Abat jour – Dal conflitto alla comunione

DON ANGELO fanucciContinua, in diocesi di Gubbio, il cammino dell’ecumenismo. A spingere è soprattutto don Stefano Bocciolesi, che quando cammina lo fa come un passerotto implume, ma quando ragiona va avanti come un treno. Per me, che ho vissuto gli anni della demonizzazione del protestantesimo, la lettura del libretto Dal conflitto alla comunione è davvero una gioia: l’hanno scritto insieme, quel piccolo gioiello, teologi cattolici e teologi protestanti: procuratevelo, date retta! Costa 7,50 euro! Quando frequentavo le scuole medie, al termine dell’ora di Religione don Bosone ci confidava, a mezza bocca: “Aò! Verso Pietralunga c’è ’n covo de protestanti: tocca daje a le gambe prima che sia troppo tardi!”, e la sua mano destra oscillava longitudinalmente a mezzo metro dal pavimento a mo’ d’invisibile scimitarra. All’Università del Laterano Piolanti ridicolizzava Lutero come uno che aveva chiamato teologia la paccottiglia che era riuscito a mettere insieme quando la sua attività preferita, quella di stupratore di monache grassocce, gli lasciva del tempo libero. Esagero? Un po’, forse, ma mica troppo.

Oggi, senza bisogno di santificarlo, dobbiamo dire che alcune intuizioni teologiche di Lutero possono arricchire la spiritualità anche di noi cattolici. Prendete la sua polemica contro la messa come sacrificio della croce. Nella versione italiana dell’Attende Domine, raccomandata dalla Cei, cantiamo: “Con il tuo sangue lava i nostri cuori”. E tra i “144.000 segnati” l’Apocalisse individua i recenti martiri della persecuzione di Domiziano come “coloro che hanno reso candide le loro vesti col sangue dell’Agnello”. Ma quando mai il sangue ha salvato qualcuno? E poi chi ci autorizza a fare della sofferenza un valore, quando la nostra umanità, e anche quella di Gesù, la rifiuta con tutta se stessa? No.

L’importanza che attribuiamo al sangue è un retaggio di quando anche tutti noi identificavamo il sangue con la vita, per cui offrire a Dio il nostro sangue era offrigli la vita. Un’idea che resiste ancora tra i nostri fratelli musulmani, i quali non solo non mangiano i suini (ah, i fegatelli ’nco l’onnauro!) per i noti motivi di prevenzione della salute in climi torridi, ma anche degli altri animali si cibano solo se i tapini, regolarmente defunti, hanno perso il sangue fino all’ultima goccia. Ovvio, se è vero che il sangue non si limita a significare la vita, ma si identifica con la vita. Non il sangue né la sofferenza ci hanno salvato, ma quello che c’era dietro quel sangue, quello che c’era dietro quella sofferenza: la divina, incommensurabile volontà di condividere fino all’estremo limite non semplicemente la nostra natura umana, ma la nostra umana condizione, radicalmente, fino a fare di Lui e noi una realtà unica, il suo Corpo mistico. È vicina Pasqua. Molto vicina.