Le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre hanno riguardato un numero ristretto di Comuni, anche se fra essi ci sono quelli delle città più grandi (Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna). Come al solito, i commenti si sprecano, ma almeno per una volta c’è un punto che tutti riconoscono: i risultati migliori li ha ottenuti il centrosinistra, a spese della destra e dei cinquestelle. E questo contrasta con i sondaggi che da molto tempo sembrano dire il contrario; salvo che per quanto riguarda la crisi dei “grillini”, ora “contiani”. Ma è proprio così?
Chi crede che molti elettori prima orientati verso la destra abbiano cambiato idea, si sbaglia. E sbaglia ancor più se ne ricava un pronostico per le future elezioni politiche fra venti mesi (se non saranno anticipate). Il dato di fondo è che a votare è andato sì e no un elettore su due. In sostanza, è accaduto che questa volta quelli rimasti a casa sono, in prevalenza, elettori che in passato avevano votato a destra, e che quando ci torneranno voteranno a destra di nuovo. E perché non ci sono andati? Non voglio adesso dare una risposta a questa domanda. Voglio invece vedere il fenomeno da un punto di vista più ampio.
L’astensionismo è un segnale di sfiducia e disinteresse, in più falsa il dibattito politico, e ne vediamo gli effetti. I capi dei partiti hanno capito che il loro problema non è quello di allargare il loro elettorato, ma quello di convincere i propri seguaci a uscire di casa e andare a votare. C’è una differenza notevole.
Per attirare nuovi elettori, bisogna trovare argomenti che siano, quanto più possibile, ragionevoli e di interesse generale; abbandonare le posizioni estremistiche e faziose. Il contrario di quello che bisogna fare se invece si vogliono fanatizzare i propri tifosi. Gli slogan urlati e rilanciati ossessivamente servono proprio a questo.
E così pure le cosiddette fughe in avanti, le proposte di nessuna utilità pratica ma che “fanno scena”. Oppure certe proposte che, magari buone, hanno il difetto di non essere realizzabili con i mezzi che abbiamo. Se questo è il populismo, è un frutto perverso dell’astensionismo.