Pier Giorgio Lignani, Autore presso LaVoce https://www.lavoce.it/author/lignani/ Settimanale di informazione regionale Wed, 20 Nov 2024 17:29:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Pier Giorgio Lignani, Autore presso LaVoce https://www.lavoce.it/author/lignani/ 32 32 Mattarella rispetta le regole del gioco https://www.lavoce.it/mattarella-rispetta-le-regole-del-gioco/ https://www.lavoce.it/mattarella-rispetta-le-regole-del-gioco/#respond Wed, 20 Nov 2024 17:29:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78609

Il presidente Mattarella ha detto che gli è capitato di mettere la sua firma sotto leggi delle quali non approvava il contenuto. La dichiarazione ha provocato scalpore, ma ci si sarebbe dovuti sorprendere se avesse detto il contrario; e cioè che lui è stato sempre d’accordo con tutto quello che ha firmato.

Le leggi le approva il Parlamento; la firma del presidente serve a certificare che quello che sta scritto proviene, appunto, da votazioni parlamentari svoltesi regolarmente ed il testo è proprio quello approvato dalle camere. Se il presidente potesse negare la sua firma perché non è pienamente d’accordo, sarebbe il terzo titolare del potere legislativo, insieme alle due camere; sarebbe una specie di terza camera, ma la costituzione non ha voluto questo (era così, invece, il re per lo Statuto albertino).

È vero che il presidente può rinviare la legge alle camere per una nuova deliberazione (dopo di che, se le camere la confermano, è obbligato a firmarla) ma da quando esiste questa regola, cioè dal 1948, le volte in cui è avvenuto si contano con le dita della mano; perché tutti gli studiosi della materia la considerano una potestà da usare in casi eccezionali.

Non si può dire neppure che la funzione del presidente sia di verificare che quella legge sia perfettamente in linea con la costituzione: questa verifica è assegnata alla Corte costituzionale, la quale si pronuncia collegialmente alla fine di un vero e proprio processo in contraddittorio.

La dichiarazione di Mattarella avrebbe fatto (giustamente) scalpore, se lui avesse detto “quali” sono le leggi che ha firmato senza condividerle; ma questo non lo ha detto e sono certo che non lo dirà mai, perché sarebbe una grave scorrettezza istituzionale.

Potrebbe farlo, forse, una volta tornato privato cittadino, ma credo che non lo farà neanche allora. Chiedo scusa se ho annoiato i lettori con questioni che sembrano riservate agli azzeccagarbugli; ma mi è sembrata una buona occasione per mostrare come funzionano quei princìpi, come la divisione dei poteri, che sono alla base del nostro sistema democratico. Dove nessuno, neppure il Capo dello Stato, può fare e dire liberamente quello che gli passa per la testa; deve invece attenersi alle regole del gioco e rispettare le funzioni che la costituzione e le leggi assegnano ad altri. I quali a loro volta dovranno regolarsi allo stesso modo.

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Il presidente Mattarella ha detto che gli è capitato di mettere la sua firma sotto leggi delle quali non approvava il contenuto. La dichiarazione ha provocato scalpore, ma ci si sarebbe dovuti sorprendere se avesse detto il contrario; e cioè che lui è stato sempre d’accordo con tutto quello che ha firmato.

Le leggi le approva il Parlamento; la firma del presidente serve a certificare che quello che sta scritto proviene, appunto, da votazioni parlamentari svoltesi regolarmente ed il testo è proprio quello approvato dalle camere. Se il presidente potesse negare la sua firma perché non è pienamente d’accordo, sarebbe il terzo titolare del potere legislativo, insieme alle due camere; sarebbe una specie di terza camera, ma la costituzione non ha voluto questo (era così, invece, il re per lo Statuto albertino).

È vero che il presidente può rinviare la legge alle camere per una nuova deliberazione (dopo di che, se le camere la confermano, è obbligato a firmarla) ma da quando esiste questa regola, cioè dal 1948, le volte in cui è avvenuto si contano con le dita della mano; perché tutti gli studiosi della materia la considerano una potestà da usare in casi eccezionali.

Non si può dire neppure che la funzione del presidente sia di verificare che quella legge sia perfettamente in linea con la costituzione: questa verifica è assegnata alla Corte costituzionale, la quale si pronuncia collegialmente alla fine di un vero e proprio processo in contraddittorio.

La dichiarazione di Mattarella avrebbe fatto (giustamente) scalpore, se lui avesse detto “quali” sono le leggi che ha firmato senza condividerle; ma questo non lo ha detto e sono certo che non lo dirà mai, perché sarebbe una grave scorrettezza istituzionale.

Potrebbe farlo, forse, una volta tornato privato cittadino, ma credo che non lo farà neanche allora. Chiedo scusa se ho annoiato i lettori con questioni che sembrano riservate agli azzeccagarbugli; ma mi è sembrata una buona occasione per mostrare come funzionano quei princìpi, come la divisione dei poteri, che sono alla base del nostro sistema democratico. Dove nessuno, neppure il Capo dello Stato, può fare e dire liberamente quello che gli passa per la testa; deve invece attenersi alle regole del gioco e rispettare le funzioni che la costituzione e le leggi assegnano ad altri. I quali a loro volta dovranno regolarsi allo stesso modo.

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Disinteressati servitori del bene comune. O no? https://www.lavoce.it/disinteressati-servitori-del-bene-comune-o-no/ https://www.lavoce.it/disinteressati-servitori-del-bene-comune-o-no/#respond Thu, 14 Nov 2024 17:10:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78598

La cronaca ripropone il tema dell’“abuso di ufficio”, che, secondo alcuni, si ravviserebbe negli atti di questo o quell’esponente politico. Senza entrare nei casi concreti, tenterò qualche spiegazione tecnica. Dunque: una caratteristica tipica degli incarichi pubblici di un certo livello è che i loro titolari hanno il compito di scegliere fra più opzioni tutte ugualmente legittime. Si chiama discrezionalità e deve essere esercitata, si capisce, avendo per guida l’interesse pubblico, non l’interesse privato del titolare o dei suoi amici.

Si suppone che chi viene designato ad una certa carica sia una persona integerrima, ma non ci si può fidare troppo. Il sistema prevede perciò alcune contromisure. Una è quella di dare il potere di fare certe scelte non ad uno solo, ma a più persone riunite (un consiglio comunale, una giunta), un’altra è far sì che la scelta passi attraverso più fasi e più sedi, in modo che ci sia un controllo reciproco e ci siano più punti di vista.  Tutto questo per avere la scelta migliore possibile per l’interesse pubblico.

La coda finale è – o meglio era fino a poche settimane fa – la giustizia penale, qualora si sospettasse che il titolare del potere lo abbia usato intenzionalmente per dare a Tizio un vantaggio che sapeva ingiusto, o per procurare a Caio un danno che sapeva ingiusto. Questo prevedeva l’art. 323 del codice penale; il quale era stato più volte modificato negli ultimi anni, ogni volta per rendere più ridotto lo spazio per la sua applicazione; l’ultima versione era tale che rendeva quasi impossibile incriminare qualcuno. Ma, a quanto pare, sembrava ancora troppo, perché l’attuale maggioranza politica ha votato la pura e semplice cancellazione dell’art. 323 e quindi del reato di abuso di ufficio (legge 9 agosto 2024, n. 114). Così sono decadute tutte le accuse e tutte le indagini pendenti. Liberi tutti.

Va notato che questo è avvenuto dopo che il sistema amministrativo era stato riformato (con una legge del 1997 e una modifica costituzionale del 2001, entrambe volute da maggioranze di centrosinistra) nel senso della abolizione dei controlli amministrativi di legittimità sugli atti delle regioni e degli enti locali. Vuol dire che la nostra classe politica – di destra e di sinistra – ha una gran fiducia nei suoi componenti quali disinteressati servitori del bene comune.

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La cronaca ripropone il tema dell’“abuso di ufficio”, che, secondo alcuni, si ravviserebbe negli atti di questo o quell’esponente politico. Senza entrare nei casi concreti, tenterò qualche spiegazione tecnica. Dunque: una caratteristica tipica degli incarichi pubblici di un certo livello è che i loro titolari hanno il compito di scegliere fra più opzioni tutte ugualmente legittime. Si chiama discrezionalità e deve essere esercitata, si capisce, avendo per guida l’interesse pubblico, non l’interesse privato del titolare o dei suoi amici.

Si suppone che chi viene designato ad una certa carica sia una persona integerrima, ma non ci si può fidare troppo. Il sistema prevede perciò alcune contromisure. Una è quella di dare il potere di fare certe scelte non ad uno solo, ma a più persone riunite (un consiglio comunale, una giunta), un’altra è far sì che la scelta passi attraverso più fasi e più sedi, in modo che ci sia un controllo reciproco e ci siano più punti di vista.  Tutto questo per avere la scelta migliore possibile per l’interesse pubblico.

La coda finale è – o meglio era fino a poche settimane fa – la giustizia penale, qualora si sospettasse che il titolare del potere lo abbia usato intenzionalmente per dare a Tizio un vantaggio che sapeva ingiusto, o per procurare a Caio un danno che sapeva ingiusto. Questo prevedeva l’art. 323 del codice penale; il quale era stato più volte modificato negli ultimi anni, ogni volta per rendere più ridotto lo spazio per la sua applicazione; l’ultima versione era tale che rendeva quasi impossibile incriminare qualcuno. Ma, a quanto pare, sembrava ancora troppo, perché l’attuale maggioranza politica ha votato la pura e semplice cancellazione dell’art. 323 e quindi del reato di abuso di ufficio (legge 9 agosto 2024, n. 114). Così sono decadute tutte le accuse e tutte le indagini pendenti. Liberi tutti.

Va notato che questo è avvenuto dopo che il sistema amministrativo era stato riformato (con una legge del 1997 e una modifica costituzionale del 2001, entrambe volute da maggioranze di centrosinistra) nel senso della abolizione dei controlli amministrativi di legittimità sugli atti delle regioni e degli enti locali. Vuol dire che la nostra classe politica – di destra e di sinistra – ha una gran fiducia nei suoi componenti quali disinteressati servitori del bene comune.

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Il pasticcio… governo magistratura https://www.lavoce.it/il-pasticcio-governo-magistratura/ https://www.lavoce.it/il-pasticcio-governo-magistratura/#respond Sat, 09 Nov 2024 16:04:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78507

Vediamo di capire qualche cosa del pasticcio che sta creando un contrasto fra il Governo italiano e la magistratura. In linea di principio, ogni Stato ha il potere di selezionare gli stranieri che vogliono entrare nel suo territorio, e di respingere alla frontiera quelli che non hanno i permessi in regola, o addirittura non hanno affatto documenti.

È stato sempre così. Nel tempo, sono intervenute diverse convenzioni internazionali, di livelli diversi, che hanno stabilito eccezioni in favore dei soggetti più deboli. Così, è vietato rigettare alla frontiera quelli che sono in pericolo di vita (è il caso dei naufraghi dei barconi); vanno messi in salvo e poi si penserà a rimpatriarli. Poi ci sono le convenzioni a protezione dei rifugiati, ossia di quelli che chiedono asilo politico; se ne hanno i requisiti, debbono essere accolti e protetti.

Il problema è che in genere chi si presenta per chiedere asilo non ha con sé nessun documento e di lui si sa solo quello che racconta. Perciò è inevitabile spendere un po’ di tempo (che a volte può essere anche molto) per fare le verifiche del caso. Intanto, il richiedente asilo non può essere espulso; però c’è un altro problema: se rimane libero, c'è il rischio che si eclissi e non si faccia più trovare.

Allora le convenzioni internazionali – e le direttive della UE che sono assai minuziose – consentono che in questo intervallo il richiedente asilo sia internato in un apposito centro di permanenza, diciamo una specie di carcere (come quelli che la Meloni ha fatto fare in Albania). Inoltre, questo internamento deve essere convalidato dall’autorità giudiziaria: questo lo chiede la nostra Costituzione perché è un provvedimento che incide sulla libertà personale.

Il giudice cui spetta emettere questa convalida deve verificare che ci siano tutte le condizioni richieste per mettere sotto chiave quelle persone; e deve farlo avendo riguardo alle leggi nazionali ma anche alle convenzioni internazionali e alle direttive della UE. Queste ultime sono quelle che pesano di più, perché se c’è un contrasto fra loro e la legge nazionale, prevalgono di diritto quelle europee. Se c’è un dubbio di interpretazione, il giudice deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia della UE, che ha sede a Lussemburgo (e intanto il richiedente asilo è a piede libero). Il tutto non è un bel pasticcio?

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Vediamo di capire qualche cosa del pasticcio che sta creando un contrasto fra il Governo italiano e la magistratura. In linea di principio, ogni Stato ha il potere di selezionare gli stranieri che vogliono entrare nel suo territorio, e di respingere alla frontiera quelli che non hanno i permessi in regola, o addirittura non hanno affatto documenti.

È stato sempre così. Nel tempo, sono intervenute diverse convenzioni internazionali, di livelli diversi, che hanno stabilito eccezioni in favore dei soggetti più deboli. Così, è vietato rigettare alla frontiera quelli che sono in pericolo di vita (è il caso dei naufraghi dei barconi); vanno messi in salvo e poi si penserà a rimpatriarli. Poi ci sono le convenzioni a protezione dei rifugiati, ossia di quelli che chiedono asilo politico; se ne hanno i requisiti, debbono essere accolti e protetti.

Il problema è che in genere chi si presenta per chiedere asilo non ha con sé nessun documento e di lui si sa solo quello che racconta. Perciò è inevitabile spendere un po’ di tempo (che a volte può essere anche molto) per fare le verifiche del caso. Intanto, il richiedente asilo non può essere espulso; però c’è un altro problema: se rimane libero, c'è il rischio che si eclissi e non si faccia più trovare.

Allora le convenzioni internazionali – e le direttive della UE che sono assai minuziose – consentono che in questo intervallo il richiedente asilo sia internato in un apposito centro di permanenza, diciamo una specie di carcere (come quelli che la Meloni ha fatto fare in Albania). Inoltre, questo internamento deve essere convalidato dall’autorità giudiziaria: questo lo chiede la nostra Costituzione perché è un provvedimento che incide sulla libertà personale.

Il giudice cui spetta emettere questa convalida deve verificare che ci siano tutte le condizioni richieste per mettere sotto chiave quelle persone; e deve farlo avendo riguardo alle leggi nazionali ma anche alle convenzioni internazionali e alle direttive della UE. Queste ultime sono quelle che pesano di più, perché se c’è un contrasto fra loro e la legge nazionale, prevalgono di diritto quelle europee. Se c’è un dubbio di interpretazione, il giudice deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia della UE, che ha sede a Lussemburgo (e intanto il richiedente asilo è a piede libero). Il tutto non è un bel pasticcio?

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Ridateci i politici di professione https://www.lavoce.it/ridateci-i-politici-di-professione/ https://www.lavoce.it/ridateci-i-politici-di-professione/#respond Thu, 31 Oct 2024 08:00:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78365

Il celebre sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), fra i molti suoi scritti ancora studiati, pubblicò nel 1919 il saggio La politica come professione. Non perdeva tempo a discutere se sia un bene o un male che a fare politica sia gente che lo fa per mestiere; registrava che questo accade, così come ci sono professionisti dell’insegnamento e della ricerca scientifica; si chiedeva, semmai, quali requisiti debba avere un buon professionista della politica e a quali valori etici si debba ispirare.

Per quanto ci riguarda, ricordando personalità come Alcide De Gasperi o Sandro Pertini non avremmo nulla da obiettare a che ci siano politici di professione. Ma più di recente sono sorte in Italia chiassose correnti di opinione, dette di “antipolitica”; la più chiassosa era quella che racchiudeva il suo pensiero sui politici in una sola parola: “vaff…”.

Era il movimento grillista, o grillino, dal nome del suo fondatore. Il suo obiettivo dichiarato era il superamento della democrazia rappresentativa, da sostituire con un sistema di consultazione permanente degli elettori tramite una piattaforma Internet; nel frattempo, la degradazione di deputati e senatori a semplici “portavoce”, eleggibili per non più di due mandati, indipendentemente dal livello istituzionale; la drastica limitazione delle relative indennità e l’abolizione degli assegni “vitalizi” previsti per chi ha esaurito il mandato per cui è stato eletto. Grazie a queste proposte, e ad altre simili, alle elezioni politiche del 2018 quel movimento riportò la maggioranza relativa e fu l’asse portante di due governi consecutivi, peraltro l’uno il contrario dell’altro quanto a orientamento politico. Un bel successo di “antipolitica”.

Si sa come è andata a finire: la grande maggioranza dei “portavoce” eletti da quel gruppo tenne comportamenti che avrebbero fatto arrossire, o impallidire, i più navigati carrieristi della vecchia politica. Poi il leggendario fondatore eponimo del movimento accettò di lasciarne le redini a un altro leader, quello che era divenuto capo del Governo senza che nessuno lo avesse votato, né con le schede né con i click su Internet; per cedere il suo ruolo, lo stesso fondatore pretese, e per un po’ ottenne, un “vitalizio” di 300.000 euro annui. Come dicono a Roma, aridatece Max Weber, i suoi politici di professione e la sua serissima visione etica.

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Il celebre sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), fra i molti suoi scritti ancora studiati, pubblicò nel 1919 il saggio La politica come professione. Non perdeva tempo a discutere se sia un bene o un male che a fare politica sia gente che lo fa per mestiere; registrava che questo accade, così come ci sono professionisti dell’insegnamento e della ricerca scientifica; si chiedeva, semmai, quali requisiti debba avere un buon professionista della politica e a quali valori etici si debba ispirare.

Per quanto ci riguarda, ricordando personalità come Alcide De Gasperi o Sandro Pertini non avremmo nulla da obiettare a che ci siano politici di professione. Ma più di recente sono sorte in Italia chiassose correnti di opinione, dette di “antipolitica”; la più chiassosa era quella che racchiudeva il suo pensiero sui politici in una sola parola: “vaff…”.

Era il movimento grillista, o grillino, dal nome del suo fondatore. Il suo obiettivo dichiarato era il superamento della democrazia rappresentativa, da sostituire con un sistema di consultazione permanente degli elettori tramite una piattaforma Internet; nel frattempo, la degradazione di deputati e senatori a semplici “portavoce”, eleggibili per non più di due mandati, indipendentemente dal livello istituzionale; la drastica limitazione delle relative indennità e l’abolizione degli assegni “vitalizi” previsti per chi ha esaurito il mandato per cui è stato eletto. Grazie a queste proposte, e ad altre simili, alle elezioni politiche del 2018 quel movimento riportò la maggioranza relativa e fu l’asse portante di due governi consecutivi, peraltro l’uno il contrario dell’altro quanto a orientamento politico. Un bel successo di “antipolitica”.

Si sa come è andata a finire: la grande maggioranza dei “portavoce” eletti da quel gruppo tenne comportamenti che avrebbero fatto arrossire, o impallidire, i più navigati carrieristi della vecchia politica. Poi il leggendario fondatore eponimo del movimento accettò di lasciarne le redini a un altro leader, quello che era divenuto capo del Governo senza che nessuno lo avesse votato, né con le schede né con i click su Internet; per cedere il suo ruolo, lo stesso fondatore pretese, e per un po’ ottenne, un “vitalizio” di 300.000 euro annui. Come dicono a Roma, aridatece Max Weber, i suoi politici di professione e la sua serissima visione etica.

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Magistrati e politici, tutti sotto la legge https://www.lavoce.it/magistrati-e-politici-tutti-sotto-la-legge/ https://www.lavoce.it/magistrati-e-politici-tutti-sotto-la-legge/#respond Fri, 25 Oct 2024 09:30:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78250

Ancora una volta, si è aperto uno scontro fra il Governo e la magistratura. Perché il Governo aveva disposto che un certo numero di immigrati richiedenti asilo fosse trattenuto, in stato di semidetenzione, in un centro di soggiorno. Tutti sapevano che un provvedimento di questo tipo, che incide sulla libertà personale, per essere eseguito ha bisogno di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. La quale si deve pronunciare sulla base di regole assai complesse e delicate – molte delle quali stabilite dalla normativa dell’Unione Europea e interpretate dall’apposita Corte di Giustizia.

Dal momento che l’approvazione della magistratura era necessaria – su questo non c’è dubbio – si doveva pur mettere nel conto la possibilità che il magistrato competente dicesse no; e così è stato. Non a capocchia; il provvedimento è motivato. È una decisione che tecnicamente può essere giusta o sbagliata; è consentito appellarsi, e qualcun altro deciderà.

Quello che assolutamente non si può dire è che la magistratura sia andata fuori della propria sfera di competenza e abbia invaso quella del potere esecutivo. Una delle leggi più importanti della storia d’Italia, la n. 2248 del 20 marzo 1865, ancora in vigore, stabilisce che quando sono in gioco i diritti civili e politici delle persone – e questo è il caso – i giudici possono (devono) “disapplicare” gli atti del potere esecutivo se non sono conformi alle leggi. E non importa se il potere esecutivo è eletto dal popolo e i giudici no. Si chiama principio dello “stato di diritto” e della separazione dei poteri, ovvero del loro bilanciamento. Lo ammettevano anche Vittorio Emanuele II e i suoi ministri, i quali erano di quel partito che è ricordato con il nome – guarda un po’ – di “destra storica”.

E poi, nel 1865 non esistevano ancora l'Unione Europea, né le carte (e le corti) sovranazionali per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; cioè quei superpoteri che hanno il compito di garantire il rispetto dei diritti di chiunque nei confronti degli stati, al di sopra persino delle legislazioni dei singoli paesi, se occorre. Poi, la singola decisione di un singolo magistrato può essere tecnicamente discutibile; ma i princìpi rimangono. È anche vero che i magistrati come persone dovrebbero stare più attenti, quando parlano di politica in privato, a non fornire pretesti a chi li accusa di essere di parte.

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Ancora una volta, si è aperto uno scontro fra il Governo e la magistratura. Perché il Governo aveva disposto che un certo numero di immigrati richiedenti asilo fosse trattenuto, in stato di semidetenzione, in un centro di soggiorno. Tutti sapevano che un provvedimento di questo tipo, che incide sulla libertà personale, per essere eseguito ha bisogno di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. La quale si deve pronunciare sulla base di regole assai complesse e delicate – molte delle quali stabilite dalla normativa dell’Unione Europea e interpretate dall’apposita Corte di Giustizia.

Dal momento che l’approvazione della magistratura era necessaria – su questo non c’è dubbio – si doveva pur mettere nel conto la possibilità che il magistrato competente dicesse no; e così è stato. Non a capocchia; il provvedimento è motivato. È una decisione che tecnicamente può essere giusta o sbagliata; è consentito appellarsi, e qualcun altro deciderà.

Quello che assolutamente non si può dire è che la magistratura sia andata fuori della propria sfera di competenza e abbia invaso quella del potere esecutivo. Una delle leggi più importanti della storia d’Italia, la n. 2248 del 20 marzo 1865, ancora in vigore, stabilisce che quando sono in gioco i diritti civili e politici delle persone – e questo è il caso – i giudici possono (devono) “disapplicare” gli atti del potere esecutivo se non sono conformi alle leggi. E non importa se il potere esecutivo è eletto dal popolo e i giudici no. Si chiama principio dello “stato di diritto” e della separazione dei poteri, ovvero del loro bilanciamento. Lo ammettevano anche Vittorio Emanuele II e i suoi ministri, i quali erano di quel partito che è ricordato con il nome – guarda un po’ – di “destra storica”.

E poi, nel 1865 non esistevano ancora l'Unione Europea, né le carte (e le corti) sovranazionali per la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; cioè quei superpoteri che hanno il compito di garantire il rispetto dei diritti di chiunque nei confronti degli stati, al di sopra persino delle legislazioni dei singoli paesi, se occorre. Poi, la singola decisione di un singolo magistrato può essere tecnicamente discutibile; ma i princìpi rimangono. È anche vero che i magistrati come persone dovrebbero stare più attenti, quando parlano di politica in privato, a non fornire pretesti a chi li accusa di essere di parte.

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Il Nobel e l’incubo atomica https://www.lavoce.it/il-nobel-e-lincubo-atomica/ https://www.lavoce.it/il-nobel-e-lincubo-atomica/#respond Thu, 17 Oct 2024 07:00:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78008

Il premio Nobel per la Pace 2024 è stato assegnato, dall’apposito comitato norvegese, ad una associazione giapponese istituita dai sopravvissuti ai bombardamenti atomici del 1945; e tuttora presente e attiva anche ad opera di altri benemeriti cittadini. Lo scopo dell’organismo premiato è quello di tener viva la memoria di quegli orrori, non per coltivare vendetta ma per promuovere in tutto il mondo il rifiuto totale e irrevocabile delle armi atomiche e nucleari. È facile intuire che il comitato del premio non ha inteso riferirsi ai risultati raggiunti (purtroppo nulli), quanto esprimere un forte richiamo all’opinione pubblica mondiale, in un momento nel quale vari governi hanno minacciato di fare impiego dei loro arsenali nucleari.

Tutti sanno che lo scoppio di una guerra atomica sarebbe la fine dell’umanità, anzi dell’intero pianeta; e non per modo di dire. A questo punto, fra persone di buon senso, ci diciamo: bisognerebbe che in tutto il mondo si vietasse non solo l’impiego, ma anche la semplice predisposizione delle armi nucleari; e magari di tutte le armi da guerra in genere. L’idea sarebbe bellissima; ma perché nessuno fa un passo in questa direzione? Provo a dare una risposta.

Perché non esiste al mondo una autorità sovranazionale che abbia il potere di emanare una decisione di questo tipo con valore vincolante per tutti i governi del mondo; e, di più, che una volta emanata, abbia anche la forza reale di costringere tutti ad applicarla. L’autorità sovranazionale più alta che abbiamo è l’Onu; ma la sua capacità di emanare decisioni vincolanti per i governi è minima, anche se non inesistente. Tuttavia riguardo al conflitto israelo-palestinese qualche risoluzione vincolante via via è stata adottata; ma il governo israeliano non le ha recepite.

Sul fronte fra Israele e Libano è presente da tempo una forza armata dell’Onu – i famosi caschi blu, in questo caso con reparti anche dell’esercito italiano – uno dei rarissimi casi nei quali l’Onu è stata in grado di mettere le sue forze sul terreno, appena l’ombra di quello che ci si aspetterebbe da un’autorità sovranazionale degna di questo nome. Ma in questi giorni l’esercito israeliano ha attaccato i caschi blu sul territorio libanese. Non ha fatto – per ora – danni gravi. Ma è l’ennesima prova di quanto sia lontano il sogno di una pace mondiale garantita solo dalla forza morale.

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Il premio Nobel per la Pace 2024 è stato assegnato, dall’apposito comitato norvegese, ad una associazione giapponese istituita dai sopravvissuti ai bombardamenti atomici del 1945; e tuttora presente e attiva anche ad opera di altri benemeriti cittadini. Lo scopo dell’organismo premiato è quello di tener viva la memoria di quegli orrori, non per coltivare vendetta ma per promuovere in tutto il mondo il rifiuto totale e irrevocabile delle armi atomiche e nucleari. È facile intuire che il comitato del premio non ha inteso riferirsi ai risultati raggiunti (purtroppo nulli), quanto esprimere un forte richiamo all’opinione pubblica mondiale, in un momento nel quale vari governi hanno minacciato di fare impiego dei loro arsenali nucleari.

Tutti sanno che lo scoppio di una guerra atomica sarebbe la fine dell’umanità, anzi dell’intero pianeta; e non per modo di dire. A questo punto, fra persone di buon senso, ci diciamo: bisognerebbe che in tutto il mondo si vietasse non solo l’impiego, ma anche la semplice predisposizione delle armi nucleari; e magari di tutte le armi da guerra in genere. L’idea sarebbe bellissima; ma perché nessuno fa un passo in questa direzione? Provo a dare una risposta.

Perché non esiste al mondo una autorità sovranazionale che abbia il potere di emanare una decisione di questo tipo con valore vincolante per tutti i governi del mondo; e, di più, che una volta emanata, abbia anche la forza reale di costringere tutti ad applicarla. L’autorità sovranazionale più alta che abbiamo è l’Onu; ma la sua capacità di emanare decisioni vincolanti per i governi è minima, anche se non inesistente. Tuttavia riguardo al conflitto israelo-palestinese qualche risoluzione vincolante via via è stata adottata; ma il governo israeliano non le ha recepite.

Sul fronte fra Israele e Libano è presente da tempo una forza armata dell’Onu – i famosi caschi blu, in questo caso con reparti anche dell’esercito italiano – uno dei rarissimi casi nei quali l’Onu è stata in grado di mettere le sue forze sul terreno, appena l’ombra di quello che ci si aspetterebbe da un’autorità sovranazionale degna di questo nome. Ma in questi giorni l’esercito israeliano ha attaccato i caschi blu sul territorio libanese. Non ha fatto – per ora – danni gravi. Ma è l’ennesima prova di quanto sia lontano il sogno di una pace mondiale garantita solo dalla forza morale.

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Chi lo dice è bugiardo e disonesto https://www.lavoce.it/chi-lo-dice-e-bugiardo-e-disonesto/ https://www.lavoce.it/chi-lo-dice-e-bugiardo-e-disonesto/#respond Thu, 10 Oct 2024 13:52:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77905

In autunno arrivano i primi freddi e le giornate corte, si pensa all’inverno incombente. Fra le tristezze di stagione c’è anche l’attesa della nuova legge finanziaria, quel provvedimento che dovrebbe rimettere un po’ di ordine nei conti dello Stato – risultato che non si raggiunge mai. Qual è il problema? Che lo Stato italiano, si sa, è uno dei più indebitati del mondo, in rapporto al suo prodotto interno lordo. In questo momento il debito pubblico è – arrotondando – di tremila miliardi di euro. Una cifra da capogiro. Ci si può consolare che tutto o quasi questo debito è rappresentato da titoli che li possiede preferisce tenere in cassaforte e rinnovare alla scadenza, anziché chiederne l’incasso (se lo facessero, sarebbe il fallimento). Ma è una magra consolazione, perché gli interessi, invece, bisogna pagarli. Quindi ogni anno, quando si avvicina il momento di fare i preventivi, il ministro delle Finanze comincia ad accennare ai sacrifici che qualcuno dovrà pur fare. Lo ha fatto anche il ministro in carica, Giorgetti; ma i leader della maggioranza lo hanno zittito: quello schieramento politico non può, non deve, parlare di sacrifici. Non è quello che da trenta anni promette “meno tasse per tutti”? Slogan bugiardo e disonesto. Bugiardo, perché la promessa non è stata mantenuta; disonesto, perché è una promessa che nessuno Stato moderno può fare, da quando è entrato nella coscienza collettiva, e nelle aspettative di tutti, il principio che lo Stato deve provvedere ai bisogni primari dei cittadini. Perché la società nel suo insieme funziona meglio – anche dal punto di vista economico e quindi nell’interesse di tutti – se un certo livello di benessere di base è garantito a tutti (si chiama infatti welfare state, stato del benessere). Quindi la sanità, l’istruzione, la viabilità, i trasporti, l’assistenza ai disabili e agli anziani. È bugiardo e disonesto dipingere questo Stato come quello che “mette le mani nelle tasche dei cittadini” perché quello che prende poi lo restituisce in altra forma; per semplificare al massimo, diciamo che non ci sarebbe la folla a fare spese nei centri commerciali, per la gioia degli esercenti, se le famiglie dovessero preoccuparsi di mettere i soldi nel salvadanaio per i giorni in cui si dovranno pagare le medicine e i ricoveri in ospedale. Come insegnavano a quelli che hanno adesso la mia età, quando eravamo bambini.]]>

In autunno arrivano i primi freddi e le giornate corte, si pensa all’inverno incombente. Fra le tristezze di stagione c’è anche l’attesa della nuova legge finanziaria, quel provvedimento che dovrebbe rimettere un po’ di ordine nei conti dello Stato – risultato che non si raggiunge mai. Qual è il problema? Che lo Stato italiano, si sa, è uno dei più indebitati del mondo, in rapporto al suo prodotto interno lordo. In questo momento il debito pubblico è – arrotondando – di tremila miliardi di euro. Una cifra da capogiro. Ci si può consolare che tutto o quasi questo debito è rappresentato da titoli che li possiede preferisce tenere in cassaforte e rinnovare alla scadenza, anziché chiederne l’incasso (se lo facessero, sarebbe il fallimento). Ma è una magra consolazione, perché gli interessi, invece, bisogna pagarli. Quindi ogni anno, quando si avvicina il momento di fare i preventivi, il ministro delle Finanze comincia ad accennare ai sacrifici che qualcuno dovrà pur fare. Lo ha fatto anche il ministro in carica, Giorgetti; ma i leader della maggioranza lo hanno zittito: quello schieramento politico non può, non deve, parlare di sacrifici. Non è quello che da trenta anni promette “meno tasse per tutti”? Slogan bugiardo e disonesto. Bugiardo, perché la promessa non è stata mantenuta; disonesto, perché è una promessa che nessuno Stato moderno può fare, da quando è entrato nella coscienza collettiva, e nelle aspettative di tutti, il principio che lo Stato deve provvedere ai bisogni primari dei cittadini. Perché la società nel suo insieme funziona meglio – anche dal punto di vista economico e quindi nell’interesse di tutti – se un certo livello di benessere di base è garantito a tutti (si chiama infatti welfare state, stato del benessere). Quindi la sanità, l’istruzione, la viabilità, i trasporti, l’assistenza ai disabili e agli anziani. È bugiardo e disonesto dipingere questo Stato come quello che “mette le mani nelle tasche dei cittadini” perché quello che prende poi lo restituisce in altra forma; per semplificare al massimo, diciamo che non ci sarebbe la folla a fare spese nei centri commerciali, per la gioia degli esercenti, se le famiglie dovessero preoccuparsi di mettere i soldi nel salvadanaio per i giorni in cui si dovranno pagare le medicine e i ricoveri in ospedale. Come insegnavano a quelli che hanno adesso la mia età, quando eravamo bambini.]]>
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I confini non sono “sacri” ma necessari https://www.lavoce.it/i-confini-non-sono-sacri-ma-necessari/ https://www.lavoce.it/i-confini-non-sono-sacri-ma-necessari/#respond Wed, 02 Oct 2024 17:00:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77823

La settimana scorsa ho redarguito Matteo Salvini (si fa per dire: a lui non può importargliene di meno, ammesso che lo venga mai a sapere) perché si era vantato di avere difeso i sacri confini della Patria. Ma l’ho fatto perché ne aveva parlato vergognosamente a sproposito; altrimenti il valore dei confini nazionali e della loro difesa va preso molto sul serio. Nei rapporti fra privati cittadini, uno dei fattori più importanti per una convivenza pacifica è la certezza del diritto; ossia che ciascuno possa sapere che cosa è suo e che cosa è di altri; che cosa può chiedere, e a chi, e che cosa deve dare, e a chi. E che insieme a queste certezze abbia anche la fiducia che gli altri rispetteranno i suoi diritti quanto lui rispetterà i loro. Questi concetti – fatte le dovute proporzioni – valgono anche nei rapporti fra gli Stati. Da questo punto di vista, la certezza dei confini e la possibilità di fidarsi che saranno rispettati sono essenziali garanzie di pace, fino a che durano. Al mondo ci sono circa 200 Stati (la cifra è approssimativa perché alcune situazioni sono ancora in via di definizione, come quella dell’Autorità nazionale palestinese); in termini di estensione territoriale il più grande è la Russia, il più piccolo il Vaticano. Ma per il diritto internazionale hanno tutti la stessa dignità e gli stessi diritti; a partire dal diritto sul proprio territorio e al rispetto dei propri confini. Questi, una volta che gli Stati interessati li hanno concordati formalmente o li hanno riconosciuti di fatto, possono essere modificati solo consensualmente. Se uno Stato invade con la forza il territorio di un altro Stato – come l’Italia nel 1940 con la Grecia o la Russia nel 2022 con l’Ucraina – questo è un atto di guerra, e chi è stato aggredito ha il diritto di reagire. Come tutte le regole del diritto, anche questa protegge il più debole dalla prepotenza del più forte; altrimenti trionferebbe il paradosso – che Platone in uno dei suoi dialoghi mette in bocca all’immaginario personaggio Callicle – secondo cui è legge di natura che il forte vinca sul debole, e se è legge di natura è giusto che vada così. Invece non è giusto che il forte prevalga solo perché è il più forte. Non è questo il mondo che vogliamo. Faccio con amarezza queste riflessioni mentre in Medio Oriente (e altrove) i confini vengono travolti da eserciti in movimento.]]>

La settimana scorsa ho redarguito Matteo Salvini (si fa per dire: a lui non può importargliene di meno, ammesso che lo venga mai a sapere) perché si era vantato di avere difeso i sacri confini della Patria. Ma l’ho fatto perché ne aveva parlato vergognosamente a sproposito; altrimenti il valore dei confini nazionali e della loro difesa va preso molto sul serio. Nei rapporti fra privati cittadini, uno dei fattori più importanti per una convivenza pacifica è la certezza del diritto; ossia che ciascuno possa sapere che cosa è suo e che cosa è di altri; che cosa può chiedere, e a chi, e che cosa deve dare, e a chi. E che insieme a queste certezze abbia anche la fiducia che gli altri rispetteranno i suoi diritti quanto lui rispetterà i loro. Questi concetti – fatte le dovute proporzioni – valgono anche nei rapporti fra gli Stati. Da questo punto di vista, la certezza dei confini e la possibilità di fidarsi che saranno rispettati sono essenziali garanzie di pace, fino a che durano. Al mondo ci sono circa 200 Stati (la cifra è approssimativa perché alcune situazioni sono ancora in via di definizione, come quella dell’Autorità nazionale palestinese); in termini di estensione territoriale il più grande è la Russia, il più piccolo il Vaticano. Ma per il diritto internazionale hanno tutti la stessa dignità e gli stessi diritti; a partire dal diritto sul proprio territorio e al rispetto dei propri confini. Questi, una volta che gli Stati interessati li hanno concordati formalmente o li hanno riconosciuti di fatto, possono essere modificati solo consensualmente. Se uno Stato invade con la forza il territorio di un altro Stato – come l’Italia nel 1940 con la Grecia o la Russia nel 2022 con l’Ucraina – questo è un atto di guerra, e chi è stato aggredito ha il diritto di reagire. Come tutte le regole del diritto, anche questa protegge il più debole dalla prepotenza del più forte; altrimenti trionferebbe il paradosso – che Platone in uno dei suoi dialoghi mette in bocca all’immaginario personaggio Callicle – secondo cui è legge di natura che il forte vinca sul debole, e se è legge di natura è giusto che vada così. Invece non è giusto che il forte prevalga solo perché è il più forte. Non è questo il mondo che vogliamo. Faccio con amarezza queste riflessioni mentre in Medio Oriente (e altrove) i confini vengono travolti da eserciti in movimento.]]>
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Salvini. Alla fine c’è il giudizio https://www.lavoce.it/salvini-alla-fine-ce-il-giudizio/ https://www.lavoce.it/salvini-alla-fine-ce-il-giudizio/#respond Thu, 26 Sep 2024 20:02:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77765

Mentre scrivo, non si sa ancora come finirà il processo penale davanti ad un tribunale siciliano, che vede come imputato Matteo Salvini, per gli ordini dati, come ministro dell’Interno, nell’agosto 2019, riguardo allo sbarco di alcune decine di profughi nel porto di Lampedusa. Non saprei azzardare pronostici, e non servirebbe a nulla: decideranno i giudici e poi ci saranno altri gradi di giudizio.

Le questioni sono diverse, e complesse. Il giudizio potrebbe cambiare a seconda di come si interpretano le norme che regolano la materia della immigrazione e quelle sul soccorso in mare; le prime sono nella legislazione nazionale, le seconde sono in convenzioni internazionali che l’Italia ha firmato. Si può discutere se, in caso di apparente contrasto, prevalgano le une o le altre. Ma, supposto che le questioni alle quali ho adesso fatto cenno si risolvano nel senso che Salvini aveva torto e che i naufraghi dovevano essere accolti senza ritardo, resterebbe ancora da giudicare se le decisioni di Salvini, oltre che invalide e annullabili in sede amministrativa, siano altresì punibili in sede penale. Sono due piani di giudizio distinti, ed è giusto che sia così.

Ci sono poi altri piani di giudizio a loro volta distinti: quello dell’eventuale risarcimento dei danni – e si dovrebbe ancora vedere se pagarlo tocchi allo Stato o personalmente al Salvini - e infine il piano del giudizio politico, che è di competenza del Parlamento (e questo si è già pronunciato contro Salvini, ma prima che le Camere venissero rinnovate nel 2022, oggi sarebbe diverso). Ma se, in ipotesi estrema, tutte le questioni elencate si risolvessero nel senso migliore per Salvini, c’è ancora un punto sul quale mi sento di dargli torto, sul piano morale. E’ quando lui si vanta di essere accusato di “avere difeso i sacri confini della Patria”.

Difeso da chi? Da un esercito con carri armati e missili – come quello che il suo amico Putin ha scatenato contro Kiev? Da una multinazionale del terrorismo? No: da un pugno di poveracci privi di tutto, sul punto di morire di fame o annegati, fuggiti da condizioni di vita insopportabili. Erano quelli i “nemici” che Salvini si vanta di avere cercato di ributtare indietro. Capisco che sono solo parole, capisco la retorica politica. Ma un minimo di pudore, di senso del limite, di rispetto della verità, ci vuole anche se si fa un comizio.

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Mentre scrivo, non si sa ancora come finirà il processo penale davanti ad un tribunale siciliano, che vede come imputato Matteo Salvini, per gli ordini dati, come ministro dell’Interno, nell’agosto 2019, riguardo allo sbarco di alcune decine di profughi nel porto di Lampedusa. Non saprei azzardare pronostici, e non servirebbe a nulla: decideranno i giudici e poi ci saranno altri gradi di giudizio.

Le questioni sono diverse, e complesse. Il giudizio potrebbe cambiare a seconda di come si interpretano le norme che regolano la materia della immigrazione e quelle sul soccorso in mare; le prime sono nella legislazione nazionale, le seconde sono in convenzioni internazionali che l’Italia ha firmato. Si può discutere se, in caso di apparente contrasto, prevalgano le une o le altre. Ma, supposto che le questioni alle quali ho adesso fatto cenno si risolvano nel senso che Salvini aveva torto e che i naufraghi dovevano essere accolti senza ritardo, resterebbe ancora da giudicare se le decisioni di Salvini, oltre che invalide e annullabili in sede amministrativa, siano altresì punibili in sede penale. Sono due piani di giudizio distinti, ed è giusto che sia così.

Ci sono poi altri piani di giudizio a loro volta distinti: quello dell’eventuale risarcimento dei danni – e si dovrebbe ancora vedere se pagarlo tocchi allo Stato o personalmente al Salvini - e infine il piano del giudizio politico, che è di competenza del Parlamento (e questo si è già pronunciato contro Salvini, ma prima che le Camere venissero rinnovate nel 2022, oggi sarebbe diverso). Ma se, in ipotesi estrema, tutte le questioni elencate si risolvessero nel senso migliore per Salvini, c’è ancora un punto sul quale mi sento di dargli torto, sul piano morale. E’ quando lui si vanta di essere accusato di “avere difeso i sacri confini della Patria”.

Difeso da chi? Da un esercito con carri armati e missili – come quello che il suo amico Putin ha scatenato contro Kiev? Da una multinazionale del terrorismo? No: da un pugno di poveracci privi di tutto, sul punto di morire di fame o annegati, fuggiti da condizioni di vita insopportabili. Erano quelli i “nemici” che Salvini si vanta di avere cercato di ributtare indietro. Capisco che sono solo parole, capisco la retorica politica. Ma un minimo di pudore, di senso del limite, di rispetto della verità, ci vuole anche se si fa un comizio.

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Il Papa, Biden/Harris e Trump https://www.lavoce.it/il-papa-biden-harris-e-trump/ https://www.lavoce.it/il-papa-biden-harris-e-trump/#respond Wed, 18 Sep 2024 12:00:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77600 A sinistra Donald Trump a destra Kamala Harris sul palco blu nel corso dell'ultimo confronto televisivo verso le elezioni americane

Se il papa (Pio IX nel 1854) dichiara che, per una singolare grazia di Dio, Maria Santissima è stata, sin dal concepimento, immune dalla macchia del peccato originale che invece affligge l’intera umanità, dice una verità di fede che può essere accolta solo da chi crede in Dio, nell’autorità del papa e nella dottrina in materia di peccato originale; per gli altri sono parole di cui neppure colgono il senso.

Se invece il papa (Francesco nel 2024) dice che l’aborto è l'uccisione di un essere umano, non si scappa: è una verità oggettiva, un dato di fatto, negarlo è come dire che la Terra è piatta; la fede nel soprannaturale non c’entra nulla. Dopo, si potrà discutere se, quando, in quali casi e a quali condizioni, quel fatto si possa considerare lecito o almeno perdonabile, dal punto di vista morale e da quello legale (due punti di vista che non necessariamente coincidono). Ma il fatto è quello che è, ossia quello che ha detto Francesco, e ogni ragionamento intorno alla sua valutazione non può non tenerne conto. Ma allora, papa Francesco si schiera a favore di Trump?

Sappiamo infatti che nella campagna elettorale presidenziale la questione aborto è uno degli argomenti più discussi; i democratici mettono in programma il ripristino della libertà piena (sconfessata nel 2022 da una sentenza della Corte Suprema), e Trump sostiene la linea restrittiva. Ma il papa non è caduto nella trappola. Pure lasciando intendere che sulla questione aborto la sua posizione è più vicina a quella dei repubblicani, ha anche detto che il confronto fra i due schieramenti politici non si può ridurre a quella questione, per quanto importante: ce ne sono altre che, dal punto di vista morale, pesano altrettanto, e che dunque gli elettori potranno (dovranno) scegliere il male minore.

In effetti, se i repubblicani americani si battono in favore del rispetto della vita dei bambini non nati, è anche vero che sono quelli che si battono – con forza ancora maggiore – contro ogni anche timida proposta di limitare la libera circolazione delle micidiali armi da guerra le quali provocano ogni anno migliaia di morti, per delitto o per disgrazia. Sono anche quelli che sostengono la pena di morte, abolita ormai da quasi tutti i paesi civili; certamente non sono pacifisti; e si potrebbe continuare. Le ragioni, e rispettivamente i torti, non stanno tutti da una parte sola. In America come in Italia.

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A sinistra Donald Trump a destra Kamala Harris sul palco blu nel corso dell'ultimo confronto televisivo verso le elezioni americane

Se il papa (Pio IX nel 1854) dichiara che, per una singolare grazia di Dio, Maria Santissima è stata, sin dal concepimento, immune dalla macchia del peccato originale che invece affligge l’intera umanità, dice una verità di fede che può essere accolta solo da chi crede in Dio, nell’autorità del papa e nella dottrina in materia di peccato originale; per gli altri sono parole di cui neppure colgono il senso.

Se invece il papa (Francesco nel 2024) dice che l’aborto è l'uccisione di un essere umano, non si scappa: è una verità oggettiva, un dato di fatto, negarlo è come dire che la Terra è piatta; la fede nel soprannaturale non c’entra nulla. Dopo, si potrà discutere se, quando, in quali casi e a quali condizioni, quel fatto si possa considerare lecito o almeno perdonabile, dal punto di vista morale e da quello legale (due punti di vista che non necessariamente coincidono). Ma il fatto è quello che è, ossia quello che ha detto Francesco, e ogni ragionamento intorno alla sua valutazione non può non tenerne conto. Ma allora, papa Francesco si schiera a favore di Trump?

Sappiamo infatti che nella campagna elettorale presidenziale la questione aborto è uno degli argomenti più discussi; i democratici mettono in programma il ripristino della libertà piena (sconfessata nel 2022 da una sentenza della Corte Suprema), e Trump sostiene la linea restrittiva. Ma il papa non è caduto nella trappola. Pure lasciando intendere che sulla questione aborto la sua posizione è più vicina a quella dei repubblicani, ha anche detto che il confronto fra i due schieramenti politici non si può ridurre a quella questione, per quanto importante: ce ne sono altre che, dal punto di vista morale, pesano altrettanto, e che dunque gli elettori potranno (dovranno) scegliere il male minore.

In effetti, se i repubblicani americani si battono in favore del rispetto della vita dei bambini non nati, è anche vero che sono quelli che si battono – con forza ancora maggiore – contro ogni anche timida proposta di limitare la libera circolazione delle micidiali armi da guerra le quali provocano ogni anno migliaia di morti, per delitto o per disgrazia. Sono anche quelli che sostengono la pena di morte, abolita ormai da quasi tutti i paesi civili; certamente non sono pacifisti; e si potrebbe continuare. Le ragioni, e rispettivamente i torti, non stanno tutti da una parte sola. In America come in Italia.

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Dare la morte senza ‘sapere’ https://www.lavoce.it/dare-la-morte-senza-sapere/ https://www.lavoce.it/dare-la-morte-senza-sapere/#respond Thu, 12 Sep 2024 12:00:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77542

Due fatti (orribili) di cronaca sono stati sulle prime pagine per giorni e giorni. In un cantuccio della Lombardia, un diciassettenne ha ucciso, a pugnalate, il padre, la madre e il fratello più piccolo. In un altro cantuccio della Lombardia, un giovanotto un po’ più adulto, ma ancor meno maturo, aveva ucciso pochi giorni prima, nello stesso modo, una malcapitata passante, scelta a caso. Fra i due episodi ci sono somiglianze inquietanti: la mancanza di un qualunque motivo o pretesto, che desse una spiegazione – pur aberrante – al delitto; e di più il fatto che ciascuno dei due autori si è mostrato incapace di spiegare persino a se stesso le ragioni del gesto.

Il ragazzo che ha ucciso i genitori e il fratellino viveva in una famiglia serena, dove tutti si volevano bene e se ne davano ogni giorno la prova. Quello che ha ucciso la povera donna a lui sconosciuta, mentre la pugnalava a morte le chiedeva educatamente scusa. Viene il sospetto che in realtà non si rendessero ben conto di quello che facevano. Certo, volevano uccidere, lo hanno confermato; e hanno detto anche che hanno reiterato i colpi per affrettare il decesso delle loro vittime.

Ma forse non capivano bene che cosa voglia dire dare la morte a un essere vivente; lo sentivano come una specie di gioco, uno di quei videogame dove si fanno bruciare vivi gli avversari ma poi si fa clic, tutto si azzera e si può ricominciare da capo, all'infinito. O come una partita di pallone, dove si dice: io ti distruggo; ma poi si va al bar insieme. Ne abbiamo parlato fra vecchi che hanno vissuto la vita delle campagne quando era normale assistere all’uccisione di un pollo o di un coniglio, di una pecora, di un maiale; e questi spettacoli, certo non piacevoli, ci insegnavano che la morte di un essere vivente non è un gioco ma qualche cosa di terribilmente serio. Poi qualcuno riusciva lo stesso un delinquente, ma almeno sapeva quello che faceva.

Richiesto di dire la sua su questo, il noto opinionista Michele Serra ha risposto: “Sì, la vita materiale (e la morte materiale) non sono molto frequentate dai ragazzi di oggi. Un'esistenza soprattutto virtuale li espone a un rapporto molto incompleto, e spesso patologico, con la vita reale”. Non si deve cercare una spiegazione sociologica a tutti gli errori e gli orrori che si fanno, ma questa volta ci può stare - senza con questo sminuire la gravità dei delitti.

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Due fatti (orribili) di cronaca sono stati sulle prime pagine per giorni e giorni. In un cantuccio della Lombardia, un diciassettenne ha ucciso, a pugnalate, il padre, la madre e il fratello più piccolo. In un altro cantuccio della Lombardia, un giovanotto un po’ più adulto, ma ancor meno maturo, aveva ucciso pochi giorni prima, nello stesso modo, una malcapitata passante, scelta a caso. Fra i due episodi ci sono somiglianze inquietanti: la mancanza di un qualunque motivo o pretesto, che desse una spiegazione – pur aberrante – al delitto; e di più il fatto che ciascuno dei due autori si è mostrato incapace di spiegare persino a se stesso le ragioni del gesto.

Il ragazzo che ha ucciso i genitori e il fratellino viveva in una famiglia serena, dove tutti si volevano bene e se ne davano ogni giorno la prova. Quello che ha ucciso la povera donna a lui sconosciuta, mentre la pugnalava a morte le chiedeva educatamente scusa. Viene il sospetto che in realtà non si rendessero ben conto di quello che facevano. Certo, volevano uccidere, lo hanno confermato; e hanno detto anche che hanno reiterato i colpi per affrettare il decesso delle loro vittime.

Ma forse non capivano bene che cosa voglia dire dare la morte a un essere vivente; lo sentivano come una specie di gioco, uno di quei videogame dove si fanno bruciare vivi gli avversari ma poi si fa clic, tutto si azzera e si può ricominciare da capo, all'infinito. O come una partita di pallone, dove si dice: io ti distruggo; ma poi si va al bar insieme. Ne abbiamo parlato fra vecchi che hanno vissuto la vita delle campagne quando era normale assistere all’uccisione di un pollo o di un coniglio, di una pecora, di un maiale; e questi spettacoli, certo non piacevoli, ci insegnavano che la morte di un essere vivente non è un gioco ma qualche cosa di terribilmente serio. Poi qualcuno riusciva lo stesso un delinquente, ma almeno sapeva quello che faceva.

Richiesto di dire la sua su questo, il noto opinionista Michele Serra ha risposto: “Sì, la vita materiale (e la morte materiale) non sono molto frequentate dai ragazzi di oggi. Un'esistenza soprattutto virtuale li espone a un rapporto molto incompleto, e spesso patologico, con la vita reale”. Non si deve cercare una spiegazione sociologica a tutti gli errori e gli orrori che si fanno, ma questa volta ci può stare - senza con questo sminuire la gravità dei delitti.

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Spiagge: la posta in gioco https://www.lavoce.it/spiagge-la-posta-in-gioco/ https://www.lavoce.it/spiagge-la-posta-in-gioco/#respond Thu, 05 Sep 2024 17:05:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77458

Non si può parlare sempre dei massimi sistemi, qualche volta ci si può occupare di questioni particolari. Una questione particolare, ma molto discussa, è il contenzioso relativo alle concessioni di spiagge demaniali agli imprenditori balneari. I mezzi di comunicazione ne parlano molto da anni, ma mi pare che non siano mai stati chiariti bene i termini della questione.

In genere si crede che gli imprenditori balneari si battano per difendere un sistema che consentiva loro di fare ricchi proventi pagando al demanio canoni trascurabili. C’è anche questo, naturalmente, ma non è il cuore della questione. In realtà ciò che spaventa i balneari è la prospettiva di vedere azzerato un altissimo valore patrimoniale sul quale facevano affidamento: e cioè quello che avrebbero potuto realizzare cedendo la loro concessione – e la relativa azienda - a trattativa privata ad un altro imprenditore.

La normativa europea che ha originato il contenzioso obbliga gli Stati a rilasciare concessioni di suolo demaniale solo a tempo determinato e a bandire, ad ogni scadenza, una gara pubblica aperta ai concorrenti provenienti da tutti i paesi dell’Unione.

Il sistema del diritto interno italiano è (era) molto diverso. Era basato sul principio che il suolo demaniale non può diventare in alcun caso di proprietà privata, ma può essere solo dato in concessione temporanea e revocabile; e fin qui nulla è cambiato. Diceva anche che tutto ciò che il concessionario vi impianti per suo uso entra di diritto nella proprietà dello Stato; e anche qui nulla è cambiato. Diceva però anche che, ad ogni scadenza, la concessione poteva essere rinnovata e che il concessionario uscente aveva un titolo di preferenza; in pratica, una volta avuta la concessione si poteva perderla solo se lo Stato avesse deciso di usare direttamente quel terreno (ad esempio per usi militari).

Il concessionario aveva anche (con qualche semplice espediente legale) la possibilità di vendere a prezzo di mercato l’azienda, la concessione e l'avviamento ad un nuovo titolare scelto da lui. In questo quadro, sinora, tutti i concessionari hanno investito grossi capitali nelle attrezzature fisse come se il terreno fosse di loro proprietà privata. Non sto dicendo che i balneari hanno ragione se si oppongono alle nuove regole: dico che la posta in gioco è questa.

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Non si può parlare sempre dei massimi sistemi, qualche volta ci si può occupare di questioni particolari. Una questione particolare, ma molto discussa, è il contenzioso relativo alle concessioni di spiagge demaniali agli imprenditori balneari. I mezzi di comunicazione ne parlano molto da anni, ma mi pare che non siano mai stati chiariti bene i termini della questione.

In genere si crede che gli imprenditori balneari si battano per difendere un sistema che consentiva loro di fare ricchi proventi pagando al demanio canoni trascurabili. C’è anche questo, naturalmente, ma non è il cuore della questione. In realtà ciò che spaventa i balneari è la prospettiva di vedere azzerato un altissimo valore patrimoniale sul quale facevano affidamento: e cioè quello che avrebbero potuto realizzare cedendo la loro concessione – e la relativa azienda - a trattativa privata ad un altro imprenditore.

La normativa europea che ha originato il contenzioso obbliga gli Stati a rilasciare concessioni di suolo demaniale solo a tempo determinato e a bandire, ad ogni scadenza, una gara pubblica aperta ai concorrenti provenienti da tutti i paesi dell’Unione.

Il sistema del diritto interno italiano è (era) molto diverso. Era basato sul principio che il suolo demaniale non può diventare in alcun caso di proprietà privata, ma può essere solo dato in concessione temporanea e revocabile; e fin qui nulla è cambiato. Diceva anche che tutto ciò che il concessionario vi impianti per suo uso entra di diritto nella proprietà dello Stato; e anche qui nulla è cambiato. Diceva però anche che, ad ogni scadenza, la concessione poteva essere rinnovata e che il concessionario uscente aveva un titolo di preferenza; in pratica, una volta avuta la concessione si poteva perderla solo se lo Stato avesse deciso di usare direttamente quel terreno (ad esempio per usi militari).

Il concessionario aveva anche (con qualche semplice espediente legale) la possibilità di vendere a prezzo di mercato l’azienda, la concessione e l'avviamento ad un nuovo titolare scelto da lui. In questo quadro, sinora, tutti i concessionari hanno investito grossi capitali nelle attrezzature fisse come se il terreno fosse di loro proprietà privata. Non sto dicendo che i balneari hanno ragione se si oppongono alle nuove regole: dico che la posta in gioco è questa.

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Suicidio assistito. La (discussa) sentenza della Corte costituzionale https://www.lavoce.it/suicidio-assistito-la-discussa-sentenza-della-corte-costituzionale/ https://www.lavoce.it/suicidio-assistito-la-discussa-sentenza-della-corte-costituzionale/#respond Wed, 28 Aug 2024 16:45:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77400

Poche settimane fa, il 18 luglio, è stata pubblicata una sentenza della Corte costituzionale (la n. 135 di quest’anno) che ha di nuovo precisato le condizioni nelle quali si deve considerare lecito il cosiddetto suicidio assistito.

Si chiama così la collaborazione prestata ad un sofferente che è in grado di compiere autonomamente il gesto estremo che porrà fine alla sua vita, ma ha bisogno che qualcuno lo metta prima in condizione di farlo. La Corte ha approfondito i princìpi che aveva già enunciato con la sentenza n. 242 del 2019. Il 23 agosto scorso, il presidente della Corte, Augusto Barbera, ne ha ancora parlato al Meeting di Rimini. Non abbiamo qui lo spazio per spiegare in dettaglio il quadro del lecito e dell’illecito secondo le sentenze della Corte costituzionale (quelle due e le altre sul tema del fine vita).

In sintesi, i pilastri del pensiero della Corte sono due. Il primo è che uno Stato laico non può rendere obbligatorio per legge l’eroismo che ci vuole per accettare una sofferenza che non ha rimedio né sollievo. Il secondo è che a legittimare l’aiuto al suicidio non può bastare la volontà espressa dall’interessato; spetta all’autorità sanitaria giudicare se, oggettivamente, ne sussistono le condizioni: e cioè che quella persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale a motivo di una patologia irreversibile; che questo stato le procuri sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili; e che essa sia in grado di decidere consapevolmente e liberamente.

La Corte ha messo in evidenza che questi requisiti (i quali, come si è detto, debbono essere accertati dall’autorità sanitaria) sono importanti perché non si può riconoscere ad alcuno un diritto incondizionato a decidere la propria morte e di conseguenza a ricevere dallo Stato o comunque da terzi la collaborazione di cui abbia bisogno per farlo.

La legge infatti (lo dice la Corte costituzionale) deve evitare che un regime troppo permissivo conduca alla morte le persone deboli, depresse, insicure; queste vanno sostenute nell’accettare la vita.

Questo comporta, fra l’altro, che la collettività ha il dovere di investire nell’assistenza, nelle cure palliative e in ogni altro intervento che renda tollerabile e serena anche la peggiore malattia.  Sin qui, il pensiero laico della Corte. Ci pare che, come cattolici, non possiamo che sottoscriverlo.

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Poche settimane fa, il 18 luglio, è stata pubblicata una sentenza della Corte costituzionale (la n. 135 di quest’anno) che ha di nuovo precisato le condizioni nelle quali si deve considerare lecito il cosiddetto suicidio assistito.

Si chiama così la collaborazione prestata ad un sofferente che è in grado di compiere autonomamente il gesto estremo che porrà fine alla sua vita, ma ha bisogno che qualcuno lo metta prima in condizione di farlo. La Corte ha approfondito i princìpi che aveva già enunciato con la sentenza n. 242 del 2019. Il 23 agosto scorso, il presidente della Corte, Augusto Barbera, ne ha ancora parlato al Meeting di Rimini. Non abbiamo qui lo spazio per spiegare in dettaglio il quadro del lecito e dell’illecito secondo le sentenze della Corte costituzionale (quelle due e le altre sul tema del fine vita).

In sintesi, i pilastri del pensiero della Corte sono due. Il primo è che uno Stato laico non può rendere obbligatorio per legge l’eroismo che ci vuole per accettare una sofferenza che non ha rimedio né sollievo. Il secondo è che a legittimare l’aiuto al suicidio non può bastare la volontà espressa dall’interessato; spetta all’autorità sanitaria giudicare se, oggettivamente, ne sussistono le condizioni: e cioè che quella persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale a motivo di una patologia irreversibile; che questo stato le procuri sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili; e che essa sia in grado di decidere consapevolmente e liberamente.

La Corte ha messo in evidenza che questi requisiti (i quali, come si è detto, debbono essere accertati dall’autorità sanitaria) sono importanti perché non si può riconoscere ad alcuno un diritto incondizionato a decidere la propria morte e di conseguenza a ricevere dallo Stato o comunque da terzi la collaborazione di cui abbia bisogno per farlo.

La legge infatti (lo dice la Corte costituzionale) deve evitare che un regime troppo permissivo conduca alla morte le persone deboli, depresse, insicure; queste vanno sostenute nell’accettare la vita.

Questo comporta, fra l’altro, che la collettività ha il dovere di investire nell’assistenza, nelle cure palliative e in ogni altro intervento che renda tollerabile e serena anche la peggiore malattia.  Sin qui, il pensiero laico della Corte. Ci pare che, come cattolici, non possiamo che sottoscriverlo.

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Autonomia differenziata … non per ora https://www.lavoce.it/autonomia-differenziata-non-per-ora/ https://www.lavoce.it/autonomia-differenziata-non-per-ora/#respond Fri, 26 Jul 2024 10:40:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77205

I partiti di opposizione, e i movimenti (sindacati, associazioni) che li fiancheggiano, si sono coalizzati per promuovere un referendum abrogativo contro la legge n. 86 del 26 giugno scorso, sull’autonomia differenziata delle regioni. Una legge che, secondo gli oppositori, minaccia di “spaccare l’Italia” e cancellare valori quali la solidarietà nazionale e l’uguaglianza dei cittadini.

Il tema è complesso; cerchiamo ora di fare un po’ di chiarezza. L’autonomia differenziata delle regioni esiste già, da quando esiste la Repubblica. Ne godono – in forme diverse ma in ogni caso con benefici anche sul piano finanziario – cinque regioni: la Sicilia (prima in ordine di tempo e anche per l’eccezionale ampiezza dei poteri autonomi), la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia.

Sarebbe curioso vedere che cosa ne abbiano fatto a vantaggio dei rispettivi cittadini, ma non possiamo farlo qui. Ad un certo punto intere zone del Veneto e della Lombardia hanno cominciato a chiedersi perché non possano avere anche loro gli stessi benefici – connessi all’autonomia – che hanno i loro confinanti delle regioni a statuto speciale. Qualche valle alpina anzi è riuscita a passare dal Veneto al Friuli e altre lo chiedono da tempo. Questo e altri problemi indussero i governi di centro-sinistra del quinquennio 1996-2001 a varare la riforma del Titolo V della Costituzione.

Il nuovo testo espande parecchio (e forse troppo) l’autonomia delle regioni a statuto ordinario; e in più concede a ciascuna la possibilità di trasformarsi – in pratica – in una regione a statuto speciale, patteggiando con il parlamento nazionale l’attribuzione di maggiori competenze sulla base delle proprie richieste. Sin qui – per sommi capi – la riforma costituzionale del 2001, elaborata dai governi D’Alema e Amato, e approvata con un referendum (io votai contro). Per quanto riguarda altri contenuti, essa è da allora diritto vigente; quanto all’autonomia differenziata, è invece rimasta sulla carta e ci resterà ancora, perché la legge n. 86 di quest’anno si limita a precisare meglio le complicate procedure attraverso le quali le regioni che lo chiederanno potranno delineare il loro sistema di autonomia, nel rispetto di quelle cautele che sono previste per non far mancare l’aiuto delle finanze statali alle regioni che hanno meno risorse proprie. È il caso di farne una battaglia di principio?

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I partiti di opposizione, e i movimenti (sindacati, associazioni) che li fiancheggiano, si sono coalizzati per promuovere un referendum abrogativo contro la legge n. 86 del 26 giugno scorso, sull’autonomia differenziata delle regioni. Una legge che, secondo gli oppositori, minaccia di “spaccare l’Italia” e cancellare valori quali la solidarietà nazionale e l’uguaglianza dei cittadini.

Il tema è complesso; cerchiamo ora di fare un po’ di chiarezza. L’autonomia differenziata delle regioni esiste già, da quando esiste la Repubblica. Ne godono – in forme diverse ma in ogni caso con benefici anche sul piano finanziario – cinque regioni: la Sicilia (prima in ordine di tempo e anche per l’eccezionale ampiezza dei poteri autonomi), la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia.

Sarebbe curioso vedere che cosa ne abbiano fatto a vantaggio dei rispettivi cittadini, ma non possiamo farlo qui. Ad un certo punto intere zone del Veneto e della Lombardia hanno cominciato a chiedersi perché non possano avere anche loro gli stessi benefici – connessi all’autonomia – che hanno i loro confinanti delle regioni a statuto speciale. Qualche valle alpina anzi è riuscita a passare dal Veneto al Friuli e altre lo chiedono da tempo. Questo e altri problemi indussero i governi di centro-sinistra del quinquennio 1996-2001 a varare la riforma del Titolo V della Costituzione.

Il nuovo testo espande parecchio (e forse troppo) l’autonomia delle regioni a statuto ordinario; e in più concede a ciascuna la possibilità di trasformarsi – in pratica – in una regione a statuto speciale, patteggiando con il parlamento nazionale l’attribuzione di maggiori competenze sulla base delle proprie richieste. Sin qui – per sommi capi – la riforma costituzionale del 2001, elaborata dai governi D’Alema e Amato, e approvata con un referendum (io votai contro). Per quanto riguarda altri contenuti, essa è da allora diritto vigente; quanto all’autonomia differenziata, è invece rimasta sulla carta e ci resterà ancora, perché la legge n. 86 di quest’anno si limita a precisare meglio le complicate procedure attraverso le quali le regioni che lo chiederanno potranno delineare il loro sistema di autonomia, nel rispetto di quelle cautele che sono previste per non far mancare l’aiuto delle finanze statali alle regioni che hanno meno risorse proprie. È il caso di farne una battaglia di principio?

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Trump vittima e colpevole https://www.lavoce.it/trump-vittima-e-colpevole/ https://www.lavoce.it/trump-vittima-e-colpevole/#respond Fri, 19 Jul 2024 10:46:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77098

Scrivo queste righe mentre il mondo intero è sconcertato dall’attentato che poteva costare la vita a Donald Trump. Le conseguenze materiali sono state minime, ma è rimasto turbato lo scenario – già inquietante di suo - delle prossime elezioni presidenziali.

Naturalmente, chiunque abbia a cuore la democrazia e la civile convivenza non può che inorridire per quel gesto di folle violenza e congratularsi con la mancata vittima per lo scampato pericolo. Ma i sostenitori di Trump – e anche i suoi simpatizzanti al di qua dell’Atlantico, sulle rive del Tevere e su quelle del Po – se hanno un minimo di onestà intellettuale non possono addebitare agli avversari politici del partito dell’ex presidente la responsabilità morale dell’attentato. È stato il gesto isolato di uno squilibrato, nelle cui mani era capitata una delle innumerevoli armi da guerra che laggiù hanno libera circolazione come da noi i telefoni cellulari. Al pari di quelle stragi che ogni pochi mesi si ripetono qua e là nelle scuole o nei supermercati e che non hanno altra spiegazione che la follia dei loro autori congiunta alla diffusione incontrollata delle armi.

Quindi se si vogliono i responsabili morali li troviamo proprio nel partito di Trump che difende ostinatamente quel sistema legale e se ne fa vanto. Quanto alla violenza organizzata e applicata alla politica, se negli Usa ce ne è stato un esempio eclatante è stato quello dell’assalto alla sede del Congresso (il parlamento federale) a Washington, il 6 gennaio 2021. Quel giorno il Congresso doveva convalidare l’esito delle elezioni presidenziali con la elezione di Joe Biden.

Trump, candidato sconfitto ma ancora presidente in carica, sosteneva (senza nessuna prova) che il voto fosse stato truccato e pretendeva che il Congresso ribaltasse il risultato. Il palazzo fu assediato per ore e invaso da una folla di rivoltosi, guidata dagli incitamenti di Trump.

Un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, che fallì solo perché il vicepresidente uscente, quale presidente di diritto del Senato, si rifiutò di obbedire alle intimazioni di Trump che pure era il suo capo, e firmò la convalida delle elezioni. I due episodi - quella giornata di rivolta del 2021 e l’attentato fallito di questi giorni – non possono essere messi in relazione né tanto meno l’uno può spiegare o giustificare l’altro. Se ne parla solo per dire chi è veramente Trump, e che le sue colpe non possono considerarsi lavate dal gesto criminale di chi gli ha sparato.

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Scrivo queste righe mentre il mondo intero è sconcertato dall’attentato che poteva costare la vita a Donald Trump. Le conseguenze materiali sono state minime, ma è rimasto turbato lo scenario – già inquietante di suo - delle prossime elezioni presidenziali.

Naturalmente, chiunque abbia a cuore la democrazia e la civile convivenza non può che inorridire per quel gesto di folle violenza e congratularsi con la mancata vittima per lo scampato pericolo. Ma i sostenitori di Trump – e anche i suoi simpatizzanti al di qua dell’Atlantico, sulle rive del Tevere e su quelle del Po – se hanno un minimo di onestà intellettuale non possono addebitare agli avversari politici del partito dell’ex presidente la responsabilità morale dell’attentato. È stato il gesto isolato di uno squilibrato, nelle cui mani era capitata una delle innumerevoli armi da guerra che laggiù hanno libera circolazione come da noi i telefoni cellulari. Al pari di quelle stragi che ogni pochi mesi si ripetono qua e là nelle scuole o nei supermercati e che non hanno altra spiegazione che la follia dei loro autori congiunta alla diffusione incontrollata delle armi.

Quindi se si vogliono i responsabili morali li troviamo proprio nel partito di Trump che difende ostinatamente quel sistema legale e se ne fa vanto. Quanto alla violenza organizzata e applicata alla politica, se negli Usa ce ne è stato un esempio eclatante è stato quello dell’assalto alla sede del Congresso (il parlamento federale) a Washington, il 6 gennaio 2021. Quel giorno il Congresso doveva convalidare l’esito delle elezioni presidenziali con la elezione di Joe Biden.

Trump, candidato sconfitto ma ancora presidente in carica, sosteneva (senza nessuna prova) che il voto fosse stato truccato e pretendeva che il Congresso ribaltasse il risultato. Il palazzo fu assediato per ore e invaso da una folla di rivoltosi, guidata dagli incitamenti di Trump.

Un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, che fallì solo perché il vicepresidente uscente, quale presidente di diritto del Senato, si rifiutò di obbedire alle intimazioni di Trump che pure era il suo capo, e firmò la convalida delle elezioni. I due episodi - quella giornata di rivolta del 2021 e l’attentato fallito di questi giorni – non possono essere messi in relazione né tanto meno l’uno può spiegare o giustificare l’altro. Se ne parla solo per dire chi è veramente Trump, e che le sue colpe non possono considerarsi lavate dal gesto criminale di chi gli ha sparato.

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Elezioni inglesi. Non è un sistema razionale https://www.lavoce.it/elezioni-inglesi-non-e-un-sistema-razionale/ https://www.lavoce.it/elezioni-inglesi-non-e-un-sistema-razionale/#respond Wed, 10 Jul 2024 16:21:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76968

Quasi contemporaneamente, nel giro di pochi giorni, si sono svolte le elezioni politiche in Gran Bretagna e in Francia. Se ne è parlato molto perché si tratta di due Paesi di una certa importanza nella politica mondiale e, comunque, in quella dell’Europa. E, in tutti e due i casi, il loro esito ha visto il successo delle forze politiche genericamente qualificabili di sinistra.

Oggi però non voglio commentarle dal punto di vista politico, ma da quello, diciamo, tecnico e istituzionale, perché i due popoli hanno votato secondo le rispettive leggi elettorali, che sono simili fra loro, ma diverse dal sistema in vigore in Italia. Semplificando: sia in Francia che in Gran Bretagna il territorio e di conseguenza l’elettorato sono divisi in tanti collegi uninominali quanti sono i deputati da eleggere, cosicché ogni collegio elegge un deputato. Viene eletto il candidato più votato.

In Gran Bretagna si vota a turno unico, il che vuol dire che se i candidati sono più di due è possibile, e anche frequente, che sia vincitore uno che ha avuto solo il trenta o il quaranta per cento dei voti.

In Francia invece si vota a doppio turno, quindi se nessuno dei candidati ha raggiunto la maggioranza assoluta nel primo turno, si fa il ballottaggio fra i primi due (ma in Francia anche fra i primi tre o quattro, se hanno superato una certa soglia). Il sistema del collegio uninominale è apprezzato da molti perché appare semplice e chiaro. A questo punto però introduco la mia critica personale, che è questa: con l’una e con l’altra persona, il parlamento è l’insieme dei candidati che hanno vinto nei rispettivi collegi e non vi è alcuna garanzia che la sua composizione rispecchi quella dell’elettorato nazionale.

Colpisce il caso della Gran Bretagna: il partito laburista ha avuto, su scala nazionale, un po’ meno del 34% dei voti, ma ha avuto circa il 63% dei seggi; il partito conservatore ha avuto il 24% dei voti ma solo il 18% dei seggi. Ed è stato solo un caso, nel senso che il partito conservatore ha avuto il suo mucchietto di seggi solo perché qua e là è risultato il primo classificato nel collegio.  Niente vietava che, ferme le percentuali complessive su scala nazionale, i laburisti si ritrovassero il 100% dei seggi. Mi fermo qui ma mi pare chiaro che non è un sistema razionale.

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Quasi contemporaneamente, nel giro di pochi giorni, si sono svolte le elezioni politiche in Gran Bretagna e in Francia. Se ne è parlato molto perché si tratta di due Paesi di una certa importanza nella politica mondiale e, comunque, in quella dell’Europa. E, in tutti e due i casi, il loro esito ha visto il successo delle forze politiche genericamente qualificabili di sinistra.

Oggi però non voglio commentarle dal punto di vista politico, ma da quello, diciamo, tecnico e istituzionale, perché i due popoli hanno votato secondo le rispettive leggi elettorali, che sono simili fra loro, ma diverse dal sistema in vigore in Italia. Semplificando: sia in Francia che in Gran Bretagna il territorio e di conseguenza l’elettorato sono divisi in tanti collegi uninominali quanti sono i deputati da eleggere, cosicché ogni collegio elegge un deputato. Viene eletto il candidato più votato.

In Gran Bretagna si vota a turno unico, il che vuol dire che se i candidati sono più di due è possibile, e anche frequente, che sia vincitore uno che ha avuto solo il trenta o il quaranta per cento dei voti.

In Francia invece si vota a doppio turno, quindi se nessuno dei candidati ha raggiunto la maggioranza assoluta nel primo turno, si fa il ballottaggio fra i primi due (ma in Francia anche fra i primi tre o quattro, se hanno superato una certa soglia). Il sistema del collegio uninominale è apprezzato da molti perché appare semplice e chiaro. A questo punto però introduco la mia critica personale, che è questa: con l’una e con l’altra persona, il parlamento è l’insieme dei candidati che hanno vinto nei rispettivi collegi e non vi è alcuna garanzia che la sua composizione rispecchi quella dell’elettorato nazionale.

Colpisce il caso della Gran Bretagna: il partito laburista ha avuto, su scala nazionale, un po’ meno del 34% dei voti, ma ha avuto circa il 63% dei seggi; il partito conservatore ha avuto il 24% dei voti ma solo il 18% dei seggi. Ed è stato solo un caso, nel senso che il partito conservatore ha avuto il suo mucchietto di seggi solo perché qua e là è risultato il primo classificato nel collegio.  Niente vietava che, ferme le percentuali complessive su scala nazionale, i laburisti si ritrovassero il 100% dei seggi. Mi fermo qui ma mi pare chiaro che non è un sistema razionale.

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Bracciante morto: è marcio il sistema https://www.lavoce.it/bracciante-morto-e-marcio-il-sistema/ https://www.lavoce.it/bracciante-morto-e-marcio-il-sistema/#respond Fri, 05 Jul 2024 16:04:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76925

Per la morte del bracciante agricolo indiano Satnam Singh, che aveva perso un braccio in un infortunio sul lavoro nei campi dell’Agro Pontino, il datore di lavoro sarà processato per omicidio doloso, cioè volontario. Non per avere causato l’infortunio con colpa; questo sarà un capo di imputazione separato; ma per avere volontariamente provocato il ritardo dei soccorsi che avrebbero salvato la vita di Singh.

Altri capi di imputazione si riferiranno all’avere impiegato manodopera in nero, con la violazione dei diritti dei lavoratori quali i contributi previdenziali, eccetera. Peggio ancora, i lavoratori così sfruttati erano immigrati clandestini, trattati in condizioni che fanno parlare di schiavitù. Un cumulo di illegalità che però, a quanto pare, in certe zone d’Italia rappresenta la normalità.

Ci si chiede quali meccanismi producano questo stato di fatto. Una delle cause è certamente la legge sulla immigrazione, che pare fatta apposta per rendere la vita difficile ai poveri immigrati. Se non hai il permesso di soggiorno per lavoro, non puoi avere un contratto di lavoro; ma se non hai un contratto di lavoro non puoi avere un permesso di soggiorno per lavoro. Può averlo solo lo straniero che, nella sua terra di origine, si presenta all’Ambasciata italiana mostrando la proposta nominativa di impiego ricevuta da parte un cittadino italiano, e timbrata dalla questura del luogo dove si svolgerà il lavoro.

Tutti quelli che arrivano in Italia per altre vie e trovano un lavoro non potranno avere un contratto regolare. Gli imprenditori, però, di quella manodopera hanno bisogno e non la trovano se non rivolgendosi agli irregolari. Naturalmente hanno la loro convenienza, perché risparmiano vergognosamente sul costo del lavoro, ma intanto a questo li conduce il meccanismo legale ideato da chi straparla di “difendere i confini” e di “resistere all’invasione”.

Mentre è chiaro che più si rende difficile, anzi impossibile, l’immigrazione regolare, più si incentiva quella irregolare. Il paradosso è che chi pratica questa politica dell’immigrazione è anche chi si vanta di sostenere e promuovere la produzione agroalimentare italiana, la quale però, come tutti sanno, non esisterebbe più senza la manodopera degli immigrati sottopagati. Come sempre, si vuole la botte piena e la moglie ubriaca.

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Per la morte del bracciante agricolo indiano Satnam Singh, che aveva perso un braccio in un infortunio sul lavoro nei campi dell’Agro Pontino, il datore di lavoro sarà processato per omicidio doloso, cioè volontario. Non per avere causato l’infortunio con colpa; questo sarà un capo di imputazione separato; ma per avere volontariamente provocato il ritardo dei soccorsi che avrebbero salvato la vita di Singh.

Altri capi di imputazione si riferiranno all’avere impiegato manodopera in nero, con la violazione dei diritti dei lavoratori quali i contributi previdenziali, eccetera. Peggio ancora, i lavoratori così sfruttati erano immigrati clandestini, trattati in condizioni che fanno parlare di schiavitù. Un cumulo di illegalità che però, a quanto pare, in certe zone d’Italia rappresenta la normalità.

Ci si chiede quali meccanismi producano questo stato di fatto. Una delle cause è certamente la legge sulla immigrazione, che pare fatta apposta per rendere la vita difficile ai poveri immigrati. Se non hai il permesso di soggiorno per lavoro, non puoi avere un contratto di lavoro; ma se non hai un contratto di lavoro non puoi avere un permesso di soggiorno per lavoro. Può averlo solo lo straniero che, nella sua terra di origine, si presenta all’Ambasciata italiana mostrando la proposta nominativa di impiego ricevuta da parte un cittadino italiano, e timbrata dalla questura del luogo dove si svolgerà il lavoro.

Tutti quelli che arrivano in Italia per altre vie e trovano un lavoro non potranno avere un contratto regolare. Gli imprenditori, però, di quella manodopera hanno bisogno e non la trovano se non rivolgendosi agli irregolari. Naturalmente hanno la loro convenienza, perché risparmiano vergognosamente sul costo del lavoro, ma intanto a questo li conduce il meccanismo legale ideato da chi straparla di “difendere i confini” e di “resistere all’invasione”.

Mentre è chiaro che più si rende difficile, anzi impossibile, l’immigrazione regolare, più si incentiva quella irregolare. Il paradosso è che chi pratica questa politica dell’immigrazione è anche chi si vanta di sostenere e promuovere la produzione agroalimentare italiana, la quale però, come tutti sanno, non esisterebbe più senza la manodopera degli immigrati sottopagati. Come sempre, si vuole la botte piena e la moglie ubriaca.

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Se vince Trump … niente di buono per noi https://www.lavoce.it/se-vince-trump-niente-di-buono-per-noi/ https://www.lavoce.it/se-vince-trump-niente-di-buono-per-noi/#respond Mon, 01 Jul 2024 12:00:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77249

Non è ancora del tutto ufficiale, ma ormai è certo che le elezioni presidenziali negli Usa – a novembre – saranno una sfida fra l’ex presidente Donald Trump e la vicepresidente uscente Kamala Harris. Dei due si potrà pensare quello che si vuole, ma non si potrebbero immaginare due sfidanti più diversi fra loro, come personalità, stile, programmi, tutto. Nessun rischio che gli elettori si trovino in imbarazzo non sapendo come orientarsi.

Si capisce che a scegliere saranno gli americani, sulla base delle loro idee e dei loro interessi, e non tocca a noi dire che cosa sarebbe meglio per loro (non ne abbiamo il diritto e non ne sappiamo abbastanza). Però siamo in grado di dire che cosa sarebbe meglio per noi – noi europei, noi italiani perché poi gli effetti si sentiranno, e in profondità. Non sarà come stare a vedere se la finale europea la vincessero gli spagnoli o gli inglesi, che a noi non ce ne veniva nulla di bene né di male.

Se vince Trump, per noi europei (e quindi anche per noi italiani) sarà dura. Il legame politico fra l’America del nord e l’Europa occidentale si può datare all’intervento americano nella prima guerra mondiale e, subito dopo, all’attivismo un po’ idealista del presidente Woodrow Wilson per la nascita della Società delle Nazioni come strumento di salvaguardia della pace e di incontro costruttivo fra i popoli, in condizioni di parità.

Ma è stato con la seconda guerra mondiale che quel legame si è stretto, a partire dalla “Carta Atlantica” dell’agosto 1941, firmata da Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill. Era in funzione antitedesca e antigiapponese (diciamo pure anche anti-italiana) ma si poneva nella prospettiva di un nuovo ordine mondiale e fu così l’embrione (avendo associato anche l’URSS e la Cina) dell’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per la protezione della pace e dei diritti umani individuali.

Trump ha fatto capire chiaramente che considera tutto questo un passato da cui gli americani si debbono liberare per fare “finalmente” i propri interessi nazionali. Veramente li hanno fatti sempre, anche in modi discutibili, ma certamente hanno sempre avuto una speciale considerazione per le liberal-democrazie dell’Europa occidentale. Le promesse di Trump, se venissero attuate, non sarebbero una buona notizia per il consolidarsi dell’unità europea e per gli equilibri mondiali.

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Non è ancora del tutto ufficiale, ma ormai è certo che le elezioni presidenziali negli Usa – a novembre – saranno una sfida fra l’ex presidente Donald Trump e la vicepresidente uscente Kamala Harris. Dei due si potrà pensare quello che si vuole, ma non si potrebbero immaginare due sfidanti più diversi fra loro, come personalità, stile, programmi, tutto. Nessun rischio che gli elettori si trovino in imbarazzo non sapendo come orientarsi.

Si capisce che a scegliere saranno gli americani, sulla base delle loro idee e dei loro interessi, e non tocca a noi dire che cosa sarebbe meglio per loro (non ne abbiamo il diritto e non ne sappiamo abbastanza). Però siamo in grado di dire che cosa sarebbe meglio per noi – noi europei, noi italiani perché poi gli effetti si sentiranno, e in profondità. Non sarà come stare a vedere se la finale europea la vincessero gli spagnoli o gli inglesi, che a noi non ce ne veniva nulla di bene né di male.

Se vince Trump, per noi europei (e quindi anche per noi italiani) sarà dura. Il legame politico fra l’America del nord e l’Europa occidentale si può datare all’intervento americano nella prima guerra mondiale e, subito dopo, all’attivismo un po’ idealista del presidente Woodrow Wilson per la nascita della Società delle Nazioni come strumento di salvaguardia della pace e di incontro costruttivo fra i popoli, in condizioni di parità.

Ma è stato con la seconda guerra mondiale che quel legame si è stretto, a partire dalla “Carta Atlantica” dell’agosto 1941, firmata da Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill. Era in funzione antitedesca e antigiapponese (diciamo pure anche anti-italiana) ma si poneva nella prospettiva di un nuovo ordine mondiale e fu così l’embrione (avendo associato anche l’URSS e la Cina) dell’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per la protezione della pace e dei diritti umani individuali.

Trump ha fatto capire chiaramente che considera tutto questo un passato da cui gli americani si debbono liberare per fare “finalmente” i propri interessi nazionali. Veramente li hanno fatti sempre, anche in modi discutibili, ma certamente hanno sempre avuto una speciale considerazione per le liberal-democrazie dell’Europa occidentale. Le promesse di Trump, se venissero attuate, non sarebbero una buona notizia per il consolidarsi dell’unità europea e per gli equilibri mondiali.

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Il doppio turno? È il sistema più ragionevole https://www.lavoce.it/il-doppio-turno-e-il-sistema-piu-ragionevole/ https://www.lavoce.it/il-doppio-turno-e-il-sistema-piu-ragionevole/#respond Thu, 27 Jun 2024 08:02:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76753

Appena resi noti i risultati dei ballottaggi nei comuni, la sera di lunedì 24 giugno, qualche esponente di primissimo piano della maggioranza di governo ha lanciato la proposta di modificare la legge elettorale, in particolare eliminando i ballottaggi.

Secondo una interpretazione maliziosa – che qui non vogliamo fare nostra – quella proposta sarebbe il frutto di una certa delusione riguardo all’esito della giornata. Lasciamo perdere i motivi più o meno immaginari, e valutiamo la proposta nel merito. È vero che articolare in due turni una consultazione elettorale è un appesantimento tanto per gli elettori, quanto per i candidati, quanto infine per la grande macchina organizzativa che deve far funzionare i seggi e fare il conto dei risultati. Ma in certi casi appare il modo più razionale per dare un ordine e un senso alla sterminata varietà delle opinioni individuali.

Se si interrogano cento elettori che hanno votato per lo stesso partito, si scopre che non ce ne sono due che la pensino allo stesso modo su tutto. Quindi ogni votazione è anche una gigantesca semplificazione, a danno delle opinioni isolate ma a vantaggio della collettività. Ora, se si tratta di eleggere, con elezione diretta, un capo (oggi un sindaco o un presidente di regione, domani forse il capo del governo) il modo più giusto per farlo è proclamare eletto chi ha avuto la maggioranza assoluta dei voti, ossia ha avuto più voti a favore che contro. Ma per essere sicuri di ottenere questo risultato, bisogna che i candidati siano solo due.

Quando i candidati sono più di due, è possibile che il più votato non abbia raggiunto la maggioranza assoluta, ma solo quella semplice e quindi che i contrari – anche se divisi fra più candidati - siano più dei favorevoli. E non è razionale, né giusto, dare un incarico di potere a una persona che ha più contrari che favorevoli.

Ma non sarebbe giusto neppure limitare la votazione a due soli candidati. La soluzione ragionevole, dunque, è fare un primo giro con tutti i candidati, poi un secondo giro fra i primi due classificati. Anche nello sport, prima si fanno le eliminatorie, poi i quarti, le semifinali e infine la finale. Tutto questo richiede più impegno, ma è il metodo più rispettoso del principio di maggioranza e della volontà degli elettori; non è detto che il turno unico lo sia altrettanto.

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Appena resi noti i risultati dei ballottaggi nei comuni, la sera di lunedì 24 giugno, qualche esponente di primissimo piano della maggioranza di governo ha lanciato la proposta di modificare la legge elettorale, in particolare eliminando i ballottaggi.

Secondo una interpretazione maliziosa – che qui non vogliamo fare nostra – quella proposta sarebbe il frutto di una certa delusione riguardo all’esito della giornata. Lasciamo perdere i motivi più o meno immaginari, e valutiamo la proposta nel merito. È vero che articolare in due turni una consultazione elettorale è un appesantimento tanto per gli elettori, quanto per i candidati, quanto infine per la grande macchina organizzativa che deve far funzionare i seggi e fare il conto dei risultati. Ma in certi casi appare il modo più razionale per dare un ordine e un senso alla sterminata varietà delle opinioni individuali.

Se si interrogano cento elettori che hanno votato per lo stesso partito, si scopre che non ce ne sono due che la pensino allo stesso modo su tutto. Quindi ogni votazione è anche una gigantesca semplificazione, a danno delle opinioni isolate ma a vantaggio della collettività. Ora, se si tratta di eleggere, con elezione diretta, un capo (oggi un sindaco o un presidente di regione, domani forse il capo del governo) il modo più giusto per farlo è proclamare eletto chi ha avuto la maggioranza assoluta dei voti, ossia ha avuto più voti a favore che contro. Ma per essere sicuri di ottenere questo risultato, bisogna che i candidati siano solo due.

Quando i candidati sono più di due, è possibile che il più votato non abbia raggiunto la maggioranza assoluta, ma solo quella semplice e quindi che i contrari – anche se divisi fra più candidati - siano più dei favorevoli. E non è razionale, né giusto, dare un incarico di potere a una persona che ha più contrari che favorevoli.

Ma non sarebbe giusto neppure limitare la votazione a due soli candidati. La soluzione ragionevole, dunque, è fare un primo giro con tutti i candidati, poi un secondo giro fra i primi due classificati. Anche nello sport, prima si fanno le eliminatorie, poi i quarti, le semifinali e infine la finale. Tutto questo richiede più impegno, ma è il metodo più rispettoso del principio di maggioranza e della volontà degli elettori; non è detto che il turno unico lo sia altrettanto.

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Sono “esseri umani”. Dirlo è un buon inizio https://www.lavoce.it/sono-esseri-umani-dirlo-e-un-buon-inizio/ https://www.lavoce.it/sono-esseri-umani-dirlo-e-un-buon-inizio/#respond Fri, 21 Jun 2024 13:57:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76705

Il governo italiano – quali che siano la sua composizione e il suo colore politico – deve affrontare, insieme a mille altri problemi, anche quello dell’immigrazione irregolare. È un problema che dura da più di venti anni, visto che risale al 2002 la legge ricordata con il nome dei politici Bossi e Fini, che si proponeva di tenere lontani dall’Italia i cosiddetti clandestini. Poi sono venute altre leggi, proposte dai vari governi che si sono via via alternati.

La loro efficacia si può desumere da tre eventi tragici, avvenuti tutti fra domenica e lunedì 17. Due di questi sono avvenuti nel Mediterraneo, confermatosi ancora una volta luogo di morte. Al largo di Roccella Jonica, in Calabria, 66 profughi di cui 26 bambini sono morti nel naufragio di una barca a vela partita dalle coste della Turchia; i salvati sono solo 11. Provenivano da paesi asiatici. Al largo di Lampedusa, invece, una barca stracolma e pericolante è stata avvicinata da una nave di soccorso, ma i soccorritori vi hanno trovato, oltre a 54 persone messe in salvo, altri dieci che viaggiavano chiusi nella stiva e vi erano morti soffocati dai gas di scarico dei motori.

Nello stesso giorno, in provincia di Latina, un immigrato indiano che lavorava nei campi (in nero, si capisce) ha perduto un braccio mentre azionava un macchinario per la raccolta del fieno; ma ciò che rende questo episodio vieppiù orribile è che il datore di lavoro, o chi per lui, per non farsi identificare lo ha portato via con un automezzo, lo ha scaricato in fin di vita davanti alla sua abitazione con accanto l’arto amputato e lo ha lasciato lì, senza neanche chiamare i soccorsi. Non possiamo dare la colpa di tutto questo al governo in carica.

Ma non ci si può nascondere che i suoi sforzi vanno tutti nella direzione di rendere difficile o impossibile il soccorso in mare dei profughi, cercando di farli trattenere in centri di raccolta fuori d’Italia. La parola d’ordine è “fermare i trafficanti di esseri umani” e può sembrare un intento virtuoso. Ma una volta fermati i trafficanti (ammesso che ci si riesca) che sorte attende quegli esseri umani? Stare chiusi in un lager in Libia, in Tunisia, in Albania? Essere sfruttati per un salario da fame in un lavoro clandestino ad alto rischio? Pensare ai profughi come “esseri umani”, ma pensarlo seriamente, non sarà certo una soluzione ma almeno un buon punto di partenza.

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Il governo italiano – quali che siano la sua composizione e il suo colore politico – deve affrontare, insieme a mille altri problemi, anche quello dell’immigrazione irregolare. È un problema che dura da più di venti anni, visto che risale al 2002 la legge ricordata con il nome dei politici Bossi e Fini, che si proponeva di tenere lontani dall’Italia i cosiddetti clandestini. Poi sono venute altre leggi, proposte dai vari governi che si sono via via alternati.

La loro efficacia si può desumere da tre eventi tragici, avvenuti tutti fra domenica e lunedì 17. Due di questi sono avvenuti nel Mediterraneo, confermatosi ancora una volta luogo di morte. Al largo di Roccella Jonica, in Calabria, 66 profughi di cui 26 bambini sono morti nel naufragio di una barca a vela partita dalle coste della Turchia; i salvati sono solo 11. Provenivano da paesi asiatici. Al largo di Lampedusa, invece, una barca stracolma e pericolante è stata avvicinata da una nave di soccorso, ma i soccorritori vi hanno trovato, oltre a 54 persone messe in salvo, altri dieci che viaggiavano chiusi nella stiva e vi erano morti soffocati dai gas di scarico dei motori.

Nello stesso giorno, in provincia di Latina, un immigrato indiano che lavorava nei campi (in nero, si capisce) ha perduto un braccio mentre azionava un macchinario per la raccolta del fieno; ma ciò che rende questo episodio vieppiù orribile è che il datore di lavoro, o chi per lui, per non farsi identificare lo ha portato via con un automezzo, lo ha scaricato in fin di vita davanti alla sua abitazione con accanto l’arto amputato e lo ha lasciato lì, senza neanche chiamare i soccorsi. Non possiamo dare la colpa di tutto questo al governo in carica.

Ma non ci si può nascondere che i suoi sforzi vanno tutti nella direzione di rendere difficile o impossibile il soccorso in mare dei profughi, cercando di farli trattenere in centri di raccolta fuori d’Italia. La parola d’ordine è “fermare i trafficanti di esseri umani” e può sembrare un intento virtuoso. Ma una volta fermati i trafficanti (ammesso che ci si riesca) che sorte attende quegli esseri umani? Stare chiusi in un lager in Libia, in Tunisia, in Albania? Essere sfruttati per un salario da fame in un lavoro clandestino ad alto rischio? Pensare ai profughi come “esseri umani”, ma pensarlo seriamente, non sarà certo una soluzione ma almeno un buon punto di partenza.

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