Li chiamano Neet, un acronimo che sta per Not in Education, Employment or Training. Sono quei giovani che non studiano, non lavorano e non fanno formazione. Una schiera nutrita e in forte crescita, così dicono i dati Istat 2020, soprattutto dopo la brusca frenata che il Covid19 ha inferto all’economia mondiale.
Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, nell’ultimo trimestre 2020 ha sfiorato il 30%, posizionando l’Italia tra gli ultimi Paesi in classifica nell’area euro.
I Neet sono “figli” della crisi economico-finanziaria, ma anche la conseguenza di una cattiva gestione dei percorsi formativi ed educativi. I giovani che entrano nel limbo dei Neet non hanno avuto probabilmente una adeguata possibilità di orientare correttamente le proprie scelte scolastiche, di approfondire e sviluppare le proprie attitudini e di fare esperienze autentiche rispetto ai propri desideri.
Alcuni dati
Nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni, l’incremento più significativo dei Neet riguarda regioni come Marche (+26,3%), Lombardia (+25,9%), Molise (+21,4%) e Liguria (+20,3%), mentre l’incremento a livello nazionale è del 5%. Da registrare il calo registrato nel Mezzogiorno (-2,9%), con la Sardegna che mostra il decremento più forte (-12,8%), seguita da Friuli Venezia Giulia (-8,9%), Calabria (-8,6%) e Abruzzo (-5,6%).
A livello nazionale, invece, nel 2020 i giovani Neet sono cresciuti rispetto al 2019 di 53mila unità sempre nella fascia d’età 15-24 (superando abbondantemente il milione).
Nei dati, inoltre, emerge un sostanziale divario di genere: la condizione pare essere più diffusa tra le ragazze che, ancora una volta, testimoniano la difficoltà di essere “donna” nell’ambito del lavoro e dei percorsi di specializzazioni rivolti alla professione.
… e la questione educativa
La questione dei Neet evidenzia una importante avaria di sistema che mette in crisi le famiglie, che vedono sempre più i figli permanere in casa senza apparente prospettiva di impiego futuro o attività. Soprattutto, però, il fenomeno crea una forte ipoteca sul domani della nostra società.
Paghiamo lo scotto del peccato originale del relativismo culturale e del disfattismo sociale degli ultimi anni. La criticità nasce dalla falsa premessa che l’educazione sia stata considerata per anni (e continua a esserlo) un fatto privato all’interno dei nuclei familiari e che non sia da inquadrare in un sistema progettuale e strutturato.
Ai nostri giovani sono mancati centri di aggregazione (oltre a quelli istituzionali), efficaci politiche mirate a valorizzare risorse e capacità dei singoli individui, sollecitazioni e stimoli soprattutto nei territori periferici e degradati.
La famiglia, poi, spesso non è in grado di sostenere il peso e la responsabilità del percorso educativo, per mancanza di consapevolezza o per la pressione economica e lavorativa a cui è sottoposta. Per non parlare delle difficoltà relative a quest’ultimo anno.
Puntare all’alleanza
Per essere efficaci occorre che le diverse istituzioni lavorino insieme al fine di stimolare nel Paese una cultura di alleanza tra generi, generazioni e parti sociali, che si realizzi come alleanza educativa.
L’empowerment giovanile, che anche a livello europeo ci viene sollecitato, si può realizzare soltanto attraverso una progettualità integrata, che guardi in prospettiva e che si fondi su buone sinergie sociali.
Silvia Rossetti