Il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II tocca un tema importantissimo per il futuro del cristianesimo e una sfida impegnativa per l’oggi. Papa Francesco, recentemente, ricordando il 50° anniversario dell’Unitatis redintegratio, ha usato parole forti per sottolineare l’assoluta centralità del dialogo ecumenico. E ha detto che, ormai, in tutto il mondo, al di là delle nostre intenzioni e delle nostre capacità, esiste un “ecumenismo del sangue”, cioè la capacità dei cristiani di dare testimonianza fino a donare la vita. “Coloro che perseguitano Cristo nei suoi fedeli – ha detto Francesco – non fanno differenze di confessioni: li perseguitano semplicemente perché sono cristiani”. Il resto del mondo, dunque, ci riconosce come cristiani, come provenienti da un’unica grande storia, da un unico grande albero; e coloro che ci odiano in nome della fede ci accomunano nelle sofferenze, nelle umiliazioni, nelle persecuzioni. Le stesse persecuzioni patite di Cristo. È un’interpretazione profetica, questa di Francesco, non scontata e non dovuta, che si lega fortemente con il decreto Unitatis redintegratio che per l’appunto valorizzava la capacità, nei fratelli e nelle sorelle di tutte le Chiese e le comunità cristiane, a dare testimonianza a Cristo fino al sacrificio della vita. Queste testimonianze non sono mai mancate in questi cinquant’anni – basti pensare a cosa hanno patito e subito le Chiese orientali sotto i regimi comunisti – e continuano anche ai nostri giorni, in questo XXI secolo, che continua a essere un secolo di martirio.
Cambia la “geografia”
Tuttavia, nel ricordare il 50° anniversario del decreto sull’ecumenismo, dobbiamo prendere atto che la geografia mondiale della cristianità è profondamente mutata, e con essa è cambiata anche la situazione sociale e culturale. In un recente studio, lo storico statunitense Philip Jenkins – che tra l’altro è stato nostro ospite al convegno di Assisi “Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali” del novembre 2013 – ha evidenziato come il centro e la periferia del cristianesimo stiano totalmente mutando. Quelle che una volta erano le “periferie” della religione del Cristo, adesso invece stanno vivendo una fase di crescita del numero di fedeli, seppur in modalità totalmente diverse rispetto al passato. Mentre, al contrario, quello che fino a poco tempo fa era il cuore della cristianità, ovvero l’Europa e il cosiddetto mondo occidentale, ha ormai subìto la marea della secolarizzazione – a cui sta seguendo anche un processo di desacralizzazione e scristianizzazione – e un abbassamento del numero di fedeli e di vocazioni al sacerdozio. Questa analisi, ovviamente, non significa che il cristianesimo cesserà di essere vivo in Europa, ma ci costringe a interrogarci sulla nuova situazione e sulle modalità di dialogo ecumenico tra le varie Chiese cristiane – in un momento storico in cui, tra l’altro, la laicità dei rapporti tra Stato e Chiesa e la difesa della libertà religiosa, in Europa, sembra essere un dato acquisito e non soggetto a nuove rinegoziazioni. Anche se, è bene sottolinearlo, stanno emergendo nel mondo occidentale, istanze e modelli culturali che fanno del laicismo, dell’anticlericalismo e del relativismo culturale un’ideologia sempre più diffusa tra le classi dirigenti – e adesso anche nel popolo – che rischia di essere lesiva non solo per la Chiesa, ma per le basi stesse della società. Una “deriva antropologica” che ci esorta alla testimonianza autentica, come diceva Francesco, e alla ricerca di nuove forme di dialogo che superino alcuni impaludamenti che si sono formati nel corso degli anni.
Un frutto mancato
Bisogna riconoscere, due elementi fondamentali per quel che riguarda il dialogo ecumenico. Se è vero, infatti, che l’ecumenismo è uno dei grandi frutti del Concilio Vaticano II, attraverso il quale la Chiesa cattolica si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, è altrettanto vero, come ha recentemente evidenziato il card. Koch, che dopo 50 anni, “dobbiamo riconoscere che non abbiamo raggiunto l’obiettivo del dialogo ecumenico, ovvero una comunione ecclesiale vincolante e l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ordinati”. Anzi siamo costretti a riconoscere, dice sempre Koch, che nel corso del tempo “l’obiettivo del movimento ecumenico si è fatto man mano più confuso. Molti dei partner ecumenici hanno abbandonato l’obiettivo originario dell’unità visibile a favore di un mutuo riconoscimento delle diverse comunità ecclesiali”, cosicché “l’unica Chiesa di Gesù Cristo risulta essere una mera somma delle varie comunità ecclesiali esistenti”. Avere questa consapevolezza è un elemento di grande maturità. Perché ciò che è importante non consiste nel chiudersi in una stantia auto-commiserazione, ma all’opposto, è fondamentale ripartire, cercare nuove strade, invocare il soffio creativo dello Spirito santo su un percorso comune dal quale non si può tornare indietro. Come ha giustamente evidenziato Francesco, infatti, anche se “dobbiamo riconoscere che tra cristiani siamo ancora divisi, e che divergenze su nuovi temi antropologici ed etici rendono più complicato il nostro cammino verso l’unità”, tuttavia, ha aggiunto, “non possiamo cedere allo sconforto e alla rassegnazione, ma continuare a confidare in Dio che pone nei cuori dei cristiani semi di amore e di unità, per affrontare con slancio rinnovato le sfide ecumeniche di oggi”. La sfida odierna, dunque, consiste nel trovare nuovi percorsi comuni nel “mutato scenario di oggi”. Una strada, in parte delineata dal Papa, potrebbe essere la comune solidarietà verso i poveri e i bisognosi. Non si può non notare infatti come i “cristiani di diverse Chiese e comunità ecclesiali si adoperano insieme al servizio dell’umanità sofferente e bisognosa, per la difesa della vita umana e della sua inalienabile dignità, per la salvaguardia del creato e contro le ingiustizie che affliggono tanti uomini e popoli”. Questi sono punti in comune di grande importanza, che vanno valorizzati, incoraggiati e incanalati in un nuovo dialogo ecumenico.
Un testo da conoscere
Per i cattolici, poi, è assolutamente importante riconoscere l’importanza di questo decreto insieme all’insegnamento del Concilio Vaticano II. Questo potrebbe apparire come un fattore marginale, invece è di fondamentale importanza per il cattolicesimo. Quanti credenti conoscono il testo di questo documento? Quanti laici e consacrati cattolici riescono a comprenderne la novità storica, anzi la cesura, che segnò la promulgazione di quel decreto? Questo documento non può rimanere ad ammuffire in uno scaffale di libreria, ma necessita di una spiegazione, di una diffusione e di un’inculturazione su grande scala. E bisogna dire in modo netto e chiaro – lo dico soprattutto per le giovani generazioni e per coloro che hanno nostalgie ‘cesaropapiste’ – che l’atteggiamento dei cattolici nei confronti dei cristiani di altre Chiese e comunità ecclesiali cristiane non può che essere quello del dialogo, della comunione e della convivenza pacifica. “Appartengono ormai al passato – faccio mie, con decisione, le parole di Francesco – l’ostilità e l’indifferenza, che avevano scavato fossati apparentemente incolmabili e prodotto ferite profonde, mentre è stato avviato un processo di guarigione che consente di accogliere l’altro come fratello o sorella, nell’unità profonda che nasce dal battesimo”. Il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio su questo punto è chiarissimo: “Quelli che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Come ha ribadito con efficacia il card. Walter Kasper, “i cristiani non si sono allontanati principalmente a livello di discussioni e di dispute su differenti formule dogmatiche, ma si sono allontanati a livello di vita”.
Da dove ripartire
E proprio da qui dobbiamo ripartire. Dai piccoli gesti della quotidianità e, soprattutto, guardando con grande gioia ai grandi momenti che hanno segnato il dialogo ecumenico in questi 50 anni. Penso soprattutto, all’incontro tenutosi cinquant’anni fa a Gerusalemme tra il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli e Paolo VI, e anche all’evento commemorativo, svoltosi sempre a Gerusalemme, la scorsa primavera, tra il Patriarca ecumenico Bartolomeo e Papa Francesco. Le parole con cui Athenagoras sottolineò l’importanza dell’incontro di Costantinopoli rappresentano un monito ancora oggi per tutti noi. Disse il Patriarca: “È giunta l’ora del coraggio cristiano. Ci amiamo gli uni gli altri; professiamo la stessa fede comune; incamminiamoci insieme verso la gloria del sacro altare comune”. Carissimi fratelli, è giunta l’ora del coraggio cristiano! È giunta l’ora della carità ecclesiale a cui non si può rinunciare. E anche se l’obiettivo principale del movimento ecumenico – ovvero il ristabilimento dell’unità della Chiesa – non è stato raggiunto, e richiederà molto più tempo di quanto si era immaginato al tempo del Concilio, non si può assolutamente perdere la speranza! Se perdiamo la speranza, significa che perdiamo la fede nell’azione dello Spirito santo. Che invece continua a soffiare, imperterrito e incessante, anche nel mutato scenario di oggi. Spetta a noi saperlo intercettare. Spetta a noi saperlo comprendere. Spetta a noi saperlo incarnare. Concludo con due modeste esortazioni. La prima per tutti i cattolici, i quali sono invitati – lo dico con amore e tenerezza, senza indulgere in alcun ruolo cattedratico – a rileggere e a comprende appieno il decreto sull’ecumenismo. Perché da quel decreto non si può tornare indietro. Eventualmente, si può andare solo avanti. Ai fratelli nella fede delle Chiese cristiane, invece, vorrei esortarli – anche a loro, con la massima carità – a non cadere mai nella rassegnazione e, soprattutto, a prodigarsi negli sforzi per una rinnovata e costante preghiera comune. Un destino superiore, infatti, ci accomuna profondamente. Un “ecumenismo del sangue”, come ha detto Francesco, ci tiene insieme nel dare testimonianza al mondo. Questa è la volontà di Dio, questa è l’unica strada per dare credibilità al cristianesimo nella società odierna.