Venerdì scorso i volontari, gli operatori della cooperativa sociale “L’albero di Zaccheo”, gli amministratori si sono ritrovati sull’aia dell’azienda agricola biologica “Le Cascine” per una serata di amicizia e di festa. Non era mai stata inaugurata ufficialmente questa attività.
L’esperienza delle Cascine si propone di produrre ortaggi e frutta rigorosamente biologici. La cooperativa sociale permette di dare una seconda possibilità a tante persone che hanno avuto la vita a pezzi. E sono tante quelle che quotidianamente bussano alla porta della Caritas. Alle Cascine si può avere una prima risposta a tanti bisogni esistenziali. Qui infatti frequentano una specifica formazione anche i richiedenti asilo ospitati dalla Caritas. Durante la serata, la testimonianza che proponiamo ha ricordato il lato umano dell’accoglienza.
La testimonianza
“Ore 10.15, telefonata dalla prefettura: ‘Abbiamo due iracheni, che fate, li prendete?’. ‘Certo, abbiamo posto’. Così, naturalmente, grazie a una voce sconosciuta dall’altro capo del telefono, comincia una nuova esperienza umana. Arrivano intontiti, spaesati, con un sacchetto di plastica in mano che nasconde qualche cianfrusaglia, un paio di ciabatte o poco più. E si procede con quello che c’è da fare, con semplicità e senso pratico, senza trascurare gli obblighi impartiti dai pro- tocolli ufficiali, senza disattendere le loro aspettative del momento, ridotte al desiderio di un attimo di pace e a un po’ di riposo. Ci sarà tempo per approfondire, e andare a indagare sul perché o il percome ci ritroviamo qui questi due.
Appena possibile, viene permesso loro di telefonare a qualcuno, non sappiamo chi, forse il padre, la moglie o a un figlio. E così si avvia una lunga conversazione telefonica con questi familiari dei quali posso sentire le grida di giubilo dall’altro capo del telefono. Sono incuriosita, ma è un momento intimo, da non violare.
Gli occhi gonfi di pianto trattenuto a stento di fronte a un’estranea, segno di un traguardo raggiunto, aspettativa di una vita migliore, un sogno di pace e sicurezza, riversato a fiumi in una lingua sconosciuta. Guardo le loro mani, le loro bocche, il loro corpo pronto a un abbraccio impossibile.
Caro amico – penso – , non sai ancora quanto dovrai penare! Sei colui che viene qua a complicarmi la vita, a pretendere di avere ciò che ho io, mi costringi a fare i conti con me stessa, a dividere con te quel poco che ho, a farti spazio nel mio mondo, a beneficiare dei miei privilegi, dividere con te acqua, pane e terra. Il mio egoismo urla: torna a casa tua! Anzi, perché sei partito? Con quei soldi del viaggio ci avresti campato da signore, non hai una professione, sai a mala pena leggere e scrivere…
Perché sei qui? Continuo a domandarmelo lasciando la domanda senza risposta, ma solo con la certezza di fare un passo verso la cosa giusta, piuttosto che girare il capo e correre verso il precipizio: sì, questo temo! Il precipizio della paura, del pregiudizio, della preclusione, della mancanza di fede”.