Proprio oggi cade il doppio 50° anniversario dell’approvazione – 21 novembre 1964 – di due documenti chiave del Concilio Vaticano II: la Costituzione Lumen gentium sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, e il decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio.
Riguardo a quest’ultimo tema, “la nostra Chiesa resterà verosimilmente un motore dell’unità, a condizione che ponga tale impegno a livello di ‘ministero dell’interno’” e non “di ministero degli esteri”, ossia che “si riduca il più possibile la distanza tra il dire e il fare”. Sono parole di padre Hervé Legrand, professore emerito di Ecclesiologia all’Institut Catholique de Paris, in conclusione della conferenza tenutasi a Roma su “Le direttive del decreto sull’ecumenismo si rivolgevano solo ai cattolici: quale bilancio dopo 50 anni?”. L’iniziativa era promossa dal centro Pro Unione.
“Si sottolinea troppo poco”, ha insistito padre Legrand, che Unitatis redintegratio “si rivolge esclusivamente a noi cattolici per dirci in che cosa, noi stessi, possiamo e dobbiamo approfondire la nostra vita cristiana, e correggere ciò che è necessario al fine di ridurre gli ostacoli all’unità dei cristiani”. Non è intenzione del documento rivolgersi “ai cristiani da cui siamo separati, per dire che cosa ci attendiamo da loro”. Sarebbe quindi un grave errore ridurre “l’impegno ecumenico cattolico al miglioramento delle nostre relazioni con gli altri cristiani, come se spettasse al ‘ministero degli affari esteri’”, mentre, secondo il Concilio, spetta al “ministero dell’interno”. In altri termini, si chiede che questo impegno divenga effettivamente “una dimensione della nostra pastorale e della nostra teologia”. Secondo padre Legrand, a frenare “l’apertura ottenuta grazie ai principi” dell’Unitatis redintegratio sono stati, tra l’altro, “uno stile di governo allontanatosi dalla sensibilità orientale”, e il Codice dei canoni delle Chiese orientali (1990), redatto in latino e tendente ad amalgamare tradizioni eterogenee “come quelle di Bisanzio e dell’Etiopia, dell’Armenia o dell’India siriana”, e promulgato unicamente dal Papa senza i Capi di tali Chiese.
Si tratta ora “di esaminare noi stessi, piuttosto che gli altri”, alla luce dell’insistenza dei due ultimi Papi sulla irreversibilità dell’impegno ecumenico. Anche se “il clima ecclesiale al riguardo non è più quello degli anni ’60-90”, il lavoro di fondo “proseguirà, anche su temi ardui come il Primato di Roma”.
Rilassamento degli ideali e nuove difficoltà
In occasione del 50° anniversario di promulgazione del decreto Unitatis redintegratio, si è riunita a partire da martedì l’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per unità dei cristiani. “Con il Concilio Vaticano II – aveva dichiarato già qualche tempo fa il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio – la Chiesa si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica”. Dopo 50 anni, “dobbiamo riconoscere che non abbiamo raggiunto l’obiettivo del dialogo ecumenico, ovvero una comunione ecclesiale vincolante e l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ordinati. Nel corso del tempo, piuttosto, l’obiettivo del movimento ecumenico si è fatto man mano più confuso. Molti dei partner ecumenici hanno abbandonato l’obiettivo originario dell’unità visibile a favore di un mutuo riconoscimento delle diverse comunità ecclesiali”, cosicché “l’unica Chiesa di Gesù Cristo risulta essere una mera somma delle varie comunità ecclesiali esistenti”. Alla vigilia della plenaria del Pontificio consiglio, il card. Koch ha quindi precisato che con le Chiese ortodosse, fino “al 1990 abbiamo fatto grandi progressi e siamo riusciti a sviluppare il consenso alle domande fondamentali della comprensione della Chiesa, dei sacramenti, del ministero. Dopo questo periodo, c’è stata però una grande crisi. I cambiamenti avvenuti in Europa nel 1989 non hanno infatti rappresentato un grande vantaggio per l’ecumenismo, perché con la svolta sono uscite dal nascondimento le Chiese cattoliche-orientali (la Chiesa greco-cattolica, soprattutto in Ucraina, in Romania, in Transilvania) che erano state bandite da Stalin, e tutto questo ha risvegliato le antiche accuse di proselitismo. Così, nel 2000 siamo arrivati alla chiusura di questo dialogo. Nel 2006, poi, l’abbiamo ripreso a Belgrado, e poi ancora nel 2007, con il famoso Documento di Ravenna, e da allora lavoriamo intorno alla questione del primato del Vescovo di Roma. Non è una questione semplice e ci sono sempre battute d’arresto. Ma sono convinto che su questa strada potremo ottenere ancora progressi”.