Amministrative 2015: 5 a 2 per il centro-sinistra, Liguria e Veneto a un centro-destra in cui, nel complesso, la Lega in versione estremista di Salvini diventa la forza trainante, mentre Berlusconi perde leadership e voti in un movimento sempre più diviso.
Il Pd vince, ma soprattutto in alcuni casi (Umbria in testa) non convince e rischia grosso. Cinque stelle, con Grillo dietro le quinte, non ha conquistato alcuna regione, ma è secondo partito in quattro regioni: Liguria, Marche, Umbria, Puglia. Raccolto magro per le diversificate formazioni chi si sono collocate alla sinistra del Pd (il meglio in Liguria, dove sono intorno al 10%).
Per molti versi, un risultato senza grandi sorprese, ma che conferma e vede accentuarsi il dato preoccupante dell’astensione (52,2% i votanti contro il 62,1% delle precedenti elezioni del 2010). Tendiamo ormai da tempo a uniformarci alla media delle altre democrazie occidentali. Ma in questo caso il mal comune non fa mezzo gaudio.
È evidente che si tratta del dato saliente di questa tornata elettorale, anche tenendo conto che in Italia tradizionalmente le percentuali erano state sempre molto più alte, sia nelle politiche sia nelle amministrative.
Sarebbe bene che le forze politiche, oltre che a commentare e valutare i loro risultati, riflettessero, non a porte chiuse ma pubblicamente, su questa sconfitta del voto. Perché? Perché, come tutti sappiamo, l’elezione resta, fino a prova contraria, il fattore più rilevante della sovranità popolare.
Da anni la politica si è fatta, in Italia, sempre più indipendente dai cittadini: lavora in proprio. E lo fa, come anche l’attuale Governo continua a ripetere, “nel loro interesse”. Fatto sta però che la democrazia non è un solo né soprattutto un governo “per” il popolo, ma “del” popolo”.
La nostra Costituzione ce lo ricorda là dove dichiara che “la sovranità appartiene al popolo”, che la esercita nelle forme che la stessa Carta si premura di regolare.
Un Governo che faccia l’interesse del popolo senza che il popolo partecipi a determinarlo – ed eventualmente a criticare quanto c’è da criticare – non è una democrazia o, almeno, si allontana in modo preoccupante da ciò che essa dovrebbe essere. Diventa un benevolo (quando lo è) paternalismo.
La conclusione sembra evidente: queste amministrative, al di là della specificità di ogni caso particolare, sono un nuovo campanello d’allarme che ci richiama al deficit democratico del nostro Paese.
Ecco i dati dei votanti, che fanno toccare con mano la situazione: Veneto 57,16% (precedente: 66,4%), Liguria 50,67% (precedente: 60,9%), Umbria 55,42%, Campania 51,93%, Marche 49,77% (62,8%), Toscana 48,24% (precedente 60,9%), Puglia 51,15%.
Le cause dell’astensionismo sono molte, troppe per poter essere qui anche solo elencate. Però alcune saltano agli occhi: l’estraneità in cui sono confinati i cittadini nei processi decisionali, le deboli risposte che questo e altri Governi hanno dato e danno alla crisi in atto (molte parole, pochi fatti, e quei pochi esagerati rispetto al loro reale valore), la permanenza di una classe politica in deficit di autorevolezza e anche talvolta di competenza (la “buona scuola” e la “buona università” insegnano…), la scarsa concretezza, la sottovalutazione del problema gravissimo delle povertà (che non si risolvono con l’elemosina politica), la disoccupazione. E via così.
Aggiungiamo anche, però, che uno sguardo rivolto solo alle inadempienza della politica non basta.
Pensiamo a quanto, nella cultura e nel senso comune della nostra società, sia diminuito l’interesse verso la cosa pubblica a causa di una smisurata crescita della cura per l’io narcisista e per tutto quanto in esso rifluisce: moda, passatempi, shopping, privacy (che molti considerano ormai come una barriera oltre la quale il mondo degli altri sembra non esistere), diritti giocati come “armi” e non come garanzie, e così via.
Questi sono fenomeni che in ogni città e in ogni regione constatiamo ogni giorno. E allora sarebbe bene che, regione per regione, caso per caso, se ne esaminassero le cause; e che, dopo queste elezioni, ci fossero iniziative che vedessero insieme cittadini e amministratori a discutere fattivamente sulla crisi della partecipazione e sui modi per superarla, e ovviamente sui problemi più gravi che abbiamo di fronte.
Deliberare insieme nei luoghi e con i mezzi adatti (gli strumenti della deliberazione esistono e funzionano ormai in tutte le democrazie, poco nella nostra, che però abusa di Twitter e Facebook). E non solo decidere e poi comunicare o lanciare slogan su un futuro troppo lontano.
Si farà? La speranza, come si dice sovente, è l’ultima a morire. Da dove cominciare a deliberare insieme? Scuola, disoccupazione, immigrazione. Troppe cose? Non è colpa dei cittadini se i nodi al pettine, localmente e a livello nazionale, sono diventati così tanti.