di Paolo Giulietti
Lo slogan trumpiano America first e il nostrano “Prima gli italiani” vengono presentati dagli autori come strategie (“finalmente!”) libere da buonismo o faciloneria, e ispirate a un sano realismo. Ma è davvero così?
Perché, se è così, noi cristiani non abbiamo più nulla da dire a questa società e ai suoi problemi. Il Vangelo infatti – piaccia o meno – parla di altre logiche, ispirate a condivisione, fiducia, accoglienza, misericordia… in base alle quali il mondo dovrebbe funzionare al meglio (che poi è il succo del concetto di “regno di Dio”).
Se tutto ciò non è realista, cioè non traccia le coordinate di una realtà possibile, ma costituisce un’utopia buona al massimo per i conventi, per sollecitare qualche occasionale elemosina, si deve onestamente concludere che il cristianesimo non è più capace di offrire alcunché di significativo per ciò che attiene alle dinamiche economiche, politiche e sociali che rappresentano una bella fetta della vita delle persone, delle comunità e dei popoli.
Dovremmo quindi accontentarci di una religione tutta privata e spirituale, che si mantenga strettamente nei confini delle sagrestie, degli oratori o dei Centri d’ascolto delle Caritas.
Se però guardiamo dietro la cortina degli slogan, è facile accorgersi che il realismo non sta dove si vuol far credere che sia. È evidente, infatti, che l’irrinunciabile tenore di vita dei popoli “sviluppati” – americani in testa – è incompatibile con la salvaguardia del creato, cioè con la sopravvivenza della specie umana, soprattutto se pensiamo che qualche miliardo di individui desidera acquisirlo (e perché no?). È evidente che un’economia e una politica che non si occupino con decisione di ridurre le diseguaglianze si condannano a investire cifre sempre più rilevanti in armamenti (“sicurezza” la chiamano) e a fomentare incessantemente conflitti regionali, anche su larga scala.
È evidente che una pressione demografica come quella africana, in assenza di un serio progetto di sviluppo e in permanenza degli attuali meccanismi predatori delle risorse di quel Continente, non sarà arginabile a lungo senza esigere un pesantissimo tributo di vite umane. È evidente che la deriva individualista e nichilista delle nostre società – quella italiana in testa – condurrà l’Occidente all’estinzione demografica e alla marginalità economica e culturale. È evidente che le guerre commerciali, alla lunga, produrranno peggiori condizioni di vita generali, col rischio di degenerare in guerre guerreggiate. E l’elenco delle evidenze potrebbe continuare.
Noi cristiani, quindi, abbiamo ancora qualcosina da dire. È infatti più realistico tutto questo o l’invito evangelico a cercare prima “il regno di Dio e la sua giustizia”? Come insegna la dottrina sociale della Chiesa, la pace vera – non quella assai precaria “all’ombra delle baionette” – è l’esito di un giusto ordinamento del mondo, e la condivisione di decisioni e risorse costituisce l’unico modo per assicurare un futuro all’umanità e alla sua “casa comune”.
È più realistica la “globalizzazione dell’indifferenza” o la tensione squisitamente cristiana a riconoscere in ognuno un fratello e a ciascun essere umano un’inviolabile dignità, nella convinzione che le persone non siano un problema, bensì parte della soluzione? È più realistico proporre ai giovani di spendersi per una società come quella attuale, oppure crescerli coltivando in loro la fiducia che “il regno di Dio è vicino”, cioè che il mondo migliore sia a portata di mano di quanti desiderino realizzarlo? Senza illuderli che sia facile o rapido, ma con la certezza che sia una scelta ispirata a sano realismo.