Agendo da cattolici “e” cittadini

Presentazione del volume “Poliarchia e bene comune. Chiesa, economia e politica per la crescita dell’Umbria”

Una riflessione a più voci, come un discernimento comunitario a largo spettro sul bene comune e la sua problematicità nella terra umbra, è approdata alle pagine di un libro, che è stato presentato lunedì scorso in una pubblica, affollata assemblea in sala dei Notari a Perugia, alla presenza delle maggiori autorità regionali e di alcuni vescovi umbri. Si è trattato della presentazione di un volume edito dal Mulino, titolato Poliarchia e bene comune. Chiesa, economia e politica per la crescita dell’Umbria, a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei, con un saggio introduttivo di mons. Vincenzo Paglia. Il volume raccoglie le relazioni svolte in un convegno ecclesiale, aperto a tutte le realtà sociali, che si è tenuto nel dicembre 2009 ad Assisi. La novità di questa operazione consiste nel fatto che è stata promossa dalla Chiesa della regione, presieduta dal presidente della Conferenza episcopale umbra e fatta propria da tutta la comunità ecclesiale. Mons. Paglia ha detto le ragioni di questa iniziativa nella sua introduzione con un discorso illuminato in cui ha inteso dimostrare che la Chiesa non può e non vuole rimanere confinata nelle zona del sacro, e tanto meno nelle oscure sacrestie, perché è chiamata a stare nella piazza della città, al centro della vita collettiva, non per conquistare un potere, ma per amore. La Chiesa, infatti, è interessata all’uomo e a tutte le sue esigenze, le sue aspirazioni, i suoi problemi. Ha citato l’incipit della Gaudium et spes, ove si dice che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”. Ma come fare questo se non interessandosi concretamente alle condizioni della vita di tutti? Quando nella Bibbia si parla di salvezza – afferma Paglia – non si fa un discorso spiritualistico, quasi si riferisse alla salvezza dell’anima del singolo, ma si intende la salvezza dell’intera città. In essa nessuno è padrone esclusivo e nessuno può essere escluso. La città è per sua natura plurale, non monarchica, né di una parte o dell’altra. Nella piazza della città c’è spazio per tutti e tutti possono concorrere al bene comune. La Chiesa non si può tirar fuori, in disparte, ma deve lasciarsi coinvolgere e coinvolgere a sua volta gli altri poteri, in un sistema, appunto, “poliarchico”. In questa prospettiva la Chiesa può entrare nel merito delle questioni in discussione, senza pretendere di dire l’ultima parola, ma senza complessi d’inferiorità, mettendosi a confronto leale con le istituzioni e la società civile, sentendosi dentro e parte di essa. Non si può ragionare con la categoria del dentro e del fuori: siamo tutti dentro. Una prospettiva sinteticamente esposta da Paglia è tratta dal n. 6 della dichiarazione Dignitatis humanae dove si descrive il bene comune come “l’insieme delle condizioni sociali grazie alle quali gli uomini possono raggiungere il loro perfezionamento attraverso la cooperazione tanto dei cittadini quanto dei gruppi sociali, potestà civili, Chiesa e altre comunità religiose, ciascuno nel modo suo proprio, tenendo conto del loro specifico dovere verso il bene comune”. Sulla linea di mons. Paglia si è inoltrato Giuliano Amato, invitato a presentare il libro insieme a Galli della Loggia. Amato ha ribadito la necessaria e fisiologica distinzione tra potere politico e potere religioso, precisando, con riferimenti storici del Risorgimento italiano, che divisione dei poteri non significa divisione nel popolo tra cittadini credenti e cittadini laici. Questo purtroppo è in qualche modo avvenuto a causa del Non expedit, cui è corrisposto, da parte della politica e della cultura laica, l’ostracismo dei credenti e della religione dalla sfera pubblica. Si è ritenuto da molti, e si ritiene tutt’oggi, che la religione sia un fatto privato e che debba essere tenuta fuori della sfera pubblica. Questa è una palese ingiustizia perché, mentre il laico può entrare nella politica portando tutto il bagaglio del proprio pensiero e delle proprie convinzioni, per una cattiva interpretazione della laicità dello Stato, il credente dovrebbe comportarsi “come se” non fosse credente, come se non avesse un proprio corredo di principi e valori derivati dalla sua fede religiosa. In qualche modo deve entrare culturalmente “nudo” nella sfera pubblica, e ciò segna una palese ingiustizia. Il discorso si è fatto ancora più calzante nella proposta di un sillogismo nel quale Amato ha messo in gioco il futuro, l’etica e la religione. Oggi, egli ha detto, non si dà un futuro ai giovani. L’unico futuro sicuro che essi avranno è quello del debito pubblico che nessuno vuol pagare. Ma il futuro non si costruisce senza un’etica sociale che spinga cittadini e governanti ad assumere responsabilmente sacrifici, limitazioni e rinunce, proprio per garantire un futuro alle giovani generazioni. Poi si è domandato se possa sostenersi un’etica senza una motivazione religiosa, che provochi quell’“innalzamento” dei sentimenti e dei pensieri degli uomini, di cui parla Paglia, sottraendoli all’angusta prospettiva di quell’eterno presente che Amato ha chiamato “il presente dei nostri peccati”.

AUTORE: Elio Bromuri