La settimana scorsa ho evocato la figura di san Giovanni Battista, uno dei simboli del tempo di Avvento. Torno sul tema. Il Vangelo di Luca (3,12-14) ci dice quale morale insegnasse il Battista ai pubblicani e ai soldati, diciamo gli impiegati e funzionari pubblici del tempo: “Per fare il vostro lavoro siete pagati; accontentatevi di quello e non approfittate della vostra posizione per rubare”. Una morale, si direbbe, minimale; non siamo ancora a quella sublime del Discorso della montagna. Però al giorno d’oggi parrebbe un sogno se si realizzasse almeno la morale del Battista. Ciò che colpisce in questo mare di scandali che ci assedia è appunto questo: uomini che raggiungono posizioni ambite – da cui traggono potere, prestigio e gratificazioni morali, oltre che ottimi stipendi – non sono ancora contenti se non ci aggiungono anche la ruberia, l’intrigo e la corruzione. È proprio vero che, in fatto di quattrini, l’umanità si divide in due categorie: quelli che non ce l’hanno per niente e quelli che non ne hanno abbastanza.
Inutile fare l’elenco di sindaci, sottosegretari, governatori, alti burocrati e via dicendo. Più sinistra e sconvolgente la notizia che forse il vizio è entrato anche nei sacri palazzi. Il procuratore dello Stato della Città del Vaticano ha aperto un’indagine per peculato a carico di due altissimi dirigenti dello Ior, sospettati di avere abusato del loro ufficio per intascarsi diecine di milioni di euro (ed erano stati chiamati per essere i risanatori). La cautela è d’obbligo, siamo ancora alle indagini, ma insomma stiamo parlando della magistratura vaticana, che a smuoverla ci vogliono le cannonate, non di uno di quei procuratorini politicizzati e/o malati di protagonismo. L’avidità non ha limiti e non conosce confini. E questo vale non solo per chi lavora nel pubblico, ma anche per chi lavora nel privato. Ma la colpa non è (solo) di chi ruba; è soprattutto della mentalità corrente, per la quale il valore di una persona si misura da quanti soldi ha in tasca, e a nessuno importa come li ha fatti.