di Pier Giorgio Lignani
Da quando gli esseri umani si sono organizzati in comunità governate da un capo, dando vita a strutture in qualche modo paragonabili a quello che noi moderni chiamiamo Stato, il loro compito primo ed essenziale era (ed è) quello di far rispettare la legge e fare giustizia per mantenere la pace sociale. Tutto il resto – tipo far funzionare le scuole, gli ospedali, i treni e le poste – è venuto dopo, tant’è vero che ancora esistono Stati che non se ne occupano, o se ne occupano solo in parte.
Qualche volta tuttavia si direbbe che il nostro Stato, la Repubblica italiana, tutto preso dalla necessità di garantire il welfare, il benessere economico, abbia messo in secondo piano quello che sarebbe il suo compito primitivo: far rispettare la legge. È un pensiero che viene in mente davanti a quel tristissimo episodio di Torino, dove un giovanotto innocente e tranquillo è stato ammazzato senza motivo da uno che voleva sfogare il suo malessere, o forse lo aveva scambiato per un altro.
Poi si è scoperto che quell’uccisore era stato condannato alla prigione con sentenza definitiva, ma ancora non era stato incarcerato, perché gli uffici giudiziari di Torino emettono ogni giorno decine di sentenze di condanna, e non c’è personale sufficiente per fare tutto ciò che va fatto per porle in esecuzione.
Anche perché per mettere in prigione un colpevole non basta una sentenza sia pure definitiva (ossia confermata dopo tutti i gradi di giudizio). Una legge abbastanza recente, molto progressista, stabilisce che, se la condanna definitiva non è superiore a quattro anni – in pratica, quasi tutte – , si deve ancora fare un processo, davanti ad altri giudici, per stabilire se quel condannato debba andare veramente in prigione oppure vada affidato ai servizi sociali per scontare una pena alternativa.
Se c’erano buone ragioni per questa innovazione, si sarebbero dovuti anche dare agli uffici il personale e i mezzi necessari; in mancanza, è stato il colpo finale alla macchina della giustizia, già schiacciata da una massa di formalismi procedurali. È anche vero che nel caso specifico di Torino l’uccisore non aveva diritto ai benefici, ma indirettamente la semi-paralisi degli uffici giudiziari ha ‘giovato’ anche a lui. E pensare che Cesare Beccaria ha insegnato che la pena può anche essere mite, l’importante però è che sia certa, e arrivi presto.