Lo sciopero della fame è l’ultima carta che si gioca per ottenere qualcosa che si ritiene di assoluta necessità. È l’arma dei disperati e di quelli che non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni e non si fidano di coloro che devono giudicare e prendere decisioni. È, in verità, un’arma spuntata per l’uso che ne è stato fatto e comunque sempre segno di un anomalo svolgimento della vita sociale. Quando poi ciò avvenga per sostenere la legittimità di un’illegalità siamo al paradosso. Questo segnale, insieme a molti altri che si evidenziano in periodo elettorale, con i litigi tra partiti e all’interno di essi, i toni eccessivi della propaganda, i personalismi esasperati, sta diventando dominante e ci fa riandare ad un documento dell’Eurispes (Istituto di studi politici, economici e sociali), il Rapporto Italia 2005, in cui mi sono imbattuto sfogliando l’ultimo numero di Civiltà cattolica appena arrivato. Il Presidente dell’Istituto ha detto che ‘da qualsiasi parte la si osservi, la realtà italiana esprime un senso di incompiutezza, l’assenza di qualsiasi razionalità e intenzionalità, il bisogno di un’idea di futuro e di una progettualità d’insieme condivisa quanto meno nelle linee essenziali. Il Paese tentenna e, confuso e abulico, ondeggia incerto sulla strada da intraprendere’. Gian Maria Fara continua osservando che all’Italia non mancano l’intelligenza, risorse e la forza per uscire da questa situazione, ma si sprecano energie in beghe di piccolo gabotaggio, in provvedimenti spesso contrastanti tra loro, nello sforzo dell’apparire e della spettacolarità, insomma in una situazione confusa. L’aspetto ancora più negativo è che di fronte a ciò gli addebiti di responsabilità si rimbalzano dall’una all’altra parte politica e si intrecciano con tutti coloro che in qualche modo operano nei vari settori della società, oppure si scarica sulla Cina, ad esempio, la crisi economica o sull’euro l’aumento dei prezzi o sugli immigrati la criminalità, sulle multinazionali la disoccupazione, sugli ecologisti il rinvio delle grandi opere e così via. Tutte ragioni che possono avere dei fondamenti, ma che non possono giustificare il fatto che l’Italia sia scesa al 47’posto nel campo della competitività (World Economic Forum 2004). E ciò, insieme a tutti gli altri problemi, dovrebbe suscitare un dibattito e un sforzo congiunto di tutte le componenti politiche ed economiche e delle parti sociali per un progetto condiviso, rivolto a raggiungere il bene comune dell’intera comunità nazionale. Si richiede un massimo di convergenza e di concordia affidandosi a ragionamenti oggettivi, non a slogan o improvvisazioni o capricci dimostrativi. Il cicaleccio di tutti che parlano contemporaneamente di tutto, in modo discorde e dissonante è come un rantolo della democrazia. Se non c’è capacità e condizioni di ascolto reciproco e di discernimento, non dico di ciò che è bene e di ciò che è male, con la conseguente demonizzazione degli uni e degli altri, ma di ciò che è più opportuno, più utile e più efficace per il bene della collettività in quel determinato momento in queste precise condizioni. Il richiamo del Rapporto, basato su analisi quantitative e qualitative della situazione italiana, in cui tra l’altro si dice ‘Viviamo in una democrazia malata’, è ripreso da Civiltà cattolica (n 3713, del 5 marzo) che invita a non dimenticare quanto di bene avviene pure nel nostro Paese, ma non trascurando di conoscere i lati negativi che oscurano il vivere civile, abbassano il tono morale della società, provocano sofferenze e danneggiano i giovani da cui dipende il futuro dell’Italia.
‘Democrazia malata’
AUTORE:
Elio Bromuri