavano i salti logici più spettacolari. “Mi ha chiamato ‘babbo’. Hai capito: babbo!

Vuoi mettere? A noi preti ci chiamano ‘padre’. Vuoi mettere la diversa portanza ideale fra babbo e padre. Vuoi mettere?”. Andammo a Siena in otto, a prelevarlo con un Ford Transit che cantava di gioia.

“Babbo”. Certo che ti prendiamo con noi! Dieci anni: sarai la mascotte della nostra nascente comunità. Poi scoprimmo che “babbo” era l’unica parola che Franco conosceva. Ma stavolta il salto logico, invece di spezzarmi le ossa, mi aveva procurato uno degli eventi più intensi della mia vita.

Perché quando raccontai l’accaduto a Giorgio Battistacci, giudice del Tribunale perugino per i minori, lui mi chiese, al termine di una risata che sembrava non voler finire più: “Perché non lo adotti?”. Detto, fatto. Al mezzo chilo di carte necessarie per l’adozione ci pensò lui.

Quarantacinque anni or sono. Oggi Franco ha 55 anni e ab illo tempore dorme nel letto accanto al mio, dorme di brutto. Il problema è quello di convincerlo a spegnere la tv.

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