A uno diede cinque talenti …

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia XXXIII Domenica del tempo ordinario - anno A

La parabola dei talenti che ci viene narrata in questa domenica segue immediatamente quella delle dieci vergini, continuando la predicazione di Gesù sul regno dei cieli. L’evangelista vuole sottolineare quanto sia decisiva tale predicazione. Cos’è il regno dei cieli? E come si entra in esso? cosa bisogna fare per guadagnarselo? Sono alcuni degli interrogativi che l’evengelista Matteo vuole chiarire. Il linguaggio, tratto dalla vita quotidiana e fatto di immagini e avvenimenti noti a tutti, vuole non solo far comprendere cos’è il regno dei cieli, ma anche far sgorgare dal cuore di chi ascolta la decisione per il regno.

La parabola narra di un uomo il quale, prima di partire per un paese lontano, convoca i tre dipendenti e consegna loro i suoi beni. La sua fiducia in loro è assoluta, tanto che a ognuno affida una grossa somma di talenti. Un solo talento corrispondeva a circa cinquanta chili d’oro. La consistenza del patrimonio fa comprendere l’importanza dell’incarico affidato. Al primo da in gestione cinque talenti, al secondo due e al terzo uno. La consegna, come si vede, è personale. Il padrone sembra rispettare le capacità di ognuno (capacità peraltro sempre notevoli, vista l’enormità della cifra). Tra la partenza e il ritorno del padrone, i tre dipendenti debbono far fruttare la somma data loro.

È chiaro che non ne sono padroni, ma amministratori. Infatti, al suo ritorno il padrone chiederà conto di come hanno amministrato il ricevuto. Il primo dipendente raddoppia il capitale “operando con esso”, il secondo fa altrettanto. Il terzo, invece, nasconde il talento ricevuto in una buca. Il sotterramento del talento non era strano; corrispondeva a un dettato della giurisprudenza rabbinica secondo cui chi, dopo la consegna, sotterra un pegno o un deposito, è liberato da ogni responsabilità. Al ritorno dal padrone, il primo servo si presenta e riceve la lode e la ricompensa.

Il secondo si avvicina e anche lui presenta il doppio di quanto aveva ricevuto, ottenendo una ricompensa. Il terzo si accosta e riconsegna al padrone quell’unico talento che aveva ricevuto. Premette anche il motivo del suo gesto: aveva paura di un padrone esigente e ha voluto mettersi al sicuro secondo la più stretta consuetudine giuridica. Quel talento, quei talenti, sono la vita, non quella astratta ma quella concreta, di tutti i giorni, fatta del rapporto tra noi e il mondo. Essa ci è affidata alla nostra responsabilità perché frutti. Ciascuno ha secondo le sue capacità. Se è vero che non c’è uguale misura per tutti, è anche vero però che nessuno è incapace di far fruttare la vita.

Nessuno può avanzare scuse (la mentalità, il carattere, la stessa malattia e l’indebolimento…) per sottrarsi alla responsabilità di impiegare la propria vita facendola fruttare. Semmai è frequente che la si faccia fruttare solo per se stessi, che la si impieghi solo per il proprio tornaconto, per la propria particolare sicurezza, per la propria tranquillità e basta. Ebbene, è appunto quanto ha fatto il terzo servo: ha sotterrato il talento per avere “pace e sicurezza”, come scrive l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi. Ha preferito nascondere la sua vita nella buca del proprio egoismo, della propria avara tranquillità.

Forse è proprio qui la paura; paura non tanto nei riguardi del padrone quanto di perdere la sua tranquillità. Gesù svela l’ambiguità di colui che non ha nessun desiderio di cambiare, che non ha alcuna aspirazione di trasformare il mondo perché tutti siano più felici. Si contenta di quel che egli è. Nello stesso tempo, però, Gesù mostra che il regno dei cieli inizia quando ognuno di noi, piccolo o grande che sia, forte o debole, non si chiude nell’avarizia e nella grettezza del ripiegamento su se stessi, ma si apre all’impegno per cambiare il proprio cuore e opera perché la vita dei più deboli sia sollevata, perché il mondo sia più vicino al Vangelo. Chi intraprende questa via troverà la propria vita moltiplicata, la propria debolezza trasformata in forza, la povertà in ricchezza, e la gioia sarà piena: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità sul molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

AUTORE: Vincenzo Paglia