Trentasette uomini girano in cerchio all’interno di un angusto cortile, con la testa bassa e il passo della solitudine. È La ronda dei carcerati di Vincent Van Gogh, che nel 1890 imprimeva su tela la disperazione della reclusione nel manicomio di Saint-Rémy. Un quadro sofferto e ossessivo che racconta l’emergenza sociale del sistema penitenziario italiano. A fronte di 47 mila posti regolamentari, i detenuti rinchiusi nelle carceri nostrane sfiorano quota 66 mila, con un tasso di affollamento al primo posto in Europa. Numeri che mostrano una realtà penitenziaria ormai insostenibile, come ha ricordato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita alla casa circondariale di San Vittore, richiamando la responsabilità del Paese: “Sono in gioco il prestigio e l’onore dell’Italia”. Per riflettere sulle condizioni in cui versa il nostro sistema carcerario abbiamo intervistato Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano.
Per il presidente Napolitano, nessuno può “negare la gravità dell’attuale realtà carceraria nel nostro Paese”.
“È una considerazione assolutamente condivisibile, evidenziata da anni anche in ambito cattolico. Si tratta di una situazione che deve essere affrontata. Il tema della criminalità non può costituire un terreno di affermazioni demagogiche, finalizzate ad acquisire consenso tanto più in un momento elettorale. Bisogna invece recuperare la capacità di attuare una prevenzione seria, che non passa per la sofferenza in carcere ma per la differenziazione seria degli strumenti sanzionatori”.
Dunque l’amnistia non è una soluzione al problema?
“L’amnistia può essere considerata soltanto un passaggio, se indispensabile, per far fronte all’emergenza. È ora di porre mano a una riforma reale dell’apparato sanzionatorio penale. Abbiamo tutti gli elementi a nostra disposizione. Un sistema incentrato sulla pena detentiva non è in grado di incidere, ad esempio, sulla criminalità mossa da ragioni economiche. Paradossalmente, paralizza l’apparato penale che non può gestire milioni di processi e, in una certa misura, corrisponde a certi interessi che possono soggiacere all’inefficienza del sistema. Interessi che trovano beneficio nel presentare all’opinione pubblica soltanto i fatti eclatanti di criminalità, soprattutto omicidi all’interno della famiglia, per alimentare la domanda di pena detentiva”.
Sono maturi i tempi per una riforma organica dell’apparato sanzionatorio?
“Le conoscenze necessarie per una riforma di questo tipo sono disponibili da molti anni. La centralità della pena detentiva, lungi dal costituire un mezzo per una prevenzione più efficace, fa sì che non vengano adottati strumenti che sono maggiormente in grado d’incidere sugli interessi materiali che quasi sempre stanno a monte della criminalità. Si dovrebbe pensare, invece, a percorsi che tengano conto della situazione esistenziale effettiva. La gran parte della popolazione carceraria, infatti, è composta da persone che provengono da situazioni di grave disagio sociale. La pena detentiva mantiene un suo ruolo in circostanze particolari, come la ripetizione di gravi reati o la necessità di recidere i legami di appartenenza con organizzazioni criminose”.
Il rispetto della legge deve essere letto come una scelta o un’imposizione?
“La visione tradizionale ha sempre proposto all’opinione pubblica la prevenzione come effetto dell’intimidazione. Più crudele è la conseguenza del reato, meno saranno i reati. In realtà la tenuta di un sistema sociale non dipende dall’intimidazione. Nel momento in cui il rispetto delle norme dipende esclusivamente dal calcolo e dal timore di essere scoperti, non ci sarà l’adesione alla norma appena il controllo viene meno. La prevenzione dipende dalla capacità di tenere elevata, anche attraverso i sistemi sanzionatori, l’approvazione delle norme per scelta. È per questo che una persona recuperata fa prevenzione sul territorio, mostrando che la legge è capace di convincere”.
Ha ancora senso, in questa prospettiva, parlare di ergastolo ostativo?
“Abbiamo una normativa sull’ergastolo mitigata dall’ordinamento penitenziario che concede, nei tempi lunghi, il fine pena. Sono state create, però, delle categorie di detenuti che hanno limitazioni all’accesso dei benefici: possono accedervi solo se collaborano con la giustizia. Qui non si tratta di una collaborazione in corso di processo ma riferita a fatti accaduti talvolta decenni addietro. Si crea così una situazione che ha dell’incredibile: è come se lo Stato non dicesse: ‘Se collabori, avrai un premio’ ma: ‘Se non collabori, ti privo di diritti’. La conseguenza è che l’ergastolano, non potendo avere benefici, non potrà uscire mai dal carcere. Un simile regime trasforma la logica che attribuisce effetti premiali alla collaborazione nella logica opposta di natura costrittiva rappresentata dalla privazione, per il non collaborante, del regime sanzionatorio ordinario, privando di rilievo qualsiasi percorso rieducativo e la stessa constatazione di un sicuro ravvedimento”.