Cercatori di verità. Dobbiamo essere cercatori di verità, perché è il servizio profondo del nostro vivere, del nostro soffrire e del nostro morire – ha sostenuto l’arcivescovo di Perugia mons. Giuseppe Chiaretti nell’aprire i lavori. Il presule ha definito l’evento “un incontro insolito per la Chiesa, abituata a ragionare delle sue cose nelle mura ecclesiali. Questa volta, abbiamo voluto aprire gli orizzonti per far sì che la verità sia sempre più condivisa dai cristiani”.
Soffermandosi sul modo con il quale “la Chiesa comunica i suoi messaggi al mondo della comunicazione”, il direttore dell’Ufficio regionale per le comunicazioni sociali della Ceu, mons. Elio Bromuri, ha avvertito: “Spesso noi non comunichiamo le cose più importanti alla comunità, limitandoci ad una comunicazione superficiale… Mentre la comunicazione è vita, è qualità della vita di ogni comunità”. Abbandonare “la cultura del bollettino”.
Quattro gli elementi che devono caratterizzare “la professione del giornalista che è alla ricerca della verità”: silenzio, ascolto, studio e nascondimento. Ad affermarlo il sociologo umbro Luca Diotallevi, secondo il quale “la Chiesa, in particolare quella umbra, pone poca attenzione allo stato economico delle imprese che fanno comunicazione. Nel mercato dell’informazione, la qualità premia. Questo non accade in Italia”.
Il sociologo ha quindi evidenziato “il rapporto insano” esistente nella regione tra operatori della comunicazione e politica: “Una deferenza dei giornalisti umbri verso le amministrazioni” che “porta ad assenza di inchieste e di interviste di qualità, e a commenti politici fatti dagli stessi politici. La Chiesa umbra è tra le poche istituzioni che difende una società aperta”.
Dal sociologo l’invito alla Chiesa ad “abbandonare la cultura del bollettino. Vanno bene gli uffici stampa delle diocesi, i giornali cattolici, la pastorale della comunicazione. Sono tutte realtà fondamentali, ma sono cose diverse. E devono essere fatte da persone diverse. Su questo, la Chiesa deve ancora lavorare molto; in essa prevale ancora la cultura del bollettino per i ‘nostri’, ignorando che i ‘nostri’ non ci sono più”.
Il convegno prosegue
I lavori si sono conclusi con la presentazione del Corso per animatore della cultura, che si rivolge a giovani diplomati o laureati e il cui intento “è quello di formare competenze e professionalità che possano costituire un valido supporto alle realtà ecclesiali regionali e nazionali nell’affrontare le diverse applicazioni pratiche del mondo della comunicazione (carta stampata, radio, tv tradizionale e web, siti internet, uffici stampa)”.
La Chiesa è se comunica: “Non è uno slogan” ha esordito don Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei “ma una convinzione e una missione. Portare al mondo il Vangelo è il realizzarsi della Chiesa, e fin dal 2001 negli orientamenti pastorali si è scelto il verbo ‘comunicare’, non ‘annunciare’, non ‘evangelizzare'”. Con questa introduzione don Pompili ha aperto il momento dedicato alle riflessioni sulla comunicazione della Chiesa, e in particolare sulle prospettive concrete in Umbria, nel convegno “Cercare la verità per condividerla”.
Il direttore dell’Ucs ha proseguito con un excursus sul rapporto tra Chiesa e media, iniziando dall’Inter mirifica del 1963, documento incentrato sui nuovi mezzi di comunicazione sociale. Da allora, fino al 2004 lungo ed articolato è stato il cammino della Chiesa nel rapporto con questi mezzi. Proprio il 2004 è stato l’anno in cui si è giunti al Direttorio per le comunicazioni sociali nella Chiesa, Comunicazione e missione, attualmente il testo di riferimento in materia.
In esso, ha evidenziato don Pompili, tre prospettive sottolineano il passaggio da una visione strumentale dei media ad un nuovo punto di vista. Innanzitutto vi è la presa di coscienza che i media sono portatori di una nuova mentalità e di nuovi contenuti, un nuovo habitat nel quale la Chiesa è chiamata a vivere. “La comunicazione – ha detto don Pompili – è un dato di fatto ineliminabile soprattutto per la Chiesa, per la quale non può essere un’opzione tra le altre, ma piuttosto deve porsi come una vera e propria missione. A tale scopo è necessario considerare i media come strumenti di cultura e non soltanto come mezzi utili a veicolare semplici messaggi”.
Di qui la necessità che la Chiesa si apra ai media “ponendosi in modo responsabile e consapevole nel territorio mediatico” dotandosi “di uomini e mezzi adeguati a portare avanti l’idea della comunicazione come missione”. In particolare, secondo don Pompili, essa”deve investire sulla formazione di figure professionali adeguate a rendere comprensibile il tesoro del Vangelo, nelle diverse forme linguistiche utilizzate dai media”.
L’idea è creare la figura del “comunicatore ecclesiale”, la cui principale virtù deve essere “l’entusiasmo, la passione per il reale che è sempre sorprendentemente superiore a quel che viene raccontato abitualmente dai media”. Tutto ciò, ha concluso, “potrà avere una continuità”se “all’interno della Chiesa locale si affermerà l’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali”.