La rilettura del Decalogo inserita nella liturgia di domenica scorsa ha dato la possibilità ai commentatori di mettere il dito su una delle piaghe più dolorose che colpisce da tempo il popolo cristiano di fronte alle scelte politiche. Alla base sta un dato di fatto difficilmente controvertibile: quella che con linguaggio tecnico si può chiamare la selezione dei valori e con linguaggio più immediato e popolare scelta della parte che mi fa comodo. Invano gli organismi preposti hanno tentato di far capire che il pensiero sociale della Chiesa è un pensiero organico che va preso nel suo complesso. Prendere o lasciare, si direbbe. L’appartenenza parziale, la scelta soggettiva che, alla resa dei conti, parte dalla posizione politica scelta, non ha nessuna giustificazione. Anche se ci riferiamo al decalogo, è perfino superfluo ricordare che esso è composto di dieci comandamenti, tutti indispensabili e necessari per poter parlare di ubbidienza alla volontà di Dio. Partiamo da un esempio di vita vissuta. Quando nel convegno di Palermo del 1995 Giovanni Paolo II fece un breve riassunto dei valori a cui tutti quanti i cristiani devono sentirsi vincolati, accennò alla famiglia, alla scuola, si direbbe genericamente ai problemi della bioetica e, insieme, ai temi della giustizia, della pace, della scelta preferenziale dei poveri. Si stenta a credere come su queste espressioni si accendesse subito un’accanita discussione, come se la prima parte non fosse strettamente collegata con la seconda. Su tutto aleggia il principio fondamentale della centralità della persona umana, sempre, dalla nascita alla morte, nella vita personale e sociale, nei suoi diritti e nei suoi doveri, con una particolare attenzione alle fasce di povertà che vivono fra noi e lontano da noi, nella ricerca del dialogo e della pace a ogni costo, nella condanna di ogni forma di violenza e di sopraffazione, nel rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i conflitti internazionali, nella convinzione di una società super-nazionale capace di dettare legge non solo alle nazioni deboli, come normalmente succede, ma anche alle cosiddette superpotenze, le quali si sono arrogate dei diritti che nessuno ha loro concesso. Le conclusioni sono due: primo, che nessuno degli schieramenti politici che chiedono il nostro voto sono completamente in regola con questo programma: secondo, che i cristiani, che militano dentro di essi, hanno il dovere non di ripetere pedissequamente quanto viene detto nelle diverse segreterie di partito, ma di animare cristianamente, anche se in termini laici, il pensiero e i programmi del loro gruppo di appartenenza. Nessuno ha il diritto di indicare praticamente come votare. Questo dipende dalla scienza e dalla coscienza dei singoli elettori. Si tratta chiaramente di scegliere il male minore o, più propriamente, il bene migliore. Ma nessuno ha nemmeno il diritto di condannare colui che milita sul versante opposto. Dire, come si sente purtroppo non molto di rado, che chi vota in un certo modo commette peccato grave è fuori di ogni ordine costituito e di ogni fondamento razionale. Piuttosto si studino attentamente i programmi, si valutino spregiudicatamente i candidati, non solo per quello che dicono, ma anche per quello che sono e per quello che fanno, si confrontino fra loro le personalità di coloro che guidano i due schieramenti, e poi si decida con senso di responsabilità dinanzi a se stessi e alla società.
Il decalogo dimezzato
AUTORE:
Giordano Frosini