Abir Hanna era un’archeologa. In Libano, la sua terra, scavava “cercando le orme dell’uomo”. Oggi è una monaca agostiniana e non respira più la polvere dei millenni ammassati pigri uno sull’altro nel deserto: il suo cantiere è la vita interiore, “dove scavo e mi faccio scavare dal mistero di Dio e dell’umanità”.
Suor Abir Hanna è una delle “Voices of Faith” che l’8 marzo si sono raccontate al palazzo San Carlo, in Vaticano, dove per la prima volta, con religiose e laiche, italiane e straniere, è stata celebrata la Giornata internazionale della donna.
Altro che mimose, il fil rouge è l’impegno: contestualmente, è stato presentato dalla Caritas il premio internazionale “Women Sowers of Development”, Donne che seminano sviluppo, dedicato ai progetti “rosa” per combattere la fame nel mondo (info su www.food.caritas.org).
Le parole di suor Abir Hanna riecheggiano nella sala, rincorrendo la metafora stratigrafica del picchetto che, mentre fende la terra, ne estrae i misteri. “Quando scavavo a Beirut – ricorda – i livelli superficiali rivelavano un contesto poco chiaro. Poi, andando in fondo e indietro nei secoli accavallati, emergevano le rovine ottomane, fenicie, ellenistiche, fino al suolo vergine”, la terra incontaminata che parla dell’integrità della creazione e dell’origine.
“E se fosse così anche dentro di noi?”, si è chiesta un giorno suor Abir, con un’intuizione che ha aperto il suo sguardo alla bellezza di ogni essere umano. “Se oltre gli strati della storia e le ingarbugliate pieghe dell’anima ci fosse questo suolo vergine dove Dio è tutto, dove immagine e somiglianza sono rimaste intatte?”. Da lì, un nuovo percorso, una nuova vita e l’esperienza della “maternità universale” nella vita agostiniana.
Con un abito bianco e blu a fantasia, suor Caritas Ifediba si presenta sul palco ballando e cantando. Questo in Italia per lei è il primo viaggio, finora non aveva mai visto nient’altro che la Nigeria, il suo Paese, dove si occupa di poveri, donne accusate di stregoneria e malati. Come quella bambina con il colera alla quale nessuno voleva donare il sangue. E lei ha detto, allungando il braccio: “Prendete il mio”.
Suor Maria Cristiana Dobner, carmelitana scalza e teologa, incanta la platea mentre le immagini scorrono sulle parole inanellate di poeti, scrittori, scienziati, filosofi. Emmanuel Lévinas, Julia Kristeva, Margherita Hack, Boris Pasternak: “Chi crede non è disoccupato, tuttavia non lavora. Questo è il paradosso di ogni vita cristiana”.
Per il suo impegno con l’organizzazione non governativa “Physycian for Human Rights – Israel”, la missionaria comboniana eritrea suor Azezet Kidane ha anche ricevuto un’onorificenza dall’ex segretario di Stato americano Hillary Clinton. Si dedica a chi è passato attraverso guerre, carestie e difficoltà, a chi è stato torturato ma al mondo non importa. “Quando cammino per le strade di Tel Aviv – racconta – vedo donne passeggiare tenendo i figli stretti al petto. Mi dicono: ‘Io non lo volevo, questo bambino. Ma è tutto quello che ho, mi hanno violentata mentre ero bendata, e ora lui mi dà la forza di vedere la luce’”.
Avvolta in un sari color crema, suor Daphne Sequeira viene dall’India rurale e descrive la condizione femminile in un Paese dove si “esiste” solo se figlie, madri, mogli o sorelle di qualcuno. Alle donne ingannate perché incapaci di leggere e scrivere, zittite e sminuite perché ignoranti, con i corsi di alfabetizzazione e le iniziative di microcredito suor Daphne restituisce cultura e impegno.
Era un impegno politico, invece, quello di Jocelyne Khouelry quando, negli anni ‘70, ha imbracciato le armi per guidare un battaglione di donne nella guerra civile in Libano, in difesa dei cristiani. Una sera, sul tetto di un palazzo, oltre ai i fischi delle bombe sente, inspiegabile, il desiderio di pregare la Madonna. Da consacrata, tenta una riforma del fronte militare, con in mano il Vangelo e non i fucili, per spiegare la differenza tra il diritto a difendersi e la violenza gratuita, e nel 1988 dà vita al movimento mariano “La Femme du 31 Mai Libanese”.
Aveva solo tre anni e mezzo, Sonia Reppucci, quando, travolta da un’auto, ha perso le gambe. Suo fratello ricorda solo un pallone che volava. Lei invece non ricorda nulla, “ed è un bene, perché non conosco niente di quello che non posso fare. Amo tutto ciò che è la mia portata”. Tanta forza di volontà, nella vita di Sonia che prende la patente per essere autonoma, va via da una casa divenuta prigione. Finisce in una comunità per disabili mentali, dove si sentiva “diversa tra i diversi”. Alle protesi alterna la sedia a rotelle. Nonostante tutto, vive, studia, confeziona gioielli artigianali. E chiede: “Chi sono io oggi per non essere felice?”.