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L’agricoltura umbra è in difficoltà, e la produzione di “agroenergie” può evitare la chiusura di tante aziende. Le “agroenergie” sono quelle prodotte con la trasformazione di cereali, verdure, scarti di produzione ed anche letame e liquami. Con processi vari si ottengono biogas, e da questi anche energia elettrica. Le associazioni di categoria degli agricoltori nei giorni scorsi in una conferenza stampa hanno denunciato che in Umbria “interpretazioni errate” della Regione e degli enti locali, “barriere spesso ideologiche ed immotivate” ed ostacoli burocratici di tutti i tipi hanno bloccato impianti di questo tipo, spesso con gravi danni economici per le imprese che li hanno realizzati, ed importanti investimenti.
Hanno pertanto lanciato un appello alla politica, agli ambientalisti ed all’opinione pubblica in generale: questi impianti, con le moderne tecnologie e nel rispetto della normativa vigente, non recano alcun danno all’ambiente. Lo testimoniano le esperienze in altre regioni italiane, e soprattutto in tutti i Paesi del Nord-Europa dove l’ambiente è molto più rispettato e tutelato che in Italia. Se gli agricoltori – è stato detto – saranno costretti a chiudere le aziende e ad abbandonare i loro campi l’Umbria, “il cuore verde d’Italia”, perderà i custodi più preziosi delle sue campagne e dei suoi paesaggi.
Alla conferenza stampa hanno partecipato rappresentanti di Confagricoltura, Cia, Confindustria, Anca Legacoop, Fedagri Confcooperative ed Ordine nazionale degli agronomi. L’agricoltura è in crisi per tanti motivi, uno dei quali sono le speculazioni in Borsa. Anche i prodotti agricoli, ed in particolare grano, mais, soia e cereali in genere, sono entrati nel listino di questo grande casinò globale, con prezzi che oscillano da un giorno all’altro sulla base delle strategie degli scommettitori e che non hanno più alcuna corrispondenza con il valore reale e con i costi di produzione di chi suda e lavora i campi. L’agricoltore insomma, quando semina grano o granturco, non sa mai a quale prezzo potrà venderlo, e negli ultimi anni spesso ha investito e lavorato in perdita.
“Coltivare cereali per poi destinarli agli impianti per il biogas – ha spiegato Fabio Rossi, presidente regionale della Confagricoltura e della Fattoria autonoma tabacchi (Fat) di Città di Castello – per gli agricoltori in molti casi è più remunerativo della vendita per gli usi tradizionali nell’alimentazione di persone ed animali. Ma sono proprio gli introiti delle agroenergie – ha sottolineato – che consentono alle aziende ed alle cooperative di piccoli agricoltori di continuare a coltivare cereali anche per quelli che erano gli usi tradizionali, dal pane al mangime per gli animali. Ed in assoluta sicurezza per l’ambiente perché, ad esempio, il processo di digestione anaerobica per la trasformazione di cereali in biogas non produce esalazioni di alcun tipo, e i residui non sono né tossici, né pericolosi per l’ambiente e per la salute umana”.
È stata proprio la Fat, una cooperativa con un secolo di vita che ha circa 500 soci che producono tabacco e cereali e dà lavoro ad un migliaio di persone, a presentare un ricorso al Tar contro provedimenti della Provincia di Perugia e del Comune di Città di Castello. Il Tar ha dato ragione alla cooperativa. I residui dell’impianto di trasformazione di cereali in biogas (tecnicamente si chiamano “digestato”), contrariamente a quanto sostenuto da Provincia e Comune, non sono tossici e pericolosi per la salute, e possono essere sparsi nei terreni agricoli in aggiunta al letame. Una “vittoria” giuridica che, confortata anche da tante altre sentenze in materia, è stata salutata con soddisfazione dai rappresentanti delle associazioni intervenute alla conferenza stampa: Lorenzo Mariani (direttore Fedagri – Confcooperative Umbria), Aurelio Forcignanò (direttore Confindustria Perugia), Domenico Brugnoni (presidente Cia Umbria) e Graziano Pedetti (presidente Anca Legacoop Umbria).
Tutti hanno auspicato che opinione pubblica, comitati ed ambientalisti ricevano informazioni “non distorte” su questi impianti. Quelli attivi in Umbria – è stato detto – proprio per questa “ostilità diffusa ed incomprensibile” si contano sul palmo di una mano, mentre in tutta Italia ce ne sono circa 600 e migliaia nel Nord Europa, a cominciare dall’Austria dove ci sono norme di tutela ambientale molto più rigide che in Italia. Chiedono pertanto alla politica un “immediato cambio di rotta” ed alla burocrazia di non essere più di ostacolo per aziende rispettose delle leggi e che con i loro investimenti creano sviluppo e ricchezza in Umbria. “Stiamo perdendo tante occasioni anche in altri settori” ha detto Forcignanò, e questo è “solo un caso emblematico” di una situazione che scoraggia gli investimenti e rende più dura la vita ad aziende ed imprenditori.
La questione
Il Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, ha accolto il ricorso della Fattoria autonoma tabacchi (Fat) contro i provvedimenti della Provincia di Perugia e del Comune di Città di Castello, confermando quanto già contenuto nel decreto ambientale n. 152/2006, ovvero il “digestato” ottenuto da impianti a biogas è un “ammendante” e non un rifiuto. Quindi riconosce il diritto della Fat a “trattare il digestato da essa prodotto al fine di produrre, per mezzo del proprio impianto, energia tramite il processo di digestione anaerobica, nonché di utilizzarlo agronomicamente, dopo tale processo, quale ammendante da spargere nei terreni agricoli”. Perciò il digestato Fat non è né tossico né pericoloso per l’ambiente e per la salute umana.