di Maria Rita Valli
Il 19 marzo sarà la festa del papà e i bambini stanno già preparando il regalo e magari anche la poesia per il loro papà. Un giorno dedicato all’uomo festeggiato pubblicamente nello spazio privato degli affetti. Una bella festa, che arriva poco dopo l’8 marzo, giorno dedicato alla donna festeggiata nello spazio pubblico del lavoro, del sociale, del politico. Poi, a maggio, ci sarà anche la festa della mamma.
Ma queste due feste così vicine, l’8 e il 19 marzo, ci ricordano che la donna non è solo madre e che l’uomo è anche padre, che il valore del femminile non si esurisce nella cura dei figli e del marito ma può esprimersi e realizzarsi anche nel lavoro, nell’impegno sociale e politico, nella cultura, nello sport e in tutti i mondi in cui anche le donne vivono. Così come il valore del maschile si esprime e si realizza anche nella cura dei figli e della moglie, anche con quella nota di tenerezza che nell’immagine tradizionale del “maschio” era vista come un attributo non confacente e che invece oggi molti padri sanno vivere senza sentirsi sminuiti né fuori posto.
Queste due feste ci dicono di una trasformazione culturale e sociale non ancora compiuta. La cronaca ci porta davanti agli occhi relazioni uomo /donna che vorremmo definire “malate” e dunque relegate nello spazio della malattia mentale – e alcune lo sono – ma i femminicidi non sono che la punta dell’iceberg dove la parte sommersa è fatta di quotidiana discriminazione – negata spesso anche dalle stesse donne – che porta a dare minore valore alle donne e a ciò che fanno e a spostare la colpa sulla donna violata più che sull’uomo che fa violenza perché in fondo “se l’è cercata”.
L’8 marzo e il 19 marzo, insieme, ci dicono anche che parlare di tutto questo come se fosse una questione di rivendicazioni l’un contro l’altro è profondamente errato e fuorviante. Non è in gioco la vittoria dell’uno sull’altro. È in gioco un nuovo modo di essere uomini e donne che sono e rimangono profondamente diversi tra loro ma hanno la stessa dignità, hanno lo stesso valore. Stiamo vivendo tempi in cui queste parole (diversità, uguaglianza, dignità, valore, rispetto) non godono di grande popolarità. La diversità (sessuale, culturale, religiosa, sociale, etnica, politica) è vista come un pericolo da allontanare, da tenere fuori dalle nostre frontiere e nel caso sia già dentro troviamo rassicurante definirla come un “di meno” di dignità, diritti, valore…
In questo clima di chiusura e di paura gli inviti di Papa Francesco all’accoglienza, al dialogo, alla fiducia, risuonano con forza, come un’eco in un ambiente silenzioso. Chiede a tutti, e più ancora alla sua Chiesa, di abbandonare pregiudizi e chiusure per far respirare l’umanità (e la Chiesa) “a due polmoni”, il maschile e il femminile, per usare un’immagine nata in campo ecumenico per indicare la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Ma con tutto quello che accade nel mondo e in casa nostra non sarebbe meglio parlare d’altro? Me lo sono chiesto. Ma proprio ieri ho parlato con una studentessa universitaria al primo anno. Aveva appena dato un esame ben superato ma era amareggiata e disgustata. Perché? Perchè la studentessa che l’ha preceduta non ha fatto un bell’esame e il professore oltre a sottolineare il fatto l’ha invitata a scegliersi un angolo dell’aula “che ti ci inchia***tto”. Con quel professore dovranno dare un secondo esame. Nessuno dovrebbe mai permettersi di apostrofare così nessuno! Vorrei che fossero gli uomini a indignarsi per primi, e dire “tu non ci rappresenti”. E che fossero a fianco delle donne per dire “Basta!”.