“Come va? Non c’è male!”. In genere rispondiamo con questa inconscia litote a quello stereotipato interrogativo di maniera. Litote: invece di affermare una certa cosa, nego il suo contrario. Roba di una routine talmente routinaria che non se ne accorge nessuno.
Potrei ricorrere anch’io a questa consunta figura retorica per esprimere l’impressione che ho avuto dalla partecipazione, il primo dicembre scorso, al consiglio dell’Acradu, Associazione cattolica delle residenze per anziani e disabili dell’Umbria. Ci sono tornato anni dopo, dopo che don Roberto Revelant, che nell’Acradu ha rappresentato a lungo la mia Comunità di Capodarco dell’Umbria, l’ha lasciata per assumere il servizio di direttore della Caritas diocesana di Gubbio.
Due giorni dopo il nuovo (nuovo per me) direttore del Serafico, Giocondo Leonardi, antica e molto apprezzata conoscenza, sempre nel campo del servizio ai più deboli, anche se in altra veste, mi ha inviato lo statuto dell’Acradu, tra i cui firmatari (guarda guarda!) figuravo anch’io. Da quello statuto chiaramente si capisce che questa associazione di secondo livello (Associazione di associazioni) che è l’Acradu da una parte sul piano giuridico si pone come rappresentanza para/sindacale delle Associazioni iscritte (e una volta, in diversi documenti ufficiali della Regione, aveva il riconoscimento esplicito di questo suo ruolo, ora non più), dall’altra sul piano ideale insiste nel presentare lo specifico che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, le nostre realtà d’ispirazione evangelica nei confronti di altre realtà che lavorano nel campo della disabilità con l’intento di svolgere con coscienza un lavoro importante.
Il nostro specifico – dice lo statuto dell’Acradu- è il Primato della persona. Quelli di cui ci facciamo carico, prima di essere dei pazienti, sono persone. Bene. Ma che comporta, nella ferialità concreta di ogni giorno, l’aver collocato questo pilastro (il primato della Persona) al centro di tutta la costruzione? Vivere il primato della persona sulla frontiera della disabilità vuol dire innanzitutto battersi a fondo contro l’emarginazione dell’handicappato. L’handicap è … quello che è. Io ho perso un arto attraversando incautamente un binario; io soffro di distrofia, in quanto il mio apparato muscolare perde progressivamente di tono; io sono nato con un cromosoma per traverso, io (è il caso di mio figlio Franco) una volta che ho ridotto i termosifoni a “faffoni” e ho ribattezzato “Bacoletta” la mia carissima Nicoletta, non torno più indietro: “faffoni” sono e “faffoni” restano, “Bacoletta” è e “Bacoletta” rimane. Beh! Basta tanto poco per concludere che nella vita non c’è un posto per me? Un posto in cui possa fare quello che so fare. Grande o piccolo che sia poco importa. Un posto.