Il cinquantesimo di sacerdozio, celebrato qualche giorno fa a Roma, è stata per don Saulo Scarabattoli non soltanto l’occasione per rivedere i vecchi compagni di corso. Dopo la messa a Santa Marta, infatti, il parroco di Perugia che ha partecipato al Sinodo sulla famiglia è stato ricevuto da Francesco per un saluto: “Sono tornato a casa con una bellissima sensazione di speranza e di apertura. Ho ringraziato il Papa, perché noi parroci possiamo contare sulla sua benedizione e la sua esortazione a uscire. Se mi avesse detto: devi portare l’armatura di ferro della dottrina e farla indossare alle persone, sarei stato angosciato perché non avrei trovato nessuno a cui l’armatura sarebbe stata adeguata. Ma Francesco ci invita a curare le persone, allora posso andare con fiducia. Porto un vestito adatto a ciascuno, cucito su misura per coprire la nudità della desolazione, dell’amarezza, della solitudine. È un vestito di festa”.
Dall’Esortazione apostolica si apprende che la “logica dell’integrazione” è la “chiave” dell’accompagnamento pastorale delle situazioni dette “irregolari”.
“Discernimento e integrazione sono i termini forti per quel che riguarda l’accoglienza delle situazioni difficili. L’Esortazione è la fioritura dei semi gettati durante il Sinodo, anche tra qualche erbaccia. Tutte le porte sono aperte. Questo non significa che il Papa percorra ogni sentiero, ma che lascia a noi parroci la libertà di andare incontro alle persone in carne e ossa. Se ci fossero state porte chiuse, la dottrina sarebbe stata un’armatura di ferro conservata in un castello e noi parroci saremmo diventati i custodi del museo. Nell’accompagnamento dei giovani al matrimonio, Francesco suggerisce “un maggiore coinvolgimento dell’intera comunità privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie”. Dobbiamo comunicare alle coppie di fidanzati la bellezza di quello che il Signore gli promette e che è possibile vivere il “per sempre”. I giovani non devono temere di impegnarsi: spesso si domandano “Cosa succederà?” e non “Cosa posso fare perché accada il bene?”. La preparazione è fondamentale, perché se butto nei campi il loglio non posso attendermi fiori sgargianti. Le famiglie e i genitori dei fidanzati sono la prima scuola esistenziale per convincersi che valga la pena. Nelle parrocchie dobbiamo accogliere le speranze, soprattutto quando l’esempio che i ragazzi hanno davanti non è sano”.
“La Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio”. Perché molti giovani non hanno fiducia nel matrimonio e scelgono la convivenza?
“Non credo che la convivenza sia un dramma per quanti non sono arrivati alla maturità della scelta matrimoniale. Piuttosto che un matrimonio avventato, è meglio una onesta convivenza in cui iniziare a sperimentare valori umani positivi. Considero la convivenza come una fase iniziale per chi non si sente ancora pronto. E poi parliamo apertamente: se i messalizzanti bene che vada sono il 25 per cento degli italiani, anche i matrimoni cattolici dovrebbero essere di analoga percentuale. Io invito le persone a celebrare il matrimonio, ma le aiuto a scegliere partendo dalle loro condizioni di vita”.
“Adeguato discernimento personale e pastorale” è richiesto anche nei confronti dei divorziati che vivono una nuova unione.
“Da quando sono andato al Sinodo, ho incontrato soltanto due situazioni irregolari che sto seguendo. Li accompagno fino ai piedi dell’altare. Tendere le mani per prendere l’Eucarestia dipende dalla singola persona, non è il prete che può decidere se darla o meno. Io mi limito a chiedere di interrogare la coscienza davanti al Signore, perché nessuno è escluso. Come prete darò sempre l’Eucarestia. Se vedo mani aperte, penso che anche il cuore lo sia. E allora chi sono io per decidere chi non può prendere l’Eucarestia?”.
Lei è anche cappellano della sezione sezione femminile del Carcere di Perugia. Si può parlare di famiglia anche dietro le sbarre?
“La famiglia in carcere è inesistente. Non c’è la possibilità di avere contatti quotidiani, quando va bene si parla di una telefonata a settimana. È possibile conservare dei legami, ma è faticoso. Gran parte delle persone in carcere, poi, non sono sposate. Una buona parte delle donne ha compagni e non mariti, sono convivenze di fatto virtuali. Molte di loro non hanno esperienza di famiglia, né in quella di origine né in quella che hanno provato a costruire”.