Mi trovo a scrivere queste righe lo stesso giorno, il 7 dicembre, in cui quarant’anni fa si concludeva il Concilio Vaticano II. Mi risulta spontaneo e mi sembra giusto ricordare l’evento con le parole del Papa di allora, Paolo VI: ‘Noi concludiamo quest’oggi il Concilio Vaticano II. Lo concludiamo nella pienezza della sua efficienza ‘ Questo concilio consegna alla storia l’immagine della Chiesa cattolica raffigurata da quest’aula, piena di Pastori professanti la medesima fede, spiranti la medesima carità, associati alla medesima comunione di preghiera, di disciplina, di attività, e – ciò che è meraviglioso – tutti desiderosi di una cosa sola, di offrire se stessi, come Cristo nostro Maestro e Signore, per la vita della Chiesa e per la salvezza del mondo’. Quei pastori erano circa duemilacinquecento, provenienti da tutti i continenti. Un grande spettacolo. Il mondo ne è rimasto sorpreso e in qualche modo coinvolto. Il prestigio indiscusso della Chiesa cattolica, durante questi quarant’anni, è dovuto anche a questa immagine che è perdurata. Anche oggi i pastori della Chiesa sparsi nel mondo, e non solo essi, non manifestano immagine difforme e non nutrono diverso desiderio. Il seme del Concilio non è morto e continua a portare frutti. Una nota particolarmente accentuata sul significato ‘religioso’ del Concilio secondo Paolo VI (discorso del 7 dicembre 1965) è costituita da ‘l’interesse e lo studio del mondo’. ‘Mai, forse, come in questa occasione – confessa il Papa – la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento’. È un’affermazione che a Paolo VI sarà attribuita in negativo come una esagerazione (‘In ginocchio davanti al mondo’, sarà detto da un suo amico). Ma non è una nota teologica, né una captatio benevolentiae per poter consegnare con efficacia al mondo i suoi prodotti dottrinali, quanto un sincero amore e una passione per l’uomo, per ogni uomo e per la sorte dell’umanità. La Chiesa di allora era ben consapevole di dover andare alla ricerca di un mondo perduto, di popoli allontanati, di nazioni imprigionate nel falso ideologico e nella dittatura della menzogna. Paolo VI descrive come la scena di un dramma l’incontro dell’uomo con i Padri, il suo ingresso nell’aula conciliare: ‘Tutto l’uomo rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce’. L’uomo misterioso, complesso e contraddittorio, ignoto pure a se stesso e tuttavia ricercato con l’ansia del pastore, il buon pastore, che cerca la pecora smarrita. Agli uomini e donne del nostro tempo la Chiesa consapevole di potersi chiamare ‘ancella dell’umanità’, l’8 dicembre festa dell’Immacolata di quarant’anni fa, nella conclusione solenne, lancia al mondo messaggi di speranza chiamando tutti alla responsabilità: governanti, uomini di pensiero e di scienza, artisti, donne, lavoratori, poveri, ammalati, tutti coloro che soffrono, giovani. In questi messaggi è delineata una specie di Chiesa in concilio ‘permanente’, a servizio ‘permanente’ del mondo, in cui c’è un posto per tutti.
I primi 40 anni del Concilio
AUTORE:
Elio Bromuri