Torno al tema della ruminatio. Troppo alto per me? Sì. Ma a volte, a guardare verso l’alto, i nani ci riescono meglio dei giganti.
Tra i maestri di spirito c’è chi per “ruminazione” intende la pura e semplice meditazione continua sulla Parola di Dio: “ruminare” equivale a “mangiare in continuazione”. Giusto. Il nostro spirito, per vivere e crescere, deve alimentarsi della Parola proprio come il nostro corpo, per vivere e crescere, deve poter usufruire ogni giorno dei carboidrati necessari alla bisogna.
Ma nella tradizione dei Padri della Chiesa “ruminare” significa altro: “ruminare” non è solo un mangiare, è un gustare e rigustare. L’abbiamo provato tutti, prima o poi, il gusto inedito di quel certo brano evangelico del quale venimmo a conoscenza il giorno della prima comunione: riletto, magari solo casualmente, a distanza di cinquanta anni, a sera inoltrata, quando finalmente sei riuscito a spegnere la televisione, e sei talmente stanco che anche se volessi non riusciresti a leggere l’interpretazione che di quel brano ha elaborato questo o quell’altro esegeta famoso, tu, quel brano, lo lasci circolare liberamente nei tuoi stressati circuiti mentali, lo lasci galleggiare dentro di te, liberamente…: ecco, all’improvviso esso s’illumina d’una luce nuova e forte, assume un gusto nuovo e forte… e la pace t’invade, e ne senti quasi fisicamente la consolazione.
“T’amo, pio bove”: non so se fosse per questo che Carducci chiamava “pio” l’anonimo mucchino del quale s’era innamorato. Certo il rispetto che i bovini riservano alla masticazione del cibo sa davvero di “pietas”. Il maiale, il più stupido (oltre che il più saporito) di tutti gli animali, il cibo lo ingurgita precipitosamente, grufolando. Il bovino invece rigurgita nella propria cavità orale il cibo solido che ha grossolanamente frammentato nel momento in cui lo ingeriva: e riprende a triturarlo finemente grazie ai movimenti a molla della mandibola, e lo insaliva e se lo gusta, fino in fondo, prima di ingerirlo di nuovo. E intanto vi guarda con occhi liquidi di commozione appena repressa.
“Làsceme gi’ che ci ho da fa’”: è una delle frasi più ricorrenti sulla nostra bocca. “Làsceme gi’ che ci ho da fa’”: come se il mondo avesse bisogno assoluto delle nostre piccole imprese per continuare a girare intorno al proprio asse.
Poi capita, improvviso, quello che capitò a Philippe Noiret, attore spassosissimo nello spassoso film “Amici miei”: dopo un’intera vita spensierata condivisa con amici attempati e birbaccioni come lui, gremita di “zingarate” extra time, alcune fantasiose, altre triviali, il muscolo cardiaco lo avvisa che intende prendersi le ferie, e lui convoca gli amici: “Stavolta ci ho davvero qualcosa di importante da fare”.
È il “da fare” che s’impone a noi ottantenni che non l’abbiamo fatto prima.
Abat Jour – “Ruminatio”, cioè
AUTORE:
Angelo M. Fanucci