Inizia oggi l’Avvento, che è attesa del Natale e attesa del Signore che verrà alla fine dei tempi. Due attese che si rincorrono nella vita di ciascuno di noi. Il Bambino che contempliamo nel presepio è quel Signore che contempleremo venire sulle nubi del cielo. Vale sempre l’articolo del nostro Credo che recita: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”. Ambedue gli avventi hanno significato salvifico per noi credenti. Essi nutrono la nostra speranza e danno significato alle nostre attese. Il secondo avvento, quello della fine dei tempi, è garantito e preannunciato dal Natale. Il Natale ci invita ad alzare il capo per ricevere il lieto annuncio angelico della nascita del salvatore; la parusìa, cioè il ritorno di Gesù glorificato, ci invita ad innalzare lo sguardo vigilante verso l’incontro definitivo con lui. La gioia del Natale anticipa la gioia della venuta definitiva della nostra redenzione. I primi cristiani cantavano con entusiasmo nelle loro assemblee: “Maranatha! Vieni, Signore nostro!”.
Gesù viene a completare ciò che ha iniziato con la sua prima venuta. Nelle domeniche di Avvento la preparazione al Natale è vista in questo sfondo di attesa della seconda venuta del Signore proclamata dal Vangelo odierno, che apre il nostro cammino liturgico. Le guide in questo itinerario dell’Avvento sono le stesse che hanno preparato il Natale: Giovanni Battista e Maria. Con loro ci incamminiamo in questo pellegrinaggio spirituale verso la grotta di Betlemme e verso il nostro definitivo incontro con Cristo. Il brano del Vangelo di questa domenica è ricavato dal lungo ‘discorso escatologico’ riportato dai tre primi evangelisti, chiamati sinottici, perché riferiscono i fatti in maniera simmetrica e parallela, facilmente leggibili con un unico colpo d’occhio.
In quel discorso si intrecciano due eventi storici: la fine di Gerusalemme, come centro politico-religioso del popolo ebraico, e la fine del mondo come società lontana di Dio, ingiusta ed oppressiva. Due realtà che si somigliano, inglobate l’una nell’altra, in maniera inestricabile. Per un ebreo quale era Gesù, la fine della sua società millenaria era come il crollo del mondo intero. Per descrivere questa fine egli usa il linguaggio tipico dei profeti, che parlano di sconvolgimenti cosmici ogni volta che vedono Dio in azione nel mondo. Dio si muove in una dimensione che gli è congeniale come creatore e signore dell’universo. Egli è disposto a mettere a soqquadro il mondo per ristabilirvi la sua signoria divina salvifica. Da qui la descrizione dello spostamento degli astri, dei maremoti e dei terremoti come segni simbolici del profondo cambiamento dell’ordine sociale del mondo.
Questo scenario apocalittico, che spaventa gli uomini, non sembra aver riempito di paura i credenti. Essi hanno inteso quelle parole come un invito alla speranza e alla gioia dell’incontro con il loro Signore. Si sono sentiti invitati a guardare in faccia la realtà, a sollevare lo sguardo con fiducia nella certezza che la loro liberazione definitiva era ormai vicina. Il giorno dell’Ascensione gli angeli avevano distolto l’attenzione degli apostoli dal loro incanto, dicendo loro: “Quel Gesù che è stato tra voi assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo” (At 1,11). Gesù era salito in cielo entrando in una nube, segno del mondo misterioso e impenetrabile di Dio. Nel discorso escatologico aveva già assicurato che sarebbe tornato allo stesso modo: “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulla nube con potenza e gloria grande”. La nube è ora il simbolo della potenza e della gloria divine. Essa sta a dire che Gesù non verrà nelle sembianze umili di un bambino, come a Betlemme, per essere il Dio-con-noi; verrà nello splendore della sua gloria di Risorto vincitore della morte e del peccato, per essere il giudice che distrugge definitivamente il male e valorizza tutto il bene. Sarà allora rivestito di gloria e potenza.
L’attesa del Signore che caratterizza la speranza cristiana finalmente si compie. È un invito a guardare il mondo con gli occhi di Dio. È come dire: smettete di guardare solo la terra, guardate più spesso il cielo. È un invito ad accorgersi che il mondo sta cambiando, anche se i segni di questo cambiamento ci mettono spesso paura. È come un grande cantiere dove Dio sta lavorando per la ristrutturazione dell’edificio rovinato dagli uomini. Ogni rifacimento genera caos, mette tutto in disordine, distrugge apparentemente per ricostruire in modo più razionale e definitivo. Dio, come sapiente architetto, sa quello che fa. Gli sta a cuore la ristrutturazione della società umana su basi nuove di convivenza e di valori. Ci dice oggi: Non perdete la speranza, “sollevate il vostro capo” come segno di gioiosa attesa. Guardate avanti! Il brano evangelico ci esorta a concorrere per la nostra parte a questo lavoro divino di ristrutturazione del mondo: “Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.
Bando dunque al disimpegno incosciente. Non possiamo stare semplicemente a guardare. Non serve nemmeno la politica dello struzzo, che nasconde la testa sotto terra davanti al pericolo. La venuta di Dio resta inaspettata, imprevedibile, improvvisa. “Attento a non appesantire il cuore”, a non spegnere quello scatto di fede che ci tiene legati a Dio, attento all’invecchiamento, alla sclerosi, alla pesantezza come quella data dall’eccesso di cibo e di alcol. L’evangelista usa il linguaggio crudo parlando di krapula e di methe, per indicare l’intemperanza e le vertigini provocate dall’eccesso dell’alcol. L’intossicazione dell’indifferenza è sempre dietro l’angolo. Molti cristiani non sperano più, non lottano più, non hanno più entusiasmo. In loro c’è come il decadimento fisico dell’alcolista, incapace ormai di reagire ad ogni stimolo. Le parole di Gesù ci invitano a fare la nostra parte, iniziando da noi. La gioia trepidante dell’attesa si deve unire in noi all’impegno di conversione continua, che nasce dalla preghiera e dalla vigilanza sulle passioni.