Luca Diotallevi, Autore presso LaVoce https://www.lavoce.it/author/lucadiotallevi/ Settimanale di informazione regionale Tue, 26 Sep 2023 23:59:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Luca Diotallevi, Autore presso LaVoce https://www.lavoce.it/author/lucadiotallevi/ 32 32 Il caso del sindaco Bandecchi: imbarazzante, ma non atipico https://www.lavoce.it/caso-bandecchi-sindaco/ https://www.lavoce.it/caso-bandecchi-sindaco/#comments Wed, 27 Sep 2023 06:30:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73444 bandecchi

Il problema non è Bandecchi, il problema è Terni (e forse l’Umbria). Se vogliamo tentare di riflettere seriamente su quello che è avvenuto e sta avvenendo nella politica ternana, che in questa o in altre forme potrebbe ripetersi altrove in Umbria, dobbiamo partire da un punto fisso: il problema, perlomeno il primo problema, non è il signor Bandecchi, il problema è Terni.

Non era uno sconosciuto a Terni

Il Bandecchi eletto sindaco di Terni la scorsa primavera non era affatto uno sconosciuto. Di lui si conoscevano - perfettamente e da tempo - stile (che nella vita civile è “sostanza”), interessi e valori. Il signor Bandecchi calcava la scena ternana da tempo. Nessuno avrebbe potuto dirsi all’oscuro dal modo “salivare” (rivendicato!) di rivolgersi in qualche caso agli interlocutori né alcuno avrebbe potuto dirsi sorpreso dell’offerta gratis di panini con la porchetta in campagna elettorale. A “questo” Bandecchi le forze politiche locali, destra e sinistra, avevano già regalato la cittadinanza onoraria. Segno della grande confusione, se non dell’opportunismo, gliela avevano regalata lo stesso giorno in cui l’avevano attribuita a Liliana Segre, persona che sotto qualsiasi punto di vista è distante mille miglia dal signor Bandecchi, quando non ne è l’esatto contrario. Di “questo” Bandecchi gli elettori ternani e le forze politiche ternane conoscevano perfettamente gli interessi (legittimi fino a prova contraria). Non poca parte delle forze politiche risultava essere stata appoggiata dal signor Bandecchi e dalle sue società, come dall’interessato più volte pubblicamente e a buon diritto rivendicato. Non è diventato sindaco di Terni per caso o per sorteggio, non ha rubato la poltrona di Palazzo Spada, è stato eletto sindaco dal voto libero e regolare dei ternani e delle ternane e ha sconfitto democraticamente forze politiche che lo avevano blandito.

Perché a Terni è stato eletto Bandecchi?

Anche per queste ragioni il punto dal quale partire non è “Bandecchi”, bensì: “come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”. E questa non è una domanda da rivolgere a lui, ma da rivolgere a noi stessi, agli elettori e alle elettrici ternane. Se si tenta di rispondere a questo interrogativo (“come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”), può essere d’aiuto un minimo di memoria storica. Il “caso Bandecchi”, ovvero l'elezione in ruoli amministrativi locali importanti di un outsider con determinati tratti di stile, non è affatto una novità.

Il “caso” Bandecchi non è l’unico

Al contrario, i casi per qualche verso analoghi sono numerosissimi e ben studiati. Vanno dall’elezione di Achille Lauro a sindaco di Napoli negli anni ‘50 a quella di Cateno De Luca sindaco di Messina dal 2018, passando per Giancarlo Cito eletto sindaco di Taranto nel 1993. Né sono da trascurare alcune ma importanti affinità stilistiche tra il signor Bandecchi e alcuni attuali presidenti di Regione come De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia. Naturalmente, se si parla di analogie e di affinità, è perché non mancano le differenze.

Bandecchi: esempio di “meridionalizzazione” della bassa Umbria

Le affinità e le analogie con i casi citati aiutano a inquadrare un aspetto decisivo della vicenda “Bandecchi sindaco”. I casi appena ricordati hanno una caratteristica evidente: riguardano tutti aree del Sud Italia e aree in profonda crisi. Questo dato aiuta a formulare una ipotesi che meriterebbe di essere approfondita e discussa. L'elezione di Bandecchi a sindaco di Terni potrebbe essere interpretata come l’ennesimo esempio di “meridionalizzazione” della bassa Umbria, e forse della regione. A partire dalla Banca d’Italia con riferimento all’economia, ma ci si potrebbe riferire anche a dati demografici e religiosi, scolastici e culturali e ad altro ancora, l’ipotesi di una “meridionalizzazione” progressiva del ternano, e in gradi diversi dell’intera Umbria, non è una ipotesi nuova né azzardata. Anzi, è vecchia di lustri e ben documentata, come vecchia e pervicace è l’esorcizzazione del problema da parte delle istituzioni locali, in primis politiche. Il signor Bandecchi (legittimamente sino a prova contraria) può aver colto le opportunità di questa situazione, ma certo di essa – sino a oggi – non porta alcuna responsabilità. L’ha sfruttata invece che contrastata, ma questa è una legittima opzione politica. Di questo processo di “meridionalizzazione” dell’area ternana fa parte anche il patetico “soccorso al vincitore” che è tempestivamente venuto al neosindaco Bandecchi dalle direzioni più disparate: da segmenti bassi della struttura ecclesiastica locale, da “civici girovaghi”, da settori importanti della sinistra (tradizionale o sedicente “nuova”) del “tanto peggio tanto meglio”. Anche in questo caso, nulla di nuovo.

Responsabilità della Sinistra …

Come si diceva, la “meridionalizzazione” della politica ternana (e forse non solo di questa in Umbria), non ha nel signor Bandecchi – sino ad oggi – il suo primo e principale responsabile. Semmai, il responsabile, o meglio i responsabili vanno cercati nelle forze politiche protagoniste degli ultimi decenni della politica locale. Innanzitutto e principalmente nella sinistra. Fu essa che – a partire dagli anni ‘70 – fece della Regione un sub-stato, con scopi di controllo e di premio discrezionale, di estrazione di energie dalla società civile invece che di crescita, di egemonia soffocante (perfino culturale) e di clientelismo. Tutto questo, per di più, era finalizzato (anche con il concorso del Pci ternano!) all'istituzione di una storicamente inedita signoria perugina su Terni. Il processo è continuato fino alle giunte comunali dei sindaci Raffaelli e Di Girolamo. Nonostante la evidente e crescente disfunzione e la “rapina” di cui era corresponsabile quel regime politico dell’“Umbria rossa” (mitizzato dagli intellettuali di complemento), i vassalli locali della Regione di Perugia sino agli anni 2008/2010 negarono l'evidenza del declino. Sono agli atti dei due volumi dedicati da Azione Cattolica e Chiese locali umbre alla bancarotta della “regione rossa” e al declino che essa assecondava e accelerava, soprattutto a Terni ma non solo qui, le peripezie linguistiche con cui si tentava di negare tale evidenza in cui periodicamente si lanciavano i sindaci Raffaelli e Di Girolamo e i presidenti di Regione Lorenzetti e Marini (in grande compagnia politica e para-politica).

… e della Destra

Il fatto interessante è che a nulla servì, come l'Azione Cattolica ternana per tempo aveva intuito e pubblicamente denunciato, l'alternanza alla sinistra da parte della destra e della coalizione alla cui guida è stato il sindaco Latini. Se platealmente diversi dai precedenti e sobri furono i modi di quest’ultimo, la continuità con la linea delle “giunte rosse”, negare il declino ternano, mantenere immutati i rapporti politica/società e quelli Terni/Perugia sono lì a mostrare un fatto tanto incredibile quanto vero: la sostanziale continuità Raffaelli/Di Girolamo/Latini e quella Lorenzetti/Marini/Tesei.

Intanto la rabbia dei ternani è cresciuta

Anche invertendo il punto di vista la scena non cambia. L’accomodarsi al declino della classe politica di qualsiasi colore, il puntare solo a scamparla individualmente, hanno generato una reazione precisa e “da manuale” nei comportamenti elettorali. La rabbia e le paure crescenti dei ternani di fronte alla codardia e alla fuga dalla realtà del ceto politico locale hanno prodotto punte record di volatilità del consenso elettorale, anche in un’Italia che da quella volatilità elettorale era attraversata e in un Centro Italia che vi primeggiava. In successione, Renzi, Grillo, Salvini e Meloni, direttamente o per interposta persona a seconda del tipo di elezione (primaria, comunale, regionale, nazionale o europea), hanno toccato e velocemente perso elevatissimi vertici di consenso.

I tratti della meridionalizzazione della società ternana

Sempre più deluso e “arrabbiato”, l’elettorato ternano da un decennio almeno cerca qualcuno di cui fidarsi e, se non lo trova, e di fatto non lo ha trovato, usa il voto per vendicarsi. Le evidenze cedono il passo alle apparenze, i ragionamenti sul futuro agli istinti di sopravvivenza. Che un tale genere di vendetta sia inefficace, e anzi si riveli autolesionista, è cosa tanto nota, quanto – incredibilmente – facile da dimenticare quando giunge l’appuntamento elettorale. Così però stanno le cose e questo è uno dei tratti della “meridionalizzazione” della politica ternana (e forse anche umbra). Tipicamente “meridionalizzato” è anche il dissolversi nella società ternana di quelle istituzioni e di quelle associazioni non politiche (ma economiche, culturali, sportive o religiose) che per funzione hanno quella di aiutare i cittadini a non perdere la memoria e a esercitare il calcolo bisogni-possibilità-risorse-scopi. La china di “meridionalizzazione” dell’area ternana non è cominciata con il signor Bandecchi. Come detto, lui l’ha trovata e sfruttata, ha colto la possibilità che gli è stata offerta di denunciare ciò di cui la città soffre e di cui i politici e gli amministratori locali hanno taciuto o fatto finta di occuparsi. E la denuncia è bastata a garantire la vittoria. Il resto non era un’alternativa credibile, bensì la negazione della verità di ciò che veniva denunciato.

Come sarà il dopo Bandecchi?

La “meridionalizzazione” della politica ternana finirà con il signor Bandecchi o proseguirà dopo di lui? La risposta a questa domanda dipende solo dall’elettorato ternano e dalle alternative che gli saranno offerte a partire dalle europee e dalle regionali del 2024. È solo dopo aver posto in chiaro tutto questo (ci sarebbe anche altro da dire) che ci si può chiedere se in questa vicenda di “meridionalizzazione” della politica ternana l’evento “elezione Bandecchi” abbia per ora costituito una svolta o invece sia per il momento null’altro che l’ennesimo atto della stessa tragedia. Ad oggi, nel poco tempo trascorso dall’inizio dell'avventura politica e poi amministrativa di Bandecchi, non si può dire molto di più di una sola cosa: lui non ha contrastato questa situazione, bensì l’ha sfruttata (legittimamente).

Il conflitto di interesse

Lo stato di cose che ne deriva ha già un costo per i ternani e le ternane. Vediamo alcuni di questi costi. Con il signor Bandecchi a Palazzo Spada, la politica e l'opinione pubblica locale stanno continuando a convivere con (legittimi sino a prova contraria) conflitti di interesse. Quando, ad esempio, l’amministrazione Bandecchi pone alla Regione di Perugia il problema sanità, e sarebbe grave che non lo facesse, a porlo è un sindaco che è anche un imprenditore che non fa mistero dei suoi interessi (legittimi fino a prova contraria) nel settore della sanità. In ciò non c’è nulla di nuovo rispetto a quello che avveniva quando passate giunte (rosse o nere) prendevano provvedimenti relativi a settori in cui operavano attori della stessa filiera politica o di recente acquisizione.

Nulla di illegale … ma opportuno?

Nulla di illecito in tutto ciò (finché un giudice non dice il contrario), ma non vi è alcun dubbio che la vita sociale ternana si svolgerebbe a un più elevato livello di qualità civile se tali conflitti di interesse non fossero neppure ipotizzabili. Ancora oggi non è chiaro se sussistono o no ragioni di incompatibilità tra gli interessi del signor Bandecchi e la carica e le funzioni di Sindaco che attualmente ricopre. Né è stato chiarito da chi di dovere se certe sue scelte (come il coinvolgimento di vigilanti privati nella tutela dell’ordine pubblico in città) o alcuni suoi comportamenti in Consiglio comunale costituiscano un problema dal punto di vista legale e giuridico oppure no. Nell’interesse di tutti, alla giustizia vanno assolutamente lasciati il suo corso e i suoi tempi, ma non credo dovrebbe essere difficile convenire sul giudizio che sarebbe stato saggio e leale evitare alla città momenti di incertezza come quelli che stiamo vivendo, per di più in una fase nella quale gravissimi motivi di incertezza e di preoccupazione già abbondano.

Dichiarazioni tante, programmi pochi

La situazione appena descritta inevitabilmente lascia in un cono d’ombra questioni di primaria grandezza, questioni a proposito delle quali la città avrebbe diritto e interesse a discutere programmi (cosa? come? con quali risorse? in quali tempi?) invece che le solite, roboanti e innocue, “dichiarazioni a caldo”. Si pensi solo al dramma che per Terni e le sue residue possibilità di futuro si è consumato nell’estate scorsa con la cancellazione del raddoppio della Orte-Falconara. Dramma cui si affianca il silenzio e lo stallo intorno all’accordo di programma su Ast, lo scarso sostegno alle chances ternane per il reshoring della chimica, per non parlare della desolazione in cui versa il sistema sanitario locale.

Bandecchi e l’illusione del “sovranismo municipale”

La maggioranza delle esternazioni del Sindaco evocano una sorta di sovranismo municipale (“faremo da soli”). Il carattere illusorio e ammaliante di una linea del genere, che non funzionerebbe neppure a New York o a Milano, distrae e illude ampie porzioni dell’opinione pubblica. Meno che mai a Terni il sovranismo municipale può essere all’altezza della gravità dei problemi a proposito dei quali è esibito dal Sindaco in carica. Il sovranismo municipale (come ogni sovranismo) serve solo a coprire (per poco tempo e a carissimo prezzo) la debolezza di ogni “uomo solo al comando”. Mentre vanno in onda le melodie infantili del sovranismo municipale, giacciono dimenticate le possibilità ben documentate della integrazione-unione dei diciotto comuni della potenziale “Grande Terni” e di una rete di città medie che intraprenda la causa dell’“Italia Centrale”.

Riepilogando: chi è Bandecchi?

Riepilogando, la domanda cui tornare e da cui partire non è “chi è Bandecchi?”. A questa domanda, la risposta è nota da anni. La domanda cui tornare e da cui ripartire è “come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”, ovvero “cosa sono diventate realmente Terni e l’area ternana?”. Se poi altri in Umbria pensassero che la questione non li riguarda, rischierebbero solo di pagarne a breve gravi conseguenze.

Domande per i laici cattolici ternani e umbri

Un grave errore farebbero i laici cattolici ternani e umbri se lasciassero da parte il tema o se aspettassero che a occuparsene per primi fossero vescovi e preti. Decenni di “devozionismo protetto” - dal potere politico - hanno disabituato un pezzo di Chiesa umbra a rischiare la testimonianza della libertà per il bene comune. Il documento finale dell'Assemblea ecclesiale regionale del 2018 ci dimostra che i nostri pastori dovrebbero dare maggiore attenzione alle questioni precise e urgenti poste da laici e laiche (e per la verità anche da tanti preti, religiosi e religiose). In condizioni del genere, sarebbe forse anche il caso di ricordarci più spesso che il Vaticano II (dalla Lumen gentium alla Apostolicam actuositatem) toglie ogni alibi alla pigrizia del laicato. Come disse Papa Francesco ai laici del Forum internazionale di Azione Cattolica (il 27 aprile 2017): non aspettate il clero, fatevi inseguire, “siate audaci, non siete più fedeli alla Chiesa se aspettate a ogni passo che vi dicano che cosa dovete fare”. Un pezzo della “meridionalizzazione” dell’Umbria è fatto dalla “meridionalizzazione” di parte della Chiesa umbra ed è chiaro che con ciò non ci stiamo certamente riferendo alla Chiesa meridionale di don Puglisi e Rosario Livatino.]]>
bandecchi

Il problema non è Bandecchi, il problema è Terni (e forse l’Umbria). Se vogliamo tentare di riflettere seriamente su quello che è avvenuto e sta avvenendo nella politica ternana, che in questa o in altre forme potrebbe ripetersi altrove in Umbria, dobbiamo partire da un punto fisso: il problema, perlomeno il primo problema, non è il signor Bandecchi, il problema è Terni.

Non era uno sconosciuto a Terni

Il Bandecchi eletto sindaco di Terni la scorsa primavera non era affatto uno sconosciuto. Di lui si conoscevano - perfettamente e da tempo - stile (che nella vita civile è “sostanza”), interessi e valori. Il signor Bandecchi calcava la scena ternana da tempo. Nessuno avrebbe potuto dirsi all’oscuro dal modo “salivare” (rivendicato!) di rivolgersi in qualche caso agli interlocutori né alcuno avrebbe potuto dirsi sorpreso dell’offerta gratis di panini con la porchetta in campagna elettorale. A “questo” Bandecchi le forze politiche locali, destra e sinistra, avevano già regalato la cittadinanza onoraria. Segno della grande confusione, se non dell’opportunismo, gliela avevano regalata lo stesso giorno in cui l’avevano attribuita a Liliana Segre, persona che sotto qualsiasi punto di vista è distante mille miglia dal signor Bandecchi, quando non ne è l’esatto contrario. Di “questo” Bandecchi gli elettori ternani e le forze politiche ternane conoscevano perfettamente gli interessi (legittimi fino a prova contraria). Non poca parte delle forze politiche risultava essere stata appoggiata dal signor Bandecchi e dalle sue società, come dall’interessato più volte pubblicamente e a buon diritto rivendicato. Non è diventato sindaco di Terni per caso o per sorteggio, non ha rubato la poltrona di Palazzo Spada, è stato eletto sindaco dal voto libero e regolare dei ternani e delle ternane e ha sconfitto democraticamente forze politiche che lo avevano blandito.

Perché a Terni è stato eletto Bandecchi?

Anche per queste ragioni il punto dal quale partire non è “Bandecchi”, bensì: “come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”. E questa non è una domanda da rivolgere a lui, ma da rivolgere a noi stessi, agli elettori e alle elettrici ternane. Se si tenta di rispondere a questo interrogativo (“come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”), può essere d’aiuto un minimo di memoria storica. Il “caso Bandecchi”, ovvero l'elezione in ruoli amministrativi locali importanti di un outsider con determinati tratti di stile, non è affatto una novità.

Il “caso” Bandecchi non è l’unico

Al contrario, i casi per qualche verso analoghi sono numerosissimi e ben studiati. Vanno dall’elezione di Achille Lauro a sindaco di Napoli negli anni ‘50 a quella di Cateno De Luca sindaco di Messina dal 2018, passando per Giancarlo Cito eletto sindaco di Taranto nel 1993. Né sono da trascurare alcune ma importanti affinità stilistiche tra il signor Bandecchi e alcuni attuali presidenti di Regione come De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia. Naturalmente, se si parla di analogie e di affinità, è perché non mancano le differenze.

Bandecchi: esempio di “meridionalizzazione” della bassa Umbria

Le affinità e le analogie con i casi citati aiutano a inquadrare un aspetto decisivo della vicenda “Bandecchi sindaco”. I casi appena ricordati hanno una caratteristica evidente: riguardano tutti aree del Sud Italia e aree in profonda crisi. Questo dato aiuta a formulare una ipotesi che meriterebbe di essere approfondita e discussa. L'elezione di Bandecchi a sindaco di Terni potrebbe essere interpretata come l’ennesimo esempio di “meridionalizzazione” della bassa Umbria, e forse della regione. A partire dalla Banca d’Italia con riferimento all’economia, ma ci si potrebbe riferire anche a dati demografici e religiosi, scolastici e culturali e ad altro ancora, l’ipotesi di una “meridionalizzazione” progressiva del ternano, e in gradi diversi dell’intera Umbria, non è una ipotesi nuova né azzardata. Anzi, è vecchia di lustri e ben documentata, come vecchia e pervicace è l’esorcizzazione del problema da parte delle istituzioni locali, in primis politiche. Il signor Bandecchi (legittimamente sino a prova contraria) può aver colto le opportunità di questa situazione, ma certo di essa – sino a oggi – non porta alcuna responsabilità. L’ha sfruttata invece che contrastata, ma questa è una legittima opzione politica. Di questo processo di “meridionalizzazione” dell’area ternana fa parte anche il patetico “soccorso al vincitore” che è tempestivamente venuto al neosindaco Bandecchi dalle direzioni più disparate: da segmenti bassi della struttura ecclesiastica locale, da “civici girovaghi”, da settori importanti della sinistra (tradizionale o sedicente “nuova”) del “tanto peggio tanto meglio”. Anche in questo caso, nulla di nuovo.

Responsabilità della Sinistra …

Come si diceva, la “meridionalizzazione” della politica ternana (e forse non solo di questa in Umbria), non ha nel signor Bandecchi – sino ad oggi – il suo primo e principale responsabile. Semmai, il responsabile, o meglio i responsabili vanno cercati nelle forze politiche protagoniste degli ultimi decenni della politica locale. Innanzitutto e principalmente nella sinistra. Fu essa che – a partire dagli anni ‘70 – fece della Regione un sub-stato, con scopi di controllo e di premio discrezionale, di estrazione di energie dalla società civile invece che di crescita, di egemonia soffocante (perfino culturale) e di clientelismo. Tutto questo, per di più, era finalizzato (anche con il concorso del Pci ternano!) all'istituzione di una storicamente inedita signoria perugina su Terni. Il processo è continuato fino alle giunte comunali dei sindaci Raffaelli e Di Girolamo. Nonostante la evidente e crescente disfunzione e la “rapina” di cui era corresponsabile quel regime politico dell’“Umbria rossa” (mitizzato dagli intellettuali di complemento), i vassalli locali della Regione di Perugia sino agli anni 2008/2010 negarono l'evidenza del declino. Sono agli atti dei due volumi dedicati da Azione Cattolica e Chiese locali umbre alla bancarotta della “regione rossa” e al declino che essa assecondava e accelerava, soprattutto a Terni ma non solo qui, le peripezie linguistiche con cui si tentava di negare tale evidenza in cui periodicamente si lanciavano i sindaci Raffaelli e Di Girolamo e i presidenti di Regione Lorenzetti e Marini (in grande compagnia politica e para-politica).

… e della Destra

Il fatto interessante è che a nulla servì, come l'Azione Cattolica ternana per tempo aveva intuito e pubblicamente denunciato, l'alternanza alla sinistra da parte della destra e della coalizione alla cui guida è stato il sindaco Latini. Se platealmente diversi dai precedenti e sobri furono i modi di quest’ultimo, la continuità con la linea delle “giunte rosse”, negare il declino ternano, mantenere immutati i rapporti politica/società e quelli Terni/Perugia sono lì a mostrare un fatto tanto incredibile quanto vero: la sostanziale continuità Raffaelli/Di Girolamo/Latini e quella Lorenzetti/Marini/Tesei.

Intanto la rabbia dei ternani è cresciuta

Anche invertendo il punto di vista la scena non cambia. L’accomodarsi al declino della classe politica di qualsiasi colore, il puntare solo a scamparla individualmente, hanno generato una reazione precisa e “da manuale” nei comportamenti elettorali. La rabbia e le paure crescenti dei ternani di fronte alla codardia e alla fuga dalla realtà del ceto politico locale hanno prodotto punte record di volatilità del consenso elettorale, anche in un’Italia che da quella volatilità elettorale era attraversata e in un Centro Italia che vi primeggiava. In successione, Renzi, Grillo, Salvini e Meloni, direttamente o per interposta persona a seconda del tipo di elezione (primaria, comunale, regionale, nazionale o europea), hanno toccato e velocemente perso elevatissimi vertici di consenso.

I tratti della meridionalizzazione della società ternana

Sempre più deluso e “arrabbiato”, l’elettorato ternano da un decennio almeno cerca qualcuno di cui fidarsi e, se non lo trova, e di fatto non lo ha trovato, usa il voto per vendicarsi. Le evidenze cedono il passo alle apparenze, i ragionamenti sul futuro agli istinti di sopravvivenza. Che un tale genere di vendetta sia inefficace, e anzi si riveli autolesionista, è cosa tanto nota, quanto – incredibilmente – facile da dimenticare quando giunge l’appuntamento elettorale. Così però stanno le cose e questo è uno dei tratti della “meridionalizzazione” della politica ternana (e forse anche umbra). Tipicamente “meridionalizzato” è anche il dissolversi nella società ternana di quelle istituzioni e di quelle associazioni non politiche (ma economiche, culturali, sportive o religiose) che per funzione hanno quella di aiutare i cittadini a non perdere la memoria e a esercitare il calcolo bisogni-possibilità-risorse-scopi. La china di “meridionalizzazione” dell’area ternana non è cominciata con il signor Bandecchi. Come detto, lui l’ha trovata e sfruttata, ha colto la possibilità che gli è stata offerta di denunciare ciò di cui la città soffre e di cui i politici e gli amministratori locali hanno taciuto o fatto finta di occuparsi. E la denuncia è bastata a garantire la vittoria. Il resto non era un’alternativa credibile, bensì la negazione della verità di ciò che veniva denunciato.

Come sarà il dopo Bandecchi?

La “meridionalizzazione” della politica ternana finirà con il signor Bandecchi o proseguirà dopo di lui? La risposta a questa domanda dipende solo dall’elettorato ternano e dalle alternative che gli saranno offerte a partire dalle europee e dalle regionali del 2024. È solo dopo aver posto in chiaro tutto questo (ci sarebbe anche altro da dire) che ci si può chiedere se in questa vicenda di “meridionalizzazione” della politica ternana l’evento “elezione Bandecchi” abbia per ora costituito una svolta o invece sia per il momento null’altro che l’ennesimo atto della stessa tragedia. Ad oggi, nel poco tempo trascorso dall’inizio dell'avventura politica e poi amministrativa di Bandecchi, non si può dire molto di più di una sola cosa: lui non ha contrastato questa situazione, bensì l’ha sfruttata (legittimamente).

Il conflitto di interesse

Lo stato di cose che ne deriva ha già un costo per i ternani e le ternane. Vediamo alcuni di questi costi. Con il signor Bandecchi a Palazzo Spada, la politica e l'opinione pubblica locale stanno continuando a convivere con (legittimi sino a prova contraria) conflitti di interesse. Quando, ad esempio, l’amministrazione Bandecchi pone alla Regione di Perugia il problema sanità, e sarebbe grave che non lo facesse, a porlo è un sindaco che è anche un imprenditore che non fa mistero dei suoi interessi (legittimi fino a prova contraria) nel settore della sanità. In ciò non c’è nulla di nuovo rispetto a quello che avveniva quando passate giunte (rosse o nere) prendevano provvedimenti relativi a settori in cui operavano attori della stessa filiera politica o di recente acquisizione.

Nulla di illegale … ma opportuno?

Nulla di illecito in tutto ciò (finché un giudice non dice il contrario), ma non vi è alcun dubbio che la vita sociale ternana si svolgerebbe a un più elevato livello di qualità civile se tali conflitti di interesse non fossero neppure ipotizzabili. Ancora oggi non è chiaro se sussistono o no ragioni di incompatibilità tra gli interessi del signor Bandecchi e la carica e le funzioni di Sindaco che attualmente ricopre. Né è stato chiarito da chi di dovere se certe sue scelte (come il coinvolgimento di vigilanti privati nella tutela dell’ordine pubblico in città) o alcuni suoi comportamenti in Consiglio comunale costituiscano un problema dal punto di vista legale e giuridico oppure no. Nell’interesse di tutti, alla giustizia vanno assolutamente lasciati il suo corso e i suoi tempi, ma non credo dovrebbe essere difficile convenire sul giudizio che sarebbe stato saggio e leale evitare alla città momenti di incertezza come quelli che stiamo vivendo, per di più in una fase nella quale gravissimi motivi di incertezza e di preoccupazione già abbondano.

Dichiarazioni tante, programmi pochi

La situazione appena descritta inevitabilmente lascia in un cono d’ombra questioni di primaria grandezza, questioni a proposito delle quali la città avrebbe diritto e interesse a discutere programmi (cosa? come? con quali risorse? in quali tempi?) invece che le solite, roboanti e innocue, “dichiarazioni a caldo”. Si pensi solo al dramma che per Terni e le sue residue possibilità di futuro si è consumato nell’estate scorsa con la cancellazione del raddoppio della Orte-Falconara. Dramma cui si affianca il silenzio e lo stallo intorno all’accordo di programma su Ast, lo scarso sostegno alle chances ternane per il reshoring della chimica, per non parlare della desolazione in cui versa il sistema sanitario locale.

Bandecchi e l’illusione del “sovranismo municipale”

La maggioranza delle esternazioni del Sindaco evocano una sorta di sovranismo municipale (“faremo da soli”). Il carattere illusorio e ammaliante di una linea del genere, che non funzionerebbe neppure a New York o a Milano, distrae e illude ampie porzioni dell’opinione pubblica. Meno che mai a Terni il sovranismo municipale può essere all’altezza della gravità dei problemi a proposito dei quali è esibito dal Sindaco in carica. Il sovranismo municipale (come ogni sovranismo) serve solo a coprire (per poco tempo e a carissimo prezzo) la debolezza di ogni “uomo solo al comando”. Mentre vanno in onda le melodie infantili del sovranismo municipale, giacciono dimenticate le possibilità ben documentate della integrazione-unione dei diciotto comuni della potenziale “Grande Terni” e di una rete di città medie che intraprenda la causa dell’“Italia Centrale”.

Riepilogando: chi è Bandecchi?

Riepilogando, la domanda cui tornare e da cui partire non è “chi è Bandecchi?”. A questa domanda, la risposta è nota da anni. La domanda cui tornare e da cui ripartire è “come mai a Terni è stato eletto sindaco il signor Bandecchi?”, ovvero “cosa sono diventate realmente Terni e l’area ternana?”. Se poi altri in Umbria pensassero che la questione non li riguarda, rischierebbero solo di pagarne a breve gravi conseguenze.

Domande per i laici cattolici ternani e umbri

Un grave errore farebbero i laici cattolici ternani e umbri se lasciassero da parte il tema o se aspettassero che a occuparsene per primi fossero vescovi e preti. Decenni di “devozionismo protetto” - dal potere politico - hanno disabituato un pezzo di Chiesa umbra a rischiare la testimonianza della libertà per il bene comune. Il documento finale dell'Assemblea ecclesiale regionale del 2018 ci dimostra che i nostri pastori dovrebbero dare maggiore attenzione alle questioni precise e urgenti poste da laici e laiche (e per la verità anche da tanti preti, religiosi e religiose). In condizioni del genere, sarebbe forse anche il caso di ricordarci più spesso che il Vaticano II (dalla Lumen gentium alla Apostolicam actuositatem) toglie ogni alibi alla pigrizia del laicato. Come disse Papa Francesco ai laici del Forum internazionale di Azione Cattolica (il 27 aprile 2017): non aspettate il clero, fatevi inseguire, “siate audaci, non siete più fedeli alla Chiesa se aspettate a ogni passo che vi dicano che cosa dovete fare”. Un pezzo della “meridionalizzazione” dell’Umbria è fatto dalla “meridionalizzazione” di parte della Chiesa umbra ed è chiaro che con ciò non ci stiamo certamente riferendo alla Chiesa meridionale di don Puglisi e Rosario Livatino.]]>
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Elezioni politiche 2022. Dove sono le idee … e i cattolici? https://www.lavoce.it/elezioni-politiche-2022-dove-sono-le-idee-e-i-cattolici/ Wed, 31 Aug 2022 01:31:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=68133 Elezioni 2022

Le liste per le elezioni politiche nazionali del 25 Settembre sono state “chiuse” e la campagna elettorale è entrata nel vivo. Prima che gli animi si accendano troppo e che il frastuono superi il livello di guardia c’è tempo per qualche osservazione. Tuttavia, ancora prima di queste osservazioni, è doveroso ribadire che, per il magistero sociale della Chiesa e non solo, la politica, come ogni ambito pratico, non è oggetto di verità assolute né di sillogismi. Le conoscenze, già in sé precarie, vanno continuamente aggiornate. Le sorprese sono all’ordine del giorno.

Valutare annunci … e scelte compiute

La perfezione e la purezza vanno escluse a priori e dunque ogni argomento difensivo del tipo “ma anche loro …” va bandito per principio. L’unica cosa che si può fare è confrontare le liste di priorità. Valutare per i singoli problemi quali sono i diversi benefici ed i diversi costi delle soluzioni proposte e, soprattutto, valutare il pregresso delle persone e delle organizzazioni. I programmi da prendere in considerazione non sono quelli scritti oggi, ma quelli perseguiti sino a ieri. Si dirà: in tempo di tribalismi (anche) politici tutto questo non è di moda. E quando mai un credente od una persona onesta possono farsi dettare i pensieri e le scelte dalle mode o dagli influencer? Anche se in tonaca. E veniamo a quattro osservazioni.

Pe le elezioni candidati non scelti dagli elettori

Pressoché tutte le liste sono piene di bravissime persone, di persone – come a volte si dice – provenienti dalla “società civile”. Ciò nonostante non bisogna farsi confondere. Basta osservare i posti loro assegnati e conoscere i sondaggi per rendersi conto che sono state collocate in posizioni “inutili”, sono state usate da “abbellimento”. Gruppi dirigenti ristrettissimi e selezionati per cooptazione si sono presi tutti i posti “utili” (ed anche qualcuno in più: “per sicurezza”). Questo fenomeno non è affatto inevitabile. Basta osservare come funzionano le grandi democrazie (ed ormai anche molte delle piccole) per rendersi conto facilmente che le primarie (spesso imposte per legge), o i “primi turni” di sistemi a “doppio turno”, servono esattamente a questo: a far sì che siano gli elettori a scegliere i candidati. Né la attuale legge elettorale avrebbe impedito l’utilizzo dello strumento delle primarie. Anzi, per la verità, lo avrebbe favorito. Il rifiuto delle primarie è particolarmente grave per il Pd che era nato sul solenne impegno statutario di tenere regolarmente primarie aperte e trasparenti. Di quel Pd non c’è più traccia e magari la cosa colpisce un po’ meno in Umbria, dove il Pd – come qualcosa di realmente altro da quello che c’era prima – non è praticamente mai nato. A quest’uso delle “facce nuove”, di routine a destra, non fa eccezione neppure il neonato “Terzo Polo” (Renzi-Calenda), che ha cercato di mettere al sicuro una manciata di ex-Pd nostrani, i quali, del riformismo e dello spirito liberale di cui oggi parlano, non avevano fatto sospettare quando erano interni e spesso al vertice dell’”Umbria rossa”. Veniamo ai programmi. Qui il discorso si fa piuttosto semplice.

I programmi di partiti e coalizioni ci sono?

I 5Stelle di Conte

Difficile dire qualcosa del Movimento 5 Stelle e di Conte. Nel corso della passata legislatura hanno fatto di tutto ed hanno addirittura guidato (con Conte) governi di orientamento perfettamente opposto (record eguagliabile, ma non superabile), nessuno dei quali governi e delle rispettive alleanze minimamente riconducibile alle promesse fatte in campagna elettorale. Anche dal punto di vista del metodo il M5S non ha certo dato compimento alle promesse di democrazia diretta e di trasparenza di cui si era vantato. Se bastava un po’ di storia per sapere che la “democrazia diretta” è un mito che serve solo a coprire l’ennesimo attacco alla democrazia, forse non tutti si aspettavano che alla fine risultasse irrisolto anche il nodo del rapporto tra M5S e aziende private. Ciò detto, e a dimostrazione di quanto detto in premessa, non si può però non ricordare che per iniziativa dei “Cinque Stelle” abbiamo avuto una riforma – il taglio dei parlamentari – che punisce il ceto politico ed aumenta il peso del voto del singolo elettore. Una riforma – come tutte certamente da completare – della quale solo da poco abbiamo cominciato ad apprezzare il valore e la utilità.

Il Pd e gli alleati

Difficile dire qualcosa anche della alleanza cui hanno dato vita: +Europa, il Pd, i dalemiani della “ditta” già fuoriusciti, Fratoianni, Bonelli e Di Maio. La eterogeneità è tale che questa coalizione non ha né un programma, né un leader e forse neppure un nome. Vi sta dentro chi è stato con Draghi e chi lo ha costantemente combattuto, e persino Di Maio il quale, per parlare solo di politica estera, ha avuto momenti di attiva simpatia per Putin, altri di alacre collaborazione con i cinesi e ora, da poco, professa “europeismo” ed “atlantismo”. Il Pd, che aveva cercato in ogni modo il Conte III piuttosto che il governo Draghi, dopo essere stato fedele a quest’ultimo, una volta caduto l’ha immediatamente rimosso, accantonandone l’agenda ed alleandosi con chi lo ha osteggiato. Si dice: colpa delle legge elettorale; ma – a prescindere dal fatto che tale legge non obbliga affatto a fare alleanze, né tanto meno a farne con chi ha idee diverse dalle proprie – si tratta di una legge elettorale che porta il nome dell’allora capogruppo Pd! Se ora il Pd si accorge che si tratta di una legge elettorale fatta male, non dovrebbe accampare scuse, ma chiedere scusa. La scissione di alleanza elettorale e programma è l’ennesima pietra tombale posta dal Pd su se stesso. In questa fase neppure i residui riformisti del Pd hanno dato battaglia a Letta ed alla “ditta”, ma si sono limitati a tentare di farsi cooptare.

Centro destra e Terzo polo Renzi-Calenda

Di programmi invece ha invece senso parlare se si prendono in considerazione Centrodestra e Terzo polo (Renzi-Calenda). Qui la alternativa è chiara: da una parte – il Centrodestra – abbiamo un “no” netto alla “agenda Draghi”, dall’altra – Renzi-Calenda – abbiamo un “sì” altrettanto netto alla “agenda Draghi”. La contrapposizione è resa ancora più chiara dal fatto che la “agenda Draghi” non è una vaga dichiarazione di intenti, ma un programma per larga parte già scritto, già in via di esecuzione e che già ha prodotto risultati in termini di: flussi economici, pubblici e privati, di credito, di collocazione internazionale dell’Italia, di riforme, di risultati già prodotti dalle politiche adottate. Naturalmente la “agenda Draghi” può piacere o non piacere, ma si tratta di una cosa precisa e già operativa. Sicché la alternativa tra Centrodestra e Terzo Polo ha contorni precisi e concreti. (Né si può escludere che un buon risultato di Renzi & Calenda attragga e torni a dare un po’ di coraggio ai riformisti del Pd ed agli eventuali – attualmente scomparsi dai radar – “non sovranisti” e “non populisti” del Centrodestra.) Ciò che il Centrodestra non dice nel suo programma è come (e dunque a quali costi) riuscirebbe a garantire altrimenti i flussi finanziari positivi generati dalla agenda Draghi (dai fondi messi a disposizione dall’UE agli investimenti privati attirati dalla fiducia generata sui mercati da Draghi e dalle sue politiche). Ad esempio, come potrebbe mai essere possibile arginare la escalation dei prezzi dell’energia se non con un fronte UE compatto quale quello cui Draghi ha lavorato sin quasi ad assumerne la leadership? Né il Centrodestra dice come riuscirà a conservare la apertura di credito riguadagnata dall’Italia nelle sedi internazionali, né come eviterà i contraccolpi negativi della cancellazione delle riforme realizzate o messe in cantiere dal governo uscente, né con cosa sostituirà i risultati ottenuti e quelli attesi delle politiche adottate dal governo Draghi. Il Centrodestra afferma di voler stare nella Unione Europea e nella Nato, ma questo non basta perché si può stare in Europa come l’Ungheria di Orban (corteggiatissimo da Meloni) ed il Gruppo di Visegrad (amato da Salvini) oppure come Macron; perché si può stare nella Nato come la Turchia di Erdogan o come la Gran Bretagna. Per non parlare delle simpatie per Putin (e per Trump) assai diffuse nello stesso Centrodestra. Al momento, il “no” alla “agenda Draghi”, che resta legittimo, è pieno di equivoci e di lacune, ed è pieno di incubi per chi desidera che l’Italia resti una “società aperta”, una poliarchia locale dentro una poliarchia globale (per usare i termini della Caritas in veritate di Benedetto XVI). Dal punto di vista programmatico, per quello che è dato vedere oggi, le elezioni del 25 Settembre saranno un referendum sulla “agenda Draghi”: Terzo Polo a favore della “agenda Draghi” e Centrodestra contro la ”agenda Draghi”.

Temi locali nel dibattito nazionale sulle elezioni?

Ha senso attendersi che si parli di questioni locali in elezioni politiche nazionali? No e sì. No, non ha senso perché agli umbri, come a tutti gli altri italiani, è chiesto di scegliere su politiche di livello nazionale, a differenza di quanto avviene nelle consultazioni regionali o comunali. Sì, ha senso, se si riesce a mostrare che una questione “locale” non è una questione di rilievo solo “locale”, bensì anche “nazionale” e “globale”.

La questione “Italia centrale”

Negli ultimi anni, per prima la Azione Cattolica di Terni-Narni-Amelia, tante e varie voci autorevoli della vita sociale, economica ed accademica, istituzioni di ricerca come l’AUR di Perugia, testate nazionali come “il Messaggero”, hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che la questione “Italia Centrale” è oggi questione di interesse nazionale e globale e che nei suoi confini prende nuovo vigore la causa umbra e in generale quella della rete di città medie di questa area. Nelle settimane scorse era stato fatto notare anche che la maggior parte dei collegi contendibili è collocata proprio in Italia Centrale e che quindi era interesse dei partiti competere offrendo all’elettorato proposte alternative in materia. Risultato: tutti hanno taciuto. Niente di niente da nessuna delle quattro principali sponde.

La questione cattolici e politica

Anche queste elezioni 2022 sono occasione nella quale si manifesta lo scivolamento in atto nel cattolicesimo italiano, rispetto alla politica e non solo. La offerta politica che abbiamo di fronte mostra come il cattolicesimo italiano sia caratterizzato oggi da un mix di visibilità ed irrilevanza. Meloni, Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte hanno biografie e strategie comunicative in cui certo non si nasconde il riferimento alla religione. Contemporaneamente, non occorre essere teologi per rendersi conto che principi e criteri del magistero sociale della Chiesa, per non parlare dell’eredità del cattolicesimo politico, non hanno gran peso nella selezione delle priorità e delle politiche.

Dibattito elettorale: riferimento inconsistente all'insegnamento della Chiesa

In questo senso non si può non sottolineare la assoluta inconsistenza del riferimento alla dottrina sociale della Chiesa fatto dalla on.le Meloni a Rimini. Senza risalire al Vaticano II ed a Montini, è davvero difficile trovare argomenti a sostegno di una prospettiva “sovranista” e “populista” nel magistero di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI.

Caduta del pensiero cattolico e della formazione dei credenti?

Decenni di desertificazione del tessuto dell’associazionismo laicale cattolico e di sua improvvida sostituzione con le “pastorali” (strutturalmente “clericali”) hanno estirpato le radici che avevano formato generazioni di cattolici alle forme proprie ed alla responsabilità della politica. A questo si è aggiunta una moda ormai dilagante di continuo riposizionamento di cattolici, laici e clero, che non si dà briga di addurre giustificazione alcuna per l’assumere in successione posizioni diversissime sia nella Chiesa che in politica. Se si pensa a quale spazio gli interventi del magistero, a tutti i livelli, davano alle argomentazioni che discutevano, distinguevano o collegavano affermazioni del passato e del presente, ben si comprende quale “sciogliete le righe” produca l’attuale affidarsi non ad argomenti, ma ad emozioni, battute e twitt. Certamente non si aiuta la maturazione nei credenti di una rinnovata coscienza storica, e dunque anche politica, diffondendo lo spontaneismo, premiando l’anti-intellettualismo, abbandonandosi a luoghi comuni. Semmai, il bisogno di disciplina (ascetica ed intellettuale), di formazione e di confronto nel discernimento, il bisogno di apostolato dei laici (e non di “pastorali”), di associazionismo laicale ecclesiale (piuttosto che di uffici di curia e di laici ridotti ad “operatori pastorali”) è oggi più grande di ieri.]]>
Elezioni 2022

Le liste per le elezioni politiche nazionali del 25 Settembre sono state “chiuse” e la campagna elettorale è entrata nel vivo. Prima che gli animi si accendano troppo e che il frastuono superi il livello di guardia c’è tempo per qualche osservazione. Tuttavia, ancora prima di queste osservazioni, è doveroso ribadire che, per il magistero sociale della Chiesa e non solo, la politica, come ogni ambito pratico, non è oggetto di verità assolute né di sillogismi. Le conoscenze, già in sé precarie, vanno continuamente aggiornate. Le sorprese sono all’ordine del giorno.

Valutare annunci … e scelte compiute

La perfezione e la purezza vanno escluse a priori e dunque ogni argomento difensivo del tipo “ma anche loro …” va bandito per principio. L’unica cosa che si può fare è confrontare le liste di priorità. Valutare per i singoli problemi quali sono i diversi benefici ed i diversi costi delle soluzioni proposte e, soprattutto, valutare il pregresso delle persone e delle organizzazioni. I programmi da prendere in considerazione non sono quelli scritti oggi, ma quelli perseguiti sino a ieri. Si dirà: in tempo di tribalismi (anche) politici tutto questo non è di moda. E quando mai un credente od una persona onesta possono farsi dettare i pensieri e le scelte dalle mode o dagli influencer? Anche se in tonaca. E veniamo a quattro osservazioni.

Pe le elezioni candidati non scelti dagli elettori

Pressoché tutte le liste sono piene di bravissime persone, di persone – come a volte si dice – provenienti dalla “società civile”. Ciò nonostante non bisogna farsi confondere. Basta osservare i posti loro assegnati e conoscere i sondaggi per rendersi conto che sono state collocate in posizioni “inutili”, sono state usate da “abbellimento”. Gruppi dirigenti ristrettissimi e selezionati per cooptazione si sono presi tutti i posti “utili” (ed anche qualcuno in più: “per sicurezza”). Questo fenomeno non è affatto inevitabile. Basta osservare come funzionano le grandi democrazie (ed ormai anche molte delle piccole) per rendersi conto facilmente che le primarie (spesso imposte per legge), o i “primi turni” di sistemi a “doppio turno”, servono esattamente a questo: a far sì che siano gli elettori a scegliere i candidati. Né la attuale legge elettorale avrebbe impedito l’utilizzo dello strumento delle primarie. Anzi, per la verità, lo avrebbe favorito. Il rifiuto delle primarie è particolarmente grave per il Pd che era nato sul solenne impegno statutario di tenere regolarmente primarie aperte e trasparenti. Di quel Pd non c’è più traccia e magari la cosa colpisce un po’ meno in Umbria, dove il Pd – come qualcosa di realmente altro da quello che c’era prima – non è praticamente mai nato. A quest’uso delle “facce nuove”, di routine a destra, non fa eccezione neppure il neonato “Terzo Polo” (Renzi-Calenda), che ha cercato di mettere al sicuro una manciata di ex-Pd nostrani, i quali, del riformismo e dello spirito liberale di cui oggi parlano, non avevano fatto sospettare quando erano interni e spesso al vertice dell’”Umbria rossa”. Veniamo ai programmi. Qui il discorso si fa piuttosto semplice.

I programmi di partiti e coalizioni ci sono?

I 5Stelle di Conte

Difficile dire qualcosa del Movimento 5 Stelle e di Conte. Nel corso della passata legislatura hanno fatto di tutto ed hanno addirittura guidato (con Conte) governi di orientamento perfettamente opposto (record eguagliabile, ma non superabile), nessuno dei quali governi e delle rispettive alleanze minimamente riconducibile alle promesse fatte in campagna elettorale. Anche dal punto di vista del metodo il M5S non ha certo dato compimento alle promesse di democrazia diretta e di trasparenza di cui si era vantato. Se bastava un po’ di storia per sapere che la “democrazia diretta” è un mito che serve solo a coprire l’ennesimo attacco alla democrazia, forse non tutti si aspettavano che alla fine risultasse irrisolto anche il nodo del rapporto tra M5S e aziende private. Ciò detto, e a dimostrazione di quanto detto in premessa, non si può però non ricordare che per iniziativa dei “Cinque Stelle” abbiamo avuto una riforma – il taglio dei parlamentari – che punisce il ceto politico ed aumenta il peso del voto del singolo elettore. Una riforma – come tutte certamente da completare – della quale solo da poco abbiamo cominciato ad apprezzare il valore e la utilità.

Il Pd e gli alleati

Difficile dire qualcosa anche della alleanza cui hanno dato vita: +Europa, il Pd, i dalemiani della “ditta” già fuoriusciti, Fratoianni, Bonelli e Di Maio. La eterogeneità è tale che questa coalizione non ha né un programma, né un leader e forse neppure un nome. Vi sta dentro chi è stato con Draghi e chi lo ha costantemente combattuto, e persino Di Maio il quale, per parlare solo di politica estera, ha avuto momenti di attiva simpatia per Putin, altri di alacre collaborazione con i cinesi e ora, da poco, professa “europeismo” ed “atlantismo”. Il Pd, che aveva cercato in ogni modo il Conte III piuttosto che il governo Draghi, dopo essere stato fedele a quest’ultimo, una volta caduto l’ha immediatamente rimosso, accantonandone l’agenda ed alleandosi con chi lo ha osteggiato. Si dice: colpa delle legge elettorale; ma – a prescindere dal fatto che tale legge non obbliga affatto a fare alleanze, né tanto meno a farne con chi ha idee diverse dalle proprie – si tratta di una legge elettorale che porta il nome dell’allora capogruppo Pd! Se ora il Pd si accorge che si tratta di una legge elettorale fatta male, non dovrebbe accampare scuse, ma chiedere scusa. La scissione di alleanza elettorale e programma è l’ennesima pietra tombale posta dal Pd su se stesso. In questa fase neppure i residui riformisti del Pd hanno dato battaglia a Letta ed alla “ditta”, ma si sono limitati a tentare di farsi cooptare.

Centro destra e Terzo polo Renzi-Calenda

Di programmi invece ha invece senso parlare se si prendono in considerazione Centrodestra e Terzo polo (Renzi-Calenda). Qui la alternativa è chiara: da una parte – il Centrodestra – abbiamo un “no” netto alla “agenda Draghi”, dall’altra – Renzi-Calenda – abbiamo un “sì” altrettanto netto alla “agenda Draghi”. La contrapposizione è resa ancora più chiara dal fatto che la “agenda Draghi” non è una vaga dichiarazione di intenti, ma un programma per larga parte già scritto, già in via di esecuzione e che già ha prodotto risultati in termini di: flussi economici, pubblici e privati, di credito, di collocazione internazionale dell’Italia, di riforme, di risultati già prodotti dalle politiche adottate. Naturalmente la “agenda Draghi” può piacere o non piacere, ma si tratta di una cosa precisa e già operativa. Sicché la alternativa tra Centrodestra e Terzo Polo ha contorni precisi e concreti. (Né si può escludere che un buon risultato di Renzi & Calenda attragga e torni a dare un po’ di coraggio ai riformisti del Pd ed agli eventuali – attualmente scomparsi dai radar – “non sovranisti” e “non populisti” del Centrodestra.) Ciò che il Centrodestra non dice nel suo programma è come (e dunque a quali costi) riuscirebbe a garantire altrimenti i flussi finanziari positivi generati dalla agenda Draghi (dai fondi messi a disposizione dall’UE agli investimenti privati attirati dalla fiducia generata sui mercati da Draghi e dalle sue politiche). Ad esempio, come potrebbe mai essere possibile arginare la escalation dei prezzi dell’energia se non con un fronte UE compatto quale quello cui Draghi ha lavorato sin quasi ad assumerne la leadership? Né il Centrodestra dice come riuscirà a conservare la apertura di credito riguadagnata dall’Italia nelle sedi internazionali, né come eviterà i contraccolpi negativi della cancellazione delle riforme realizzate o messe in cantiere dal governo uscente, né con cosa sostituirà i risultati ottenuti e quelli attesi delle politiche adottate dal governo Draghi. Il Centrodestra afferma di voler stare nella Unione Europea e nella Nato, ma questo non basta perché si può stare in Europa come l’Ungheria di Orban (corteggiatissimo da Meloni) ed il Gruppo di Visegrad (amato da Salvini) oppure come Macron; perché si può stare nella Nato come la Turchia di Erdogan o come la Gran Bretagna. Per non parlare delle simpatie per Putin (e per Trump) assai diffuse nello stesso Centrodestra. Al momento, il “no” alla “agenda Draghi”, che resta legittimo, è pieno di equivoci e di lacune, ed è pieno di incubi per chi desidera che l’Italia resti una “società aperta”, una poliarchia locale dentro una poliarchia globale (per usare i termini della Caritas in veritate di Benedetto XVI). Dal punto di vista programmatico, per quello che è dato vedere oggi, le elezioni del 25 Settembre saranno un referendum sulla “agenda Draghi”: Terzo Polo a favore della “agenda Draghi” e Centrodestra contro la ”agenda Draghi”.

Temi locali nel dibattito nazionale sulle elezioni?

Ha senso attendersi che si parli di questioni locali in elezioni politiche nazionali? No e sì. No, non ha senso perché agli umbri, come a tutti gli altri italiani, è chiesto di scegliere su politiche di livello nazionale, a differenza di quanto avviene nelle consultazioni regionali o comunali. Sì, ha senso, se si riesce a mostrare che una questione “locale” non è una questione di rilievo solo “locale”, bensì anche “nazionale” e “globale”.

La questione “Italia centrale”

Negli ultimi anni, per prima la Azione Cattolica di Terni-Narni-Amelia, tante e varie voci autorevoli della vita sociale, economica ed accademica, istituzioni di ricerca come l’AUR di Perugia, testate nazionali come “il Messaggero”, hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che la questione “Italia Centrale” è oggi questione di interesse nazionale e globale e che nei suoi confini prende nuovo vigore la causa umbra e in generale quella della rete di città medie di questa area. Nelle settimane scorse era stato fatto notare anche che la maggior parte dei collegi contendibili è collocata proprio in Italia Centrale e che quindi era interesse dei partiti competere offrendo all’elettorato proposte alternative in materia. Risultato: tutti hanno taciuto. Niente di niente da nessuna delle quattro principali sponde.

La questione cattolici e politica

Anche queste elezioni 2022 sono occasione nella quale si manifesta lo scivolamento in atto nel cattolicesimo italiano, rispetto alla politica e non solo. La offerta politica che abbiamo di fronte mostra come il cattolicesimo italiano sia caratterizzato oggi da un mix di visibilità ed irrilevanza. Meloni, Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte hanno biografie e strategie comunicative in cui certo non si nasconde il riferimento alla religione. Contemporaneamente, non occorre essere teologi per rendersi conto che principi e criteri del magistero sociale della Chiesa, per non parlare dell’eredità del cattolicesimo politico, non hanno gran peso nella selezione delle priorità e delle politiche.

Dibattito elettorale: riferimento inconsistente all'insegnamento della Chiesa

In questo senso non si può non sottolineare la assoluta inconsistenza del riferimento alla dottrina sociale della Chiesa fatto dalla on.le Meloni a Rimini. Senza risalire al Vaticano II ed a Montini, è davvero difficile trovare argomenti a sostegno di una prospettiva “sovranista” e “populista” nel magistero di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI.

Caduta del pensiero cattolico e della formazione dei credenti?

Decenni di desertificazione del tessuto dell’associazionismo laicale cattolico e di sua improvvida sostituzione con le “pastorali” (strutturalmente “clericali”) hanno estirpato le radici che avevano formato generazioni di cattolici alle forme proprie ed alla responsabilità della politica. A questo si è aggiunta una moda ormai dilagante di continuo riposizionamento di cattolici, laici e clero, che non si dà briga di addurre giustificazione alcuna per l’assumere in successione posizioni diversissime sia nella Chiesa che in politica. Se si pensa a quale spazio gli interventi del magistero, a tutti i livelli, davano alle argomentazioni che discutevano, distinguevano o collegavano affermazioni del passato e del presente, ben si comprende quale “sciogliete le righe” produca l’attuale affidarsi non ad argomenti, ma ad emozioni, battute e twitt. Certamente non si aiuta la maturazione nei credenti di una rinnovata coscienza storica, e dunque anche politica, diffondendo lo spontaneismo, premiando l’anti-intellettualismo, abbandonandosi a luoghi comuni. Semmai, il bisogno di disciplina (ascetica ed intellettuale), di formazione e di confronto nel discernimento, il bisogno di apostolato dei laici (e non di “pastorali”), di associazionismo laicale ecclesiale (piuttosto che di uffici di curia e di laici ridotti ad “operatori pastorali”) è oggi più grande di ieri.]]>
Alle elezioni comunali di Terni hanno vinto i cattolici… ma si tratta degli “altri” cattolici https://www.lavoce.it/alle-elezioni-comunali-terni-vinto-cattolici-si-tratta-degli-altri-cattolici/ Sat, 14 Jul 2018 12:00:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52380 elezioni

Non è la prima volta che Terni ha un sindaco cattolico, ma è la prima volta che Terni ha un sindaco che brandisce la propria religione. A un osservatore intermittente delle cose ternane, questa vittoria potrebbe apparire una conseguenza prevedibile. A differenza di quanto era avvenuto per decenni, dalla fine degli anni ’80 alcune istituzioni ecclesiali avevano conquistato uno spazio importante nel dibattito pubblico cittadino: l’Azione cattolica e la Fuci, l’Istess, lo stesso Consiglio pastorale diocesano, infine la Chiesa locale nel suo insieme. Con il convegno del 2008 sul “futuro della città”, poi, questa presenza si era trasformata in una vera e propria leadership culturale.

Così, il nostro osservatore intermittente potrebbe immaginare che da un protagonismo culturale sia maturato un successo politico.

Però sbaglierebbe di grosso. Il cattolicesimo portato a palazzo Spada dalla maggioranza a controllo leghista è l’“altro” cattolicesimo ternano (o uno degli “altri”).

Politicamente non è di alcun interesse chiarire quale dei due sia quello “vero” o quello migliore. Si tratta invece di riconoscere che il crescente ruolo socio-culturale di una parte del cattolicesimo ternano è stato politicamente sterile, mentre un cattolicesimo senza Concilio, senza riunioni, senza programmi (nel senso proprio del termine), un cattolicesimo tutto umori e nostalgie ha avuto un ruolo politico importante e trovato spazio nella coalizione vincente. Questo cattolicesimo “altro” ha offerto una batteria di riferimenti simbolici e qualche slogan al disegno politico di Salvini (il rosario lo aveva già) e da Salvini questo cattolicesimo “altro” si è fatto scegliere come partner affidabile. Sotto questo profilo, le vittorie del centro-destra nelle due principali città umbre, quella di Romizi a Perugia e quella di Latini a Terni, non sono neppure lontane parenti. (E resterebbero tali anche se domani Romizi si accodasse a Salvini).

Cosa possiamo imparare da questa vicenda? (continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce)

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elezioni

Non è la prima volta che Terni ha un sindaco cattolico, ma è la prima volta che Terni ha un sindaco che brandisce la propria religione. A un osservatore intermittente delle cose ternane, questa vittoria potrebbe apparire una conseguenza prevedibile. A differenza di quanto era avvenuto per decenni, dalla fine degli anni ’80 alcune istituzioni ecclesiali avevano conquistato uno spazio importante nel dibattito pubblico cittadino: l’Azione cattolica e la Fuci, l’Istess, lo stesso Consiglio pastorale diocesano, infine la Chiesa locale nel suo insieme. Con il convegno del 2008 sul “futuro della città”, poi, questa presenza si era trasformata in una vera e propria leadership culturale.

Così, il nostro osservatore intermittente potrebbe immaginare che da un protagonismo culturale sia maturato un successo politico.

Però sbaglierebbe di grosso. Il cattolicesimo portato a palazzo Spada dalla maggioranza a controllo leghista è l’“altro” cattolicesimo ternano (o uno degli “altri”).

Politicamente non è di alcun interesse chiarire quale dei due sia quello “vero” o quello migliore. Si tratta invece di riconoscere che il crescente ruolo socio-culturale di una parte del cattolicesimo ternano è stato politicamente sterile, mentre un cattolicesimo senza Concilio, senza riunioni, senza programmi (nel senso proprio del termine), un cattolicesimo tutto umori e nostalgie ha avuto un ruolo politico importante e trovato spazio nella coalizione vincente. Questo cattolicesimo “altro” ha offerto una batteria di riferimenti simbolici e qualche slogan al disegno politico di Salvini (il rosario lo aveva già) e da Salvini questo cattolicesimo “altro” si è fatto scegliere come partner affidabile. Sotto questo profilo, le vittorie del centro-destra nelle due principali città umbre, quella di Romizi a Perugia e quella di Latini a Terni, non sono neppure lontane parenti. (E resterebbero tali anche se domani Romizi si accodasse a Salvini).

Cosa possiamo imparare da questa vicenda? (continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce)

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Dopo il Referendum. Nuovo attivismo dei cattolici in politica? Non proprio https://www.lavoce.it/macche-nuovo-attivismo-dei-cattolici-in-politica/ Fri, 16 Dec 2016 15:34:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=48098

Con il movimento di Todi (2011-2013), supporto superfluo allo strapotere quirinalizio (agito nel caso da Giorgio Napolitano e incarnato – maluccio – da Monti), il rapporto tra cattolici e politica è tornato ai tempi del “patto Gentiloni”. Le autorità ecclesiastiche promettono appoggio al potente di turno prestando qualche volto - ricompensato da una buona prebenda - in cambio di legislazioni o elargizioni. Non funzionò né nel 1913 né nel ’23-24, ma la coazione a ripetere è un male pressoché incurabile. Con Renzi (2013-2016) la figura dell’“indipendente” di successo ha raggiunto i suoi massimi. Renzi, giurando laicità, ha posto il giusto sigillo sull’annichilimento di ogni possibilità di “cattolicesimo politico”. “Neoclericali” o “indipendenti”, la formula è la stessa: massimo di visibilità, minimo di rilevanza. Massimo di visibilità dei cattolici in politica, minimo di rilevanza del cattolicesimo per la politica. Non facciamoci ingannare dalle apparenze. Di questa formula esiste una declinazione movimentista e una da salotto, una declinazione di destra (i “valori non negoziabili”) e una di sinistra (oggi in salsa “peronista”), ma la sostanza non cambia. Dalla vita della Chiesa è stato cancellato anche il nome dell’apostolato dei laici; e nonostante i formali ossequi al Concilio, i Pastori preferiscono indeterminate aggregazioni laicali. Così il laico crede di essere impegnato quando si impegna in “pastorale”, che invece è l’apostolato dei Pastori, e quando fa il cittadino si affida ai dogmi della laicità. Ma con la laicità il laicato cattolico evapora. Ne restano solo fumi, vaghi ricordi e cartacce come il giorno dopo sui prati che hanno ospitato i grandi raduni religiosi. Se tagli la radice, l’albero si secca. Le radici della rilevanza politica del cattolicesimo per la verità erano due. L’altra era quella del cattolicesimo politico italiano: cattolici organizzati politicamente (corrente, gruppo, partito: poco importa), autonomi da poteri ecclesiastici e da altri poteri, politici e non politici. Cattolici che fanno politica con alcuni (anche non cattolici) e in competizione con altri (anche cattolici), che hanno scopi e non hanno orrore del compromesso, ma che, sotto una certa soglia, non accettano compromessi. Liberi nella politica perché liberi dalla politica. Senza autonomia organizzativa e ideale, non si dà né autonomia in politica né selezione di gruppi dirigenti politici; insomma, non si dà rilevanza politica. Si badi, per essere rilevanti in politica non è assolutamente necessario che i cattolici siano uniti. Tanti sono stati i cattolicesimi politici. L’unico che ha sfiorato l’unità politica dei cattolici è stato il “popolare” De Gasperi (minoranza anche nella Dc) che considerò l’unità politica dei cattolici un effetto del programma, e non viceversa. Le condizioni interne e internazionali lo aiutarono non poco, ma questa è la lezione della Storia (se mai la Storia dà lezioni). Il referendum del 4 dicembre, e il suo esito - sciagurato, per chi scrive -, non è altro che la tappa più recente della irrilevanza politica del cattolicesimo italiano. La riforma era brutta e l’Italicum tutt’altro che buono, ma insieme avrebbero tenuto aperta una strada che oggi i “no” hanno sbarrato. Prima del referendum la Cei ha detto “informatevi”: che sforzo di immaginazione! La civiltà cattolica ha chiamato “discernimento” una cosa che è meglio non qualificare. Le parrocchie hanno ospitato confronti come affittano il campo da calcetto. Le “aggregazioni” hanno seguito ciascuna i propri istinti, o le rabbie, o le convenienze. Riflessioni nel merito? Zero. Iniziativa? Meno che zero. Un po’ voyerismo, un po’ opportunismo. Il risultato? Una vita ecclesiale più disincarnata, sempre più ridotta a intrattenimento religioso. Una vita politica nazionale sempre più affetta da involuzione. Venticinque anni fa, con Scoppola e Ruffilli, con la Fuci e tanta parte delle Acli e dell’Azione cattolica, con la Cisl, il cattolicesimo italiano aveva aperto e guidato la via delle riforme istituzionali, e all’inizio con successo. Il suo senso era avere meno politica e migliore politica. Il suo scopo era restituire lo scettro politico all’elettore (alternanza, competizione politica, primarie, ecc.). La resistenza della “repubblica dei partiti” si è arroccata intorno al Quirinale: dai ribaltoni di Scalfaro ai governi di Napolitano, all’attuale melina di Mattarella. Era legittimo che si difendessero, era necessario che fossero combattuti meglio. Segni, Berlusconi, Bossi, Prodi (poco), Veltroni (per un attimo) e Renzi ci hanno provato. Renzi è stato il migliore (giudizio relativo, ovviamente), ma neppure lui è stato all’altezza della prova. Ha perso. (Gli è servito recidere ogni legame con il cattolicesimo politico?). In questi venticinque anni tanti cattolici italiani si sono schierati dietro o “sotto” il Quirinale (senza pretese di rilevanza), tanti altri hanno ispirato e guidato la battaglia per le riforme. Oggi quelli stanno vincendo e questi perdendo; e così siamo tornati alla Prima Repubblica. La lezione è chiara, e per nulla nuova. In un Paese come l’Italia, senza cattolicesimo politico è difficile che si affermi una prospettiva riformista. E senza cattolicesimo politico è difficile che la ecclesia non si riduca a tempio, a intrattenimento religioso. Solo se c’è apostololato laicale c’è ecclesia.]]>

Con il movimento di Todi (2011-2013), supporto superfluo allo strapotere quirinalizio (agito nel caso da Giorgio Napolitano e incarnato – maluccio – da Monti), il rapporto tra cattolici e politica è tornato ai tempi del “patto Gentiloni”. Le autorità ecclesiastiche promettono appoggio al potente di turno prestando qualche volto - ricompensato da una buona prebenda - in cambio di legislazioni o elargizioni. Non funzionò né nel 1913 né nel ’23-24, ma la coazione a ripetere è un male pressoché incurabile. Con Renzi (2013-2016) la figura dell’“indipendente” di successo ha raggiunto i suoi massimi. Renzi, giurando laicità, ha posto il giusto sigillo sull’annichilimento di ogni possibilità di “cattolicesimo politico”. “Neoclericali” o “indipendenti”, la formula è la stessa: massimo di visibilità, minimo di rilevanza. Massimo di visibilità dei cattolici in politica, minimo di rilevanza del cattolicesimo per la politica. Non facciamoci ingannare dalle apparenze. Di questa formula esiste una declinazione movimentista e una da salotto, una declinazione di destra (i “valori non negoziabili”) e una di sinistra (oggi in salsa “peronista”), ma la sostanza non cambia. Dalla vita della Chiesa è stato cancellato anche il nome dell’apostolato dei laici; e nonostante i formali ossequi al Concilio, i Pastori preferiscono indeterminate aggregazioni laicali. Così il laico crede di essere impegnato quando si impegna in “pastorale”, che invece è l’apostolato dei Pastori, e quando fa il cittadino si affida ai dogmi della laicità. Ma con la laicità il laicato cattolico evapora. Ne restano solo fumi, vaghi ricordi e cartacce come il giorno dopo sui prati che hanno ospitato i grandi raduni religiosi. Se tagli la radice, l’albero si secca. Le radici della rilevanza politica del cattolicesimo per la verità erano due. L’altra era quella del cattolicesimo politico italiano: cattolici organizzati politicamente (corrente, gruppo, partito: poco importa), autonomi da poteri ecclesiastici e da altri poteri, politici e non politici. Cattolici che fanno politica con alcuni (anche non cattolici) e in competizione con altri (anche cattolici), che hanno scopi e non hanno orrore del compromesso, ma che, sotto una certa soglia, non accettano compromessi. Liberi nella politica perché liberi dalla politica. Senza autonomia organizzativa e ideale, non si dà né autonomia in politica né selezione di gruppi dirigenti politici; insomma, non si dà rilevanza politica. Si badi, per essere rilevanti in politica non è assolutamente necessario che i cattolici siano uniti. Tanti sono stati i cattolicesimi politici. L’unico che ha sfiorato l’unità politica dei cattolici è stato il “popolare” De Gasperi (minoranza anche nella Dc) che considerò l’unità politica dei cattolici un effetto del programma, e non viceversa. Le condizioni interne e internazionali lo aiutarono non poco, ma questa è la lezione della Storia (se mai la Storia dà lezioni). Il referendum del 4 dicembre, e il suo esito - sciagurato, per chi scrive -, non è altro che la tappa più recente della irrilevanza politica del cattolicesimo italiano. La riforma era brutta e l’Italicum tutt’altro che buono, ma insieme avrebbero tenuto aperta una strada che oggi i “no” hanno sbarrato. Prima del referendum la Cei ha detto “informatevi”: che sforzo di immaginazione! La civiltà cattolica ha chiamato “discernimento” una cosa che è meglio non qualificare. Le parrocchie hanno ospitato confronti come affittano il campo da calcetto. Le “aggregazioni” hanno seguito ciascuna i propri istinti, o le rabbie, o le convenienze. Riflessioni nel merito? Zero. Iniziativa? Meno che zero. Un po’ voyerismo, un po’ opportunismo. Il risultato? Una vita ecclesiale più disincarnata, sempre più ridotta a intrattenimento religioso. Una vita politica nazionale sempre più affetta da involuzione. Venticinque anni fa, con Scoppola e Ruffilli, con la Fuci e tanta parte delle Acli e dell’Azione cattolica, con la Cisl, il cattolicesimo italiano aveva aperto e guidato la via delle riforme istituzionali, e all’inizio con successo. Il suo senso era avere meno politica e migliore politica. Il suo scopo era restituire lo scettro politico all’elettore (alternanza, competizione politica, primarie, ecc.). La resistenza della “repubblica dei partiti” si è arroccata intorno al Quirinale: dai ribaltoni di Scalfaro ai governi di Napolitano, all’attuale melina di Mattarella. Era legittimo che si difendessero, era necessario che fossero combattuti meglio. Segni, Berlusconi, Bossi, Prodi (poco), Veltroni (per un attimo) e Renzi ci hanno provato. Renzi è stato il migliore (giudizio relativo, ovviamente), ma neppure lui è stato all’altezza della prova. Ha perso. (Gli è servito recidere ogni legame con il cattolicesimo politico?). In questi venticinque anni tanti cattolici italiani si sono schierati dietro o “sotto” il Quirinale (senza pretese di rilevanza), tanti altri hanno ispirato e guidato la battaglia per le riforme. Oggi quelli stanno vincendo e questi perdendo; e così siamo tornati alla Prima Repubblica. La lezione è chiara, e per nulla nuova. In un Paese come l’Italia, senza cattolicesimo politico è difficile che si affermi una prospettiva riformista. E senza cattolicesimo politico è difficile che la ecclesia non si riduca a tempio, a intrattenimento religioso. Solo se c’è apostololato laicale c’è ecclesia.]]>