Il Vangelo si concentra oggi sulle esigenze di una vera conversione, come la predicava il Battista. La sua voce si fa minacciosa contro coloro che vanno a farsi battezzare nel Giordano senza le dovute disposizioni interiori. Ritengono il rito come un atto esteriore di devozione, niente affatto sincero, quasi superstizioso. Il rude profeta del deserto non usa mezzi termini: definisce questi ipocriti “vipere velenose”, perché hanno in loro il veleno ingannevole del diavolo che si presentò sotto forma di serpente ai progenitori. Sono figli del loro padre. Il veleno mortale che hanno dentro è la sicurezza che viene loro dall’essere figli di Abramo e di non aver bisogno di altro per salvarsi. Ritengono che essere discendenza di Abramo li ponga al sicuro una volta per sempre: non hanno bisogno di convertirsi… Il Battista combatte questa falsa sicurezza dicendo che la scure del suo giudizio sta già intaccando alla radice la vite sacra d’Israele: “Ogni albero che non porta buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9).
La liturgia ha pensato di poter saltare questo inizio minaccioso della predicazione di Giovanni (3,7-9), che constata il rifiuto globale operato da Israele nei confronti del Vangelo, per concentrare l’attenzione sull’aspetto positivo dell’annuncio, più in armonia con l’insegnamento gioioso cristiano. Ciò non vuol dire annacquare le severe esigenze morali del Vangelo con generici messaggi di buonismo laico. Giovanni prima, e Gesù poi, hanno predicato precisi comportamenti di vera conversione, inequivocabili e irrinunciabili, che contraddistinguono il vero credente da un generico e vago moralista. Il Battista mostra così la sua vocazione di battistrada di Cristo come lo aveva presentato l’angelo al padre Zaccaria: “Gli camminerà innanzi… per preparare al Signore un popolo ben disposto” (Lc 1,17). Da qui la domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. Essa è posta a titolo esemplificativo da tre categorie di persone: le folle, i pubblicani e i soldati. Proprio quelle categorie più disprezzate dai benpensanti, che le ritenevano incapaci di impegno morale e di qualsiasi slancio spirituale.
Alle folle Giovanni risponde proponendo un vero e fattivo amore per il prossimo, come farà più tardi Gesù. Convertirsi significa riservare un posto primario a Dio nella propria vita, ma significa contemporaneamente amare il prossimo, colui che vive accanto. I due comandamenti sono una cosa sola (Lc 10,25-28), anzi sono una verifica di autenticità reciproca, tanto che l’amare Dio senza l’amore del fratello è una menzogna e un’illusione. Colpisce il fatto che Giovanni consigli qui opere di amore molto concrete alla portata di tutti, lontane da uno sterile devozionismo fatto di elemosine, di preghiere, di digiuni e pii desideri (Mt 6,1-17). Egli presenta le esigenze più profonde della povertà: il vestito e il cibo. Dice semplicemente: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Tra coloro che erano venuti a farsi battezzare da Giovanni e bivaccavano nei dintorni, c’era chi portava due tuniche, una sopra l’altra, per difendersi dai forti sbalzi di temperature notturne presenti sulle rive del Giordano. Ma c’era anche chi pativa il freddo della notte perché mal vestito. C’era chi pativa la fame nelle lunghe giornate di attesa quando le poche riserve erano finite: i più forniti dovevano provvedere ai più indigenti.
Giovanni proponeva la condivisone che nasce dall’amore e dalla solidarietà. In questo anticipa gli insegnamenti di Gesù sulla carità vicendevole. In mezzo a quella folla eterogenea c’erano anche i pubblicani, che i farisei disprezzavano come incapaci di conversione vera. La loro era una professione esposta all’avarizia e all’arricchimento illecito alle spalle dei clienti nella riscossione di tasse e balzelli. Il vangelo ci mostra che anche questi avevano una coscienza capace di sentire dispiacere per il male compiuto. Tutti sono capaci di pentimento, nessuno è escluso dalla misericordia di Dio. È sbagliato ogni giudizio preventivo.
La conversione non richiede atti eccezionali, al di fuori della vita dell’uomo. Giovanni non esige dai pubblicani pratiche ascetiche e riti speciali, chiede semplicemente di non approfittarsi e di non esigere più del dovuto. Chiede di fare scrupolosamente il proprio dovere con assoluta onestà. Non è certo una richiesta astronomica. Anche i soldati di Erode Antipa, che erano di stanza nel territorio soggetto all’autorità di questo re e dove Giovanni operava, sentono il richiamo del profeta del deserto che esorta ad un vero cambiamento di vita. Quella dei militari era una professione aperta a violenze, a ricatti e a corruzione facilmente intuibili. Anche a loro Giovanni non chiede l’impossibile di gesta eroiche, ma semplicemente di guardarsi dai maltrattamenti, dalle estorsioni e dalle proteste per paghe ritenute troppo esigue. Come si vede, il Battista non chiede a nessuno di rinunciare alla propria professione e al proprio lavoro, ma semplicemente di esercitare il proprio mestiere in maniera onesta e scrupolosa. Non è la professione a fare l’uomo cattivo, ma è l’uomo cattivo a rovinare la professione.
Un’ulteriore domanda degli ascoltatori introduce il nocciolo della predicazione del Battista: “Per caso non è lui il Messia ?”. Egli risponde annunciando Cristo che è il vero scopo della sua missione. Non solo egli non è il Messia atteso, ma davanti a questi si sente piccolo e meno di uno schiavo che slaccia i sandali al suo padrone. Egli è “il più forte”, il potente, il Figlio dell’Altissimo, lui un povero uomo, una voce, un soffio. Il suo battesimo è appena una pallida immagine di quello portato dal vero Messia che sta per venire: è un battesimo di acqua di fronte al battesimo di Spirito santo e fuoco, una Pentecoste con la quale il Messia inonderà il mondo. La sua è la vera salvezza piena e definitiva. Con lui si aprono all’uomo due possibilità: un giudizio di salvezza o un giudizio di condanna.
Non c’è via di mezzo, non c’è via di scampo. Nessuno si salva senza prendere posizione davanti a lui. Giovanni ricorre qui ad un’mmagine agreste all’epoca ben nota: quella del contadino che vaglia il grano sull’aia gettandolo in alto con la pala (il vaglio) perché il vento lo separi dalla pula. La pula è bruciata nel fuoco, mentre il grano è riposto nel granaio come riserva preziosa per tutta la famiglia. Anche qui l’immagine si chiude con una prospettiva positiva: la valorizzazione del buon grano. Il contadino non ha lavorato invano. La frase conclusiva rivela questo messaggio prevalentemente positivo perché definisce la predicazione di Giovanni come un’esortazione (paraklesis) e come un lieto messaggio (evanghelion).