Sei furono le nuove Preghiere eucaristiche consentite dalla Chiesa nel 1983, “ad experimentum”, sulla scia delle indicazioni offerte dal Sinodo svizzero: un experimentum che dura da oltre trent’anni e – grazie a Dio – promette di diventare consuetudine: oserei sperare che i miei confratelli le scegliessero molto più spesso, nel quadro di una catechesi mistagogica essenziale per quei fedeli, fin troppo numerosi, che trovano appena il tempo per la messa domenicale.
Tra queste sei Preghiere, la quinta (la I “di riconciliazione”) è quella più intensamente poetica. Nel prefazio ci si rivolge a un Dio che non si limita a chiamare l’uomo, ma “continua a chiamarlo”, con l’insistenza un po’ folle del pastore che cerca solo la centesima pecora, che ha il solo “merito” di essersi smarrita. E il pensiero va ai milioni, miliardi di strade che il Signore costruisce ogni giorno, una diversa dall’altra, tutte personalizzate, perché ogni uomo possa entrare nel Regno.
La coppie semantiche che occupano per intero il prefazio ci incalzano, come inviti sferzanti a uscire dalla banalità, se vogliamo veramente arrenderci a Dio: onnipotenza – perdono; tradimento dell’Alleanza – instaurazione di un vincolo ancora più saldo, infrangibile; lode silenziosa – servizio infaticabile; l’antica strada verso Dio ritrovata – una strada nuova tracciata dallo Spirito che soffia dove vuole. Sferzati, spinti ad avanzare, fino a trovarci di fronte a un oceano di stupore e di gioia per una salvezza sempre ritrovata. Salvezza: non un gruzzolo da mettere da parte per attingervi ogni tanto qualche spicciolo, ma un prodigioso giovane pollone che, inserito su di un tronco vecchissimo, è capace di rifiorire a ogni stagione e dare frutti.
Ma l’ala della poesia, in questa quinta Preghiera eucaristica, è nel racconto della Cena che introduce alla consacrazione: “Eravamo morti a causa del peccato, eravamo incapaci di accostarci a Te, ma Tu ci hai dato la prova suprema della tua misericordia quando il tuo Figlio, il solo giusto, si è consegnato nelle nostre mani e si è lasciato inchiodare sulla croce. Prima di stendere le braccia fra il cielo e la terra, in segno di perenne alleanza…”.
Quando Antonello da Messina, e tanti altri grandi della pittura, dipingevano la croce di Gesù altissima, isolata nel cielo, lontanissima dagli sputi di coloro che lo odiavano e dalle lacrime di coloro che lo amavano, sottolineavano questo abbraccio grande quant’è grande l’universo, forte più di tutta l’energia disseminata nell’universo, dolce più del silenzio che nelle notti d’estate piove su di noi dall’universo. A me stesso e ai miei lettori auguro di sentirsi stretti da questo abbraccio, oggi che è Pasqua. La Pasqua di ieri, di domani, di sempre. La Pasqua di Gesù Figlio di Dio.